Alla fine Elly Schlein ha rinunciato a mettere il suo nome nel simbolo del PD, per le elezioni europee

Dopo molte polemiche interne al partito ha deciso che non era il caso, notando come la proposta sia stata «più divisiva che rafforzativa»: è una pratica a cui il PD è da sempre piuttosto contrario

Nel simbolo con cui il Partito Democratico si presenterà alle elezioni europee di inizio giugno non ci sarà il nome di Elly Schlein, la segretaria del partito. Lo ha annunciato nel primo pomeriggio di lunedì lei stessa durante una diretta sul suo canale Instagram. È stato deciso poco prima della scadenza per il deposito ufficiale dei contrassegni elettorali, cioè appunto i simboli che identificano i vari partiti e che compariranno sulle schede, che andavano consegnati al ministero dell’Interno lunedì 22 aprile entro le 16. Schlein ha dunque rinunciato a una decisione che pure aveva presentato con convinzione negli ultimi giorni, e lo ha fatto per evitare che i malumori generati da questa eventualità avessero conseguenze negative nei rapporti interni al partito: «Nel dibattito di queste ore mi è sembrata più divisiva che rafforzativa, questa proposta», ha detto la segretaria.

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In effetti il confronto su questa possibilità si era fatto subito piuttosto convulso, anche a causa dello scarso preavviso con cui i collaboratori di Schlein avevano condiviso l’idea con gli altri membri più importanti del partito. Gli ultimi colloqui informali tra i vari dirigenti del PD per definire l’accordo sulle liste elettorali, cioè gli elenchi coi nomi dei candidati al Parlamento Europeo che figureranno sulle schede, si erano svolti nella serata di sabato, il giorno prima che venissero convocate la segreteria e la direzione nazionale, i più importanti organi decisionali del partito chiamati ad approvare le liste stesse: nessuno fino a quel momento aveva menzionato la possibilità di inserire nel simbolo il nome di Schlein. Solo nella mattinata di domenica Igor Taruffi, il principale consigliere politico di Schlein, aveva prospettato l’ipotesi ai vari esponenti della segreteria.

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Tutti erano rimasti un po’ perplessi, chiedendo tempo per valutare la cosa. Ma di tempo non ce n’era, perché subito dopo era stata convocata la segreteria. In quella riunione, quando Taruffi ha ribadito la convinzione di Schlein, la reazione generale era stata di sostanziale scetticismo: tra chi si è espresso in maniera critica c’era per esempio Debora Serracchiani, che al congresso del 2023 aveva sostenuto il rivale di Schlein e cioè Stefano Bonaccini, ma erano state esposte grosse perplessità anche da Peppe Provenzano e Marco Sarracino, due esponenti della sinistra interna al partito che sostiene Schlein.

Proprio le correnti di sinistra del partito si sono subito dichiarate contrarie. Quella contro l’inserimento dei nomi dei segretari nel simbolo del partito è una battaglia che vari esponenti di quell’area – da Andrea Orlando a Gianni Cuperlo, fino a Pier Luigi Bersani – hanno sempre portato avanti, considerandolo un espediente che sollecita una deriva leaderistica e poco collegiale del partito, secondo loro inadatta al PD. Ma anche il moderato Dario Franceschini, uno dei più importanti capicorrente che sostengono Schlein, ha espresso coi colleghi del partito la sua contrarietà.

Mettere il nome del leader nel partito è un’abitudine consolidata a destra: la pratica fu sdoganata da Silvio Berlusconi a partire dal 2006, ed è stata poi adottata più di recente anche da Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Per la sinistra, e per il PD in particolare, è invece un po’ un tabù. C’è un solo precedente, nel 2008, ma è un precedente atipico: il PD era stato fondato da sei mesi e il segretario del partito, Walter Veltroni, era anche il candidato presidente del Consiglio, perciò si decise di inserire il suo cognome nel simbolo. Da allora in poi, l’ipotesi di inserire il nome del simbolo non s’è mai davvero riproposta. Se ne discusse un po’ in vista delle europee del 2014, quando il segretario era Matteo Renzi: ma fu lui stesso a escludere l’eventualità troncando sul nascere la polemica.

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Se Schlein aveva preso in seria considerazione quest’ipotesi, così clamorosa per la tradizione del PD, era un po’ per enfatizzare la sua leadership internamente e un po’ per polarizzare lo scontro con Meloni: anche lei come Schlein si candiderà alle europee, e ha inserito il suo cognome nel simbolo di Fratelli d’Italia. La necessità di affermarsi internamente a livello personale aveva invece a che fare con il fatto che le liste elettorali nel complesso sono state definite dando grande spazio alla minoranza interna del partito che fa capo a Bonaccini, soprattutto se si considerano le iniziali intenzioni di Schlein: la segretaria aveva infatti fatto sapere di voler candidare cinque capolista donne direttamente scelte da lei al di fuori del partito nelle cinque circoscrizioni elettorali in cui è suddiviso il territorio nazionale per le europee. Alla fine non è stato così.

Nelle trattative che si sono svolte domenica mattina prima dell’inizio della direzione i consiglieri di Schlein avevano presentato una scelta molto netta ai dirigenti dell’area di Bonaccini: se si voleva escludere l’ipotesi di tornare alle cinque capolista donne indicate direttamente dalla segretaria, allora si sarebbe dovuto accettare il nome di Schlein nel simbolo. Ad avanzare alla direzione del PD questa proposta era stato proprio Bonaccini, dimostrando così di aver accettato il compromesso suggerito, e in una certa misura imposto, dalla segretaria. Alla fine però le polemiche, che avevano messo in subbuglio anche la maggioranza interna che sostiene Schlein, l’hanno indotta a ripensarci e ad accantonare l’ipotesi di inserire il suo nome nel simbolo.