Il “codice segreto” di Beethoven

Un violinista affascinato dai suoi manoscritti sostiene di avere compreso il significato di alcuni strani segni che utilizzava nelle sue composizioni

(Rischgitz/Getty Images)
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Nell’estate del 1825, dopo essersi ripreso da una grave malattia infettiva intestinale, il compositore tedesco Ludwig van Beethoven completò il Quartetto per archi n. 15 in La minore (op. 132), una delle sue opere più famose. Dato che il suo modo di scrivere le note sul pentagramma era piuttosto caotico e disordinato, quando Beethoven concludeva un manoscritto lo consegnava a un copista musicale, ossia una persona incaricata di scrivere da capo le partiture per renderle leggibili.

Il copista che trascrisse il Quartetto per archi n. 15 in La minore, però, tralasciò dei dettagli: si limitò unicamente a trascrivere le note, ignorando del tutto alcune notazioni che Beethoven aveva inserito nelle varie parti e che non facevano parte dei segni dinamici tradizionali utilizzati per indicare l’intensità sonora da dare all’esecuzione – ossia, semplificando, quelli che vengono indicati con l’abbreviazione di una serie di parole italiane come piano (p), mezzo piano (mp), crescendo (cresc.) e così via.

Per esempio, sotto il rigo di un pentagramma scrisse una sigla che ai tempi non utilizzava nessuno, ffmo, mentre in un altro punto dello spartito disegnò una specie di diamante rovesciato.

Per quasi due secoli, gli spartiti del Quartetto per archi n. 15 sono stati pubblicati senza la raffigurazione di queste notazioni così particolari. L’unico modo per vederle e analizzarle era visitare gli archivi di Vienna e Berlino per sbirciare i manoscritti originali di Beethoven, o in alternativa procurarsi dei facsimile, comunque poco diffusi.

Le cose sono cambiate nel 2013 quando, durante la preparazione di un concerto, il violinista statunitense Nicholas Kitchen lesse il facsimile della partitura originale del Quartetto per archi n. 15 in La minore di Beethoven. In un approfondito articolo pubblicato sull’Atlantic, la giornalista musicale S.I. Rosenbaum ha raccontato che, da quel momento, Kitchen sviluppò una specie di ossessione per gli strani segni dinamici che Beethoven utilizzava nelle sue partiture, che cominciò a considerare una specie di “codice segreto”. 

Per dinamica nella musica si intende la gestione dell’intensità sonora di una esecuzione, cioè del volume con cui uno o più strumenti suonano una certa opera. Soprattutto a partire dall’inizio dell’Ottocento, e poi ancor di più con l’affermarsi del romanticismo, l’accostamento di parti eseguite più delicatamente e soffusamente e di altre suonate più forte e vigorosamente diventò un aspetto centrale della composizione musicale.

Per indicare come vogliono che l’orchestra suoni i loro spartiti, i compositori annotano sugli spartiti le indicazioni standard: piano forte sono le due principali, ma esistono diversi altri gradi, come mezzo pianomezzo fortepianissimofortissimo e così via. Ci sono poi anche le notazioni che indicano i passaggi in cui cambiare l’intensità, come crescendodecrescendo. Sta poi agli orchestrali rispettare quelle indicazioni, e soprattutto al direttore d’orchestra gestire la resa complessiva dell’opera. Le notazioni della dinamica nella musica classica occidentale sono sempre state in italiano.

Non è inusuale che alcuni compositori utilizzino una notazione personale. Nell’Uccello di fuoco di Igor Stravinskij c’è un passaggio annotato come ffff, una  in più di quelle normalmente associate a estremamente forte, il grado massimo della dinamica tradizionale. Nella Patetica di Pëtr Čajkovskij c’è addirittura un pppppp. Si tratta però normalmente di eccezioni, mentre quella usata da Beethoven sembrò a Kitchen una notazione piuttosto sistematica e diversa da quella convenzionale.

Affascinato da quei segni così particolari, Kitchen decise di approfondire e scoprì che Beethoven li utilizzò nei suoi manoscritti durante tutta la sua carriera da compositore. In alcuni casi scriveva delle notazioni tutte sue (come per l’appunto ffmo), in altri utilizzava dei segni dinamici tradizionali come p e pp (piano e pianissimo), facendoli però seguire da una o due stanghette.

Approfondendo i suoi studi, Kitchen ha teorizzato che Beethoven utilizzasse una dinamica personale composta da almeno 23 notazioni diverse, in una scala che andava da fff (la maggiore gradazione d’intensità) a ppp (quella inferiore), intervallata da gradi che servivano a indicare delle sfumature: per esempio, secondo quanto ricostruito da Kitchen, nella dinamica di Beethoven ffmo indicava un’intensità leggermente superiore a ff ma lievemente inferiore a estremamente forte.

Negli ultimi anni la teoria di Kitchen ha suscitato un certo interesse tra chi si occupa di musica classica. Jeremy Yudkin, docente di musicologia della Boston University, ha detto che, quando ha parlato con Kitchen per la prima volta, pensava che «fosse un pazzo». Tuttavia, negli anni ultimi ha rivalutato le sue ricerche, che a suo dire rivelano come la dinamica di Beethoven fosse caratterizzata da «un vasto spettro di espressioni che gli studiosi di musica e i musicisti dovrebbero tenere in considerazione».

C’è anche chi ha mostrato un certo scetticismo verso la ricostruzione di Kitchen. Per esempio, intervistato da Rosenbaum, il docente di musica inglese Jonathan Del Mar ha detto che a suo parere gli eventuali segni anomali che si possono trovare nei manoscritti originali di Beethoven non sarebbero altro che «varianti estetiche» di segni dinamici standard. Secondo Del Mar, questa interpretazione è plausibile perché Beethoven era un perfezionista e di conseguenza, se avesse attribuito un qualche tipo di importanza a quei segni, si sarebbe assicurato di farli apparire anche nelle partiture stampate.

Lewis Lockwood, professore emerito di Harvard e condirettore del Centro per la ricerca su Beethoven della Boston University, ha spiegato che gli studi su queste notazioni sono stati a lungo sottovalutati perché, quando la musicologia divenne una disciplina accademica, Beethoven era considerato superato. Di conseguenza, anche se si tratta di uno dei compositori più importanti di sempre, «non esiste un esercito di studiosi di Beethoven». «È un campo minuscolo… terra sconosciuta», ha detto Lockwood.