L’anno del loong

«Quest’anno in Cina c’è una significativa novità rispetto ai draghi: i media cinesi e vari influencer (che per esserlo devono essere approvati dalla censura) insistono a dire che quando si parla in lingue diverse dal cinese non si deve dire “drago”, o sue varianti. La parola giusta è loong. Se il problema è che il drago è il simbolo e il soprannome della Cina nel mondo, la soluzione è rivedere come le persone del mondo intero si riferiscono ai draghi»

La danza del drago, Wuhan, Cina, 2009 (China Photos/Getty Images)
La danza del drago, Wuhan, Cina, 2009 (China Photos/Getty Images)
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Dal 10 febbraio siamo entrati nell’anno del Drago, considerato il più potente dei dodici animali dello zodiaco cinese. Dato che il capodanno lunare non è come quello gregoriano, i festeggiamenti vanno avanti per quattordici giorni, poi c’è la Festa delle Lanterne, e si entra appieno nel nuovo anno. Trattandosi del drago, così particolarmente importante per la mitologia cinese, ci si può aspettare di vedere decorazioni a drago e draghetto fino al 29 gennaio prossimi, quando si entrerà nell’anno del Serpente, anche detto il piccolo drago, dal momento che un po’ si somigliano.

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Si dice che chi nasce sotto al segno del drago sia fortunato, e quindi si attende un baby boom – anche se le nascite sono in calo un po’ in tutti i paesi che seguono il calendario lunare, dal Giappone alla Corea fino al Vietnam, passando ovviamente per la Cina.

Però quest’anno c’è una significativa novità rispetto ai draghi: i media cinesi, insieme a vari influencer (che per esserlo in Cina devono essere approvati dalla censura) stanno insistendo nel dire che quando si parla in lingue diverse dal cinese non si deve dire “drago” o sue varianti. La parola giusta è loong. Una trascrizione fantasiosa della parola che in lingua mandarina (il cinese ufficiale in Cina, diverso da altri tipi di cinese) sarebbe lòng, secondo la trascrizione più precisa, chiamata pinyin, che riporta anche i toni delle sillabe (le lingue sinofone sono tonali, e una sillaba ha significati diversi a seconda se è pronunciata lunga o corta, acuta o bassa, per dare una definizione un po’ prosaica). Come che sia, lo sforzo per imporre la parola loong è tale da incuriosire e cercare di capire perché il governo cinese si stia così impegnando a stabilire come viene chiamato un animale mitologico in altre lingue.

Partiamo dal fatto che la Cina viene spesso chiamata “il drago”, così come la Russia è “l’orso” e l’India “l’elefante”. L’anglicismo dragone poi è diffusissimo, però tralasciamolo per il momento dato che io almeno lo trovo davvero insopportabile. Fra l’altro i cinesi di etnia han, quella maggioritaria (per quanto il termine sia problematico come tutti quelli che vogliono descrivere delle “etnie”), si considerano “figli del drago”. Per i media e gli influencer cinesi che si stanno occupando dell’animale dello zodiaco che governerà astrologicamente i prossimi mesi, il problema è che i draghi, fuori dalla Cina, sono animali mitologici feroci, mentre in Cina sono buoni bravi gentili e portano fortuna. Ne consegue che se il drago è il simbolo e il soprannome della Cina nel mondo intero, bisogna rivedere come le persone del mondo intero si riferiscono ai draghi. La soluzione è convincerli che non di drago si tratti, ma di loong. Il messaggio implicito è che non c’è niente di cui aver paura: pur essendo una potenza autoritaria e antidemocratica, la Cina è patatosa come un loong.

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Il problema esiste concretamente: a Pechino avevo una coppia di amici catalani che si trovava sempre in grande difficoltà quando doveva spiegare ad amici cinesi la tradizione della giornata nazionale della Catalogna, Sant Jordi, San Giorgio, il 23 aprile. «E che cosa avrebbe fatto San Giorgio per diventare famoso?» «Ehm, ha ucciso il drago. Non quello, eh! Non il drago cinese, no no. Un altro». Il governo cinese sembra essere della stessa opinione, il drago cinese è pacioccone e buono, diverso da tutti gli altri draghi del mondo, mentre il drago d’Occidente è un animale feroce da cui bisogna proteggersi, tanto che chi lo uccide è venerato.

La visione è riduttiva in entrambi i casi: nella letteratura fantasy non cinese ci sono draghi di tutti i tipi, alcuni sono buonissimi e volano rapidi nei cieli per sconfiggere i cattivi. Nella letteratura fantastica gallese, per esempio, i draghi sono quasi sempre benevoli – uno infatti è anche sulla bandiera. Contemporaneamente ci sono draghi che fanno paura anche nella letteratura cinese: una delle mie storie preferite è quella del signore di Ye, che sarebbe vissuto nel periodo chiamato Primavere e Autunni (770-476 avanti Cristo) e amava i draghi appassionatamente. La storia che lo riguarda fu scritta tra il 25 e il 23 avanti Cristo da Liu Xiang, che era il bibliotecario dell’imperatore. La si può leggere nella sua raccolta di racconti, aneddoti, storie più o meno di fantasia intitolata Xinxu.

Il signore di Ye, dunque, decorava casa con draghi di tutti i tipi, li aveva dappertutto, sui muri e sugli oggetti di cui si circondava, dalle spade ai servizi da tè, scolpiti sulle colonne. Parlava di draghi e leggeva di draghi, era talmente innamorato dei draghi e impressionato dalla loro forza che, lusingato da tanta ammirazione, un drago gli si presentò, pensando di fare cosa gradita: mise la testa dentro la finestra e con la coda diede un forte colpo per terra proprio fuori dalla porta della sua dimora. A quella vista e a quel frastuono il signore di Ye si spaventò a morte e scappò via. A oggi non si sa dove sia finito.

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Guardando immagini antiche su ceramiche, dipinti, vestiti, è impossibile sostenere che il drago cinese sia sempre questo cucciolone: vola velocissimo e ha una forza ineguagliabile, ha la lingua aguzza che a volte spinge in fuori in modo inquietante, non sputa fuoco, però insomma, ha le squame e zampe che finiscono in artigli a cinque o quattro dita. Del resto, era il simbolo del potere che tutto crea e tutto distrugge e non poteva certo somigliare a Sdentato di Dragon Trainer nei film della Dreamworks. Più precisamente il drago era il simbolo dell’imperatore cinese, quindi doveva essere un misto di benevolenza e dura giustizia: ma solo se aveva cinque dita nelle zampe (i nobili potevano utilizzare oggetti o abiti decorati con un drago, previo permesso accordato dall’imperatore, solo se i suoi artigli avevano quattro dita soltanto).

Il fatto che quest’anno i media cinesi in lingua inglese abbiano insistito particolarmente con il loong rientra in un quadro politico più ampio. Per avallare la tesi secondo cui c’è drago e drago, o meglio, drago e loong, quest’articolo dell’agenzia di stampa Xinhua, che è quanto di più ufficiale possa esserci, cita Luca Nurmio, uno studente di Information Technology all’università del Lussemburgo, che ricompare un po’ dappertutto nel web cinese in lingua inglese con la qualifica di “studioso”. «Chiaramente, c’è una differenza» dice Nurmio a Xinhua, e continua: «Il drago cinese è amichevole». Contattato su Instagram, Nurmio mi ha raccontato che sta frequentando i corsi di cinese dell’Istituto Confucio della sua università e di essere stato intervistato mentre guardava il festival del capodanno lunare in Lussemburgo.

Sempre Xinhua, in un altro articolo, sostiene che perfino Erik Solheim, ex direttore dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente ed ex sottosegretario generale delle Nazioni Unite, è convinto che i draghi cinesi e occidentali siano profondamente diversi, ma anche che l’unicità del loong andrebbe spiegata e comunicata di più. Erik Solheim sa qualcosa di cultura cinese? Non risulta, anzi, prima di dimettersi dall’Onu per una questione di viaggi e rimborsi eccessivi fu molto criticato per il suo sostegno sfegatato alla Via della Seta, il programma di infrastrutture e commercio mondiale cinese, del quale fino a poco tempo fa faceva parte anche l’Italia. L’intervista di Xinhua si conclude con Solheim che dichiara: «Amo la Cina, la sua storia, cultura, persone, natura, cibo, e i recenti successi nello sviluppo e nell’ambiente».

La questione insomma è politica, non si tratta soltanto delle differenze tra loong e drago. Il governo cinese, in particolare da quando è guidato da Xi Jinping che ha eliminato il limite di mandati in modo da rimanere al comando fino a quando non lo deciderà lui, è molto più nazionalista di quelli che lo hanno preceduto (tendenza andata aumentando in modo esponenziale dagli anni Ottanta) ma è anche molto più determinato ad aumentare il suo peso politico e culturale nel mondo, anche influenzando direttamente il modo in cui la Cina viene vista all’estero.

L’operazione è molteplice: si modifica il modo in cui si deve nominare Pechino in inglese (prima era Peking, adesso guai a dirlo, deve essere Beijing, anche se la mia università, per esempio, in inglese continua a chiamarsi Peking University), si creano e finanziano Istituti Confucio in molte università del mondo per presentare un’immagine di una Cina colta, forte e benevola, si finanziano operazioni molto, molto meno soft di disinformazione, di cui si sono occupati di recente anche i giornali italiani. Per ampliare la propria influenza occorre ridare un nome alle cose e imporre nuove parole. Da un po’ di tempo, per esempio, quando i media cinesi in lingua inglese parlano del Tibet usano Xizang, la parola mandarina con cui è indicato l’altipiano e le regioni circostanti. Dal loong allo Xizang, passando per Beijing, le parole raccontano un programma politico, del quale è bene essere consapevoli: non fosse mai che la testa di un loong ci entri dalla finestra e sbatta la coda davanti a casa.

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Ilaria Maria Sala
Ilaria Maria Sala

Vive dal 1988 in Asia – dopo Pechino, si è spostata a Tokyo, poi Hong Kong, Shanghai, Hong Kong e Kathmandu, e ora di nuovo a Hong Kong. È autrice di diversi libri, l'ultimo, L'Eclissi di Hong Kong, Topografia di una città in tumulto, è stato pubblicato da Add Editore nel 2022. Fa parte di Lettera22. Scrive in italiano e inglese, parla una decina di lingue (più o meno bene a seconda della lingua) ed è poetessa e ceramista.

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