Chi sono le geishe?

Spesso al centro di stereotipi e fraintendimenti, sono ciò che letteralmente la parola indica: persone dedite all'arte

Tokyo, 22 maggio 2019 (AP Photo/Eugene Hoshiko)
Tokyo, 22 maggio 2019 (AP Photo/Eugene Hoshiko)
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La geisha è uno dei simboli che forse più rappresentano, in Occidente, il Giappone tradizionale ed è una figura al centro, ancora oggi, di stereotipi e fraintendimenti. Sebbene sia una figura complessa che si è evoluta nella storia, viene spesso erroneamente associata all’erotismo, alla sottomissione e in alcuni casi al lavoro sessuale. La geisha rappresenta invece ciò che letteralmente la parola indica: una persona (“sha”) dedita all’arte (“gei”) che incarna gli ideali di iki, cioè di un’eleganza e una raffinatezza che rendono naturali gesti e modi di essere appresi con pazienza e sacrificio.

La geisha è dunque una donna esperta nella danza, nel canto, nella musica, nell’arte di preparare e servire il tè, di conversare e intrattenere. Un altro fraintendimento ha a che fare con i quartieri destinati alle geishe (hanamachi, che significa “città dei fiori”), spesso considerati quartieri a luci rosse che attirano un tipo di turismo particolarmente irrispettoso. Qui si trovano non solo le sale da tè dove le geishe si esibiscono, ma anche le case in cui vivono.

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Le prime figure simili alle geishe fecero la loro comparsa nel 1600 ed erano uomini con il compito di intrattenere gli ospiti, mescolandosi tra loro, con danze, balli e racconti divertenti. Con il passare del tempo, verso la metà del Settecento, le donne vennero introdotte alla professione occupandola poi in modo esclusivo e verso la fine dello stesso secolo alle geishe venne dato un riconoscimento ufficiale attraverso l’istituzione di un ufficio che dettava precise norme di condotta legate alla loro professione, proprio per differenziarla da quella delle yūjo, le lavoratrici del sesso.

Tradizionalmente le geishe cominciavano il loro apprendimento fin da piccole. Una volta assegnate a un okiya, ovvero una casa di appartenenza, e sotto la supervisione della okasan, la proprietaria della casa, le bambine venivano avviate a differenti fasi di formazione per diventare prima maiko, cioè apprendiste, e dopo molti anni geishe vere e proprie.

L’apprendistato era piuttosto duro e in una prima fase coincideva con l’occuparsi dei lavori domestici e delle commissioni per la casa comune. Quando la okasan lo riteneva opportuno, le ragazze potevano abbandonare definitivamente le mansioni domestiche per concentrarsi nell’apprendimento delle arti tradizionali: imparavano dunque a suonare alcuni strumenti, a cantare, a danzare, a servire in modo adeguato tè e bevande alcoliche; ricevevano inoltre nozioni di poesia e letteratura e diventavano abili nel creare composizioni con i fiori.

Una volta diventate abbastanza competenti le donne potevano essere promosse al secondo grado dell’apprendistato: quello di minarai, nel quale l’apprendimento era fondato sull’esperienza diretta e sull’osservazione delle compagne più anziane ed esperte. Imparavano dunque le complesse tradizioni che hanno a che fare con il trucco, con la scelta e il metodo di indossare il kimono, oltre che l’arte dell’intrattenimento.

Una geisha, Tokyo, 1 gennaio 1960 (AP Photo/Akio Murakami)

Dopo il terzo, e più lungo, periodo di apprendimento le minarai diventavano maiko, cioè delle apprendiste che seguivano la compagna più esperta in tutti i suoi impegni pubblici imparando ad affinare soprattutto l’arte della conversazione e a sviluppare uno stile personale nell’esercitare le arti tradizionali. Infine, la maiko veniva promossa al grado di geisha, che manteneva fino al suo ritiro.

La fase di passaggio da maiko a geisha veniva celebrata tramite una cerimonia in cui cambiavano parte del loro abbigliamento. Le geishe, professioniste riconosciute che ricoprono la posizione più alta nella gerarchia, non necessitano più della sontuosità e dello sfarzo per essere apprezzate: la parte inferiore dei loro abiti, meno colorati e ricamati, non fascia più le loro gambe obbligandole a passi piccolissimi, non hanno alcuno strascico da sostenere con le mani, non hanno più nemmeno delle maniche lunghissime. E la larga fascia che avvolge i corpi come un corsetto, l’obi, oltre ad avere un nodo meno appariscente è fatta con meno tessuto ed è dunque meno pesante. Le calzature in legno sono infine più basse e meno impegnative, gli accessori più semplici e il rossetto, sul viso dipinto di bianco, principale simbolo della loro identità, viene steso in modo differente: le maiko lo portano solo sul labbro inferiore, mentre il labbro superiore rimane bianco come il resto del viso, le geishe truccano entrambe le labbra, ma solo la loro parte centrale.

L’addestramento per diventare geishe era molto oneroso e a carico dell’okiya che la donna, una volta divenuta professionista, poteva cominciare a ripagare attraverso il proprio lavoro.

Oggi, sebbene il numero di geishe sia molto inferiore rispetto al passato, il rituale di formazione non è molto diverso da quello di un tempo. Esiste però una sorta di albo professionale e il loro salario è fissato da uffici statali a cui le lavoratrici devono far sapere a quali incontri hanno partecipato e per quanto tempo. In questo modo le geishe non sono più vincolate economicamente all’okiya, né dunque rischiano di contrarre con la casa debiti che difficilmente in passato riuscivano a ripagare.