Film come “Dune” sono rari

Perché quasi mai film che costano così tanto, come i più grandi blockbuster contemporanei, hanno anche ambizioni autoriali come quelle del regista Denis Villeneuve

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La seconda parte di Dune, che è uscita nei cinema italiani questa settimana, segue quella uscita nel 2021 con la quale costituisce un unico film, diviso per ragioni commerciali e di fruibilità, che adatta il primo romanzo del Ciclo di Dune di Frank Herbert. Un terzo film che adatta il libro successivo, Messia di Dune, è stato già annunciato sempre con la regia di Denis Villeneuve per i prossimi anni. Ora che questa prima storia è completa una buona parte della critica, che nel complesso ha apprezzato Dune – Parte due, ne ha parlato come di qualcosa di unico (relativamente al proprio genere) o come del miglior film di fantascienza del decennio se non proprio il migliore dai tempi di un altro film molto rivoluzionario: Matrix.

Parte delle ragioni di questa unicità sta nel modo in cui Dune fa qualcosa che è stato fatto spesso, cioè unire il cinema commerciale con il cinema d’autore, ma a un livello inedito sia di spesa (quindi nel budget e nella promozione) sia di complessità (e quindi di ricerca artistica).

Denis Villeneuve è un regista franco-canadese che ha iniziato con film indipendenti e dopo il successo nel mondo cinefilo di La donna che canta, nel 2010, ha cominciato a lavorare a Hollywood facendosi notare nel 2016 proprio con la fantascienza, grazie a uno dei film che più hanno sorpreso, in quel genere, negli ultimi anni: Arrival. Quel film, insieme ad altri usciti nello stesso periodo come Interstellar (2014) di Christopher Nolan o Gravity (2013) di Alfonso Cuarón, cominciò a creare lo spazio per dei blockbuster, cioè film pensati in grande, finanziati con grandi budget e pensati per attrarre un pubblico molto ampio, che fossero anche film d’autore in modi più radicali rispetto a quanto questo fosse avvenuto in passato.

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Sia Arrival che Gravity non erano partiti come blockbuster, nonostante avessero dei cast importanti (Amy Adams nel primo, Sandra Bullock e George Clooney nel secondo) ma erano riusciti a incassare molto più di cento milioni di dollari, che è la soglia oltre la quale solitamente si parla di successo per un film americano. Arrival incassò 200 milioni in tutto il mondo e Gravity 700 milioni. Interstellar invece fu un film nato molto grande e poi di grande successo.

I tre avevano in comune il fatto di non rispondere alle regole dei blockbuster, cioè di non rispettare per forza le convenzioni del loro genere, di non avere il tipo di prevedibilità nella scrittura che nasce dalla necessità di attirare e compiacere un pubblico ampio. Erano invece film di una certa complessità, e quindi contraddittori, allusivi o intellettualmente stimolanti, e funzionavano molto visivamente e non solo a livello di trama e di dialoghi. Per esempio nessuno dei tre ha un “cattivo”, cioè non c’è qualcuno contro cui combattono i protagonisti, né un personaggio che li contrasti. In tutti e tre è l’esplorazione di qualcosa di sconosciuto o l’esigenza di rimanere in vita a stimolare l’avventura.

Qualcosa di simile lo si era visto a Hollywood già negli anni ‘70 o nei primi anni ‘80, quando film come Apocalypse Now di Francis Ford Coppola o Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg costavano molto e incassavano molto. Tuttavia non si trattava di operazioni provenienti da un grande studio di produzione, visto che molti di questi film dagli studios avevano solo una forma di appoggio economico oppure la distribuzione. La cosa fa una grande differenza perché significa che società come Warner o Universal nella maggior parte dei casi non rischiavano completamente i loro soldi, ma davano solo un contributo. Le due parti di Dune invece sono più che altro film della Warner Bros (i film moderni hanno quasi sempre più di un produttore, ma molti contribuiscono solo con piccole parti). Una buona parte delle ragioni per le quali la Warner corre questo rischio riguardano l’eventualità che la società venga venduta (e quindi la necessità di aumentare la percezione del suo valore) e le rassicurazioni che vengono dal cast, che comprende le due star più cercate e desiderate del momento: Timothée Chalamet e Zendaya.

Dunque se Dune appare come qualcosa di mai visto è perché da una parte i grandi film non sono mai stati grandi come in questi anni, cioè non si è mai speso tanto quanto ora per fare blockbuster, e dall’altra il film non sembra cercare a tutti i costi di compiacere o andare incontro al pubblico, ma anzi lo sfida come fa il cinema d’autore.

Le due parti di Dune non sono state girate insieme, come si fa spesso in casi simili per risparmiare, e sono costate rispettivamente 165 e 190 milioni di dollari, il che significa che per generare un profitto ognuna deve incassare ben più del doppio (perché bisogna aggiungere gli ingenti costi di marketing e considerare che per ogni biglietto venduto metà dei proventi va al cinema). Nel 2021 la prima parte incassò 430 milioni di dollari in tutto il mondo, dunque riuscì a superare di poco la cifra per non essere in perdita, e nonostante questo è considerata un grande successo. Quando uscì, infatti, il pubblico delle sale era molto ristretto, per effetto della pandemia da Covid-19 non tutti i cinema del mondo erano aperti, in molte nazioni funzionavano a capienza ridotta e il pubblico frequentava con diffidenza  gli ambienti chiusi per timore del contagio.

Un altro indizio di come i due film di Dune vadano più in là di quanto non facciano di solito i grandi film americani viene dal fatto che la Warner abbia consentito a Villeneuve di girare il suo film con una grande attenzione all’aspetto visivo, del tipo che solitamente si riserva al cinema d’autore. Ci sono in entrambi i film momenti di grande suggestione cromatica, atmosfere sofisticate, scelte audaci di bianco e nero e composizioni di grande gusto artistico.

Anche l’altro film che aveva cercato di adattare Dune, quello girato da David Lynch e uscito nel 1984, aveva tentato qualcosa di simile, cioè di sfruttare gli aspetti più profondi del romanzo per creare qualcosa a metà tra un film commerciale di fantascienza e azione e qualcosa di molto autoriale. Ma non era andata bene. Il produttore Dino De Laurentiis, insoddisfatto del risultato e temendo un clamoroso insuccesso, intervenne tagliando e modificando il montaggio a un livello che poi spinse Lynch a disconoscere il film e a rifiutarsi di parlarne ancora oggi.

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Dune inoltre è un tipo di adattamento che si presta alla creazione di qualcosa di molto complesso. Come lo stesso Denis Villeneuve ha spiegato a The Hollywood Reporter in occasione della presentazione della prima parte del film alla Mostra del cinema di Venezia del 2021, il romanzo è stato a lungo considerato impossibile da adattare. Perché è raccontato con molti monologhi interiori, pieno di spiegazioni e di dettagli che in un film commerciale tradizionale, uno che segua tutte le regole delle sceneggiature e della messa in scena classica di Hollywood, non funzionerebbero. Nel momento in cui questo Dune è diventato un progetto con ambizioni artistiche diverse dal solito tutto è cambiato: «Il film poteva facilmente crollare sotto il peso di tantissime spiegazioni fatte a parole. E abbiamo preso tutta una serie di decisioni fin dall’inizio per evitarlo». Queste scelte includono per esempio focalizzarsi sempre sul protagonista e seguire più che altro lui, nonostante ci siano moltissimi altri personaggi.

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Questo diverso approccio è stato spiegato con un esempio da una delle produttrici del film, Mary Parent, parlando di una grande e spettacolare sequenza di battaglia presente nella prima parte, di quelle che spesso si trovano nei blockbuster: «Ciò che fornisce l’impressione che anche l’azione in Dune sia diversa è il fatto che è sempre funzionale a un personaggio. Altri film in grandi scene come questa inseriscono per esempio un’inquadratura dall’interno delle navi che attaccano, con un pilota cattivo che non vedremo mai più, solo perché è fico. Denis [Villeneuve] invece no; ti tiene lì con Gurney [il personaggio al centro di quella scena] seguendo il suo punto di vista e la cosa ti uccide perché senti proprio che stanno per essere distrutti».

Nella sua recensione della seconda parte di Dune pubblicata su RogerEbert.com il critico e saggista Matt Zoller Seitz ha cercato di spiegare a modo suo la maniera in cui questo film mostra una complessità che solitamente il cinema commerciale americano non ha. Per Seitz, Dune non fa quello che solitamente i grandi film americani fanno nel tentativo di modernizzare le opere di provenienza. Non ha per esempio paura di mostrare i personaggi con cui ci dovremmo identificare mentre fanno cose orribili. Inoltre, Seitz aggiunge che il film non racconta solo ciò che avviene, ma prova ad adattare anche la parte trascendentale del romanzo, suggerendo che accadano cose «negli interstizi dell’esistenza, su altri piani o forse nell’anima delle persone», cose che non possono essere spiegate ma che possiamo intuire e con le quali possiamo entrare in relazione.