Gli animali domestici possono essere un problema per le scene del crimine

Se lasciati al chiuso senza cibo non si fanno troppi problemi a mangiare i cadaveri dei padroni: è un fattore rilevante ma spesso trascurato, anche perché difficile da accettare

Un cane sbadiglia sdraiato su un letto matrimoniale in una stanza illuminata da una lampada su un comodino
(Joe Raedle/Getty Images)
Caricamento player

Un recente studio pubblicato sulla rivista di medicina forense Forensic Science, Medicine and Pathology ha fornito una serie di suggerimenti e indicazioni metodologiche per investigatori, medici legali e anatomopatologi nei casi di ritrovamento di un cadavere in case in cui siano presenti cani o gatti domestici.

Insieme ad altre ricerche dello stesso tipo pubblicate negli ultimi anni, lo studio è considerato una conferma di un fatto noto ai professionisti del settore ma in alcuni casi ignorato per via della tendenza di molti ad attribuire agli animali domestici sentimenti e comportamenti tipicamente umani: se costretti senza cibo in ambienti chiusi, gli animali domestici possono finire col nutrirsi dei corpi in decomposizione dei propri padroni, alterandoli in modo significativo e complicando le indagini.

La frequenza di questi comportamenti da parte degli animali domestici verso i loro proprietari dipende da diversi fattori: principalmente dalle eventuali condizioni di isolamento sociale di quelle persone e, di conseguenza, dalla quantità di tempo in cui l’animale domestico rimane con il cadavere in mancanza di fonti di nutrimento alternative. Ma, per quanto sporadici, questi comportamenti hanno implicazioni importanti per la scienza forense e le indagini. La presenza di animali domestici costituisce infatti un fattore rilevante da tenere in considerazione nell’analisi dei traumi e delle lesioni presenti sui cadaveri, nella valutazione delle cause e nella stima dell’ora approssimativa della morte, e nel recupero della salma intera.

Lo studio è stato condotto da due ricercatrici e un ricercatore dell’Istituto di medicina forense dell’Università di Berna, in Svizzera, che hanno revisionato la letteratura scientifica esistente e hanno preso in esame sette casi svizzeri mai studiati in precedenza. Il gruppo ha descritto, schematizzandoli in un diagramma di flusso, i comportamenti professionali più adatti a garantire una raccolta sistematica e completa dei dati durante sopralluoghi in ambienti chiusi in cui ci sia il sospetto che cani o gatti abbiano interferito nella scena in cui viene trovato un cadavere.

(Attenzione: i link presenti nell’articolo rimandano a studi che contengono immagini di corpi mutilati e in avanzato stato di decomposizione, che possono risultare impressionanti e sgradevoli)

La tendenza molto comune ad attribuire agli animali domestici percezioni, comportamenti e sentimenti tipicamente umani può in alcuni casi indurre le persone a trascurare o ignorare altre considerazioni: in breve, a pensare che un animale che ha passato tutta la vita con una persona si asterrà, per affetto, dall’approfittare del suo cadavere per saziarsi in assenza di cibo. Una maggiore consapevolezza del fatto che in particolari circostanze cani e gatti considerino i cadaveri una fonte di nutrimento dovrebbe invece indurre gli investigatori a raccogliere più informazioni sugli animali presenti sulla scena o nelle vicinanze, anche quando la loro presenza non sembra rilevante.

La comprensione dei casi di necrofagia come parte di fenomeni naturali, secondo molte persone che li studiano, permetterebbe di ridurre gli errori nelle indagini e in generale di prendere decisioni più avvedute. E un approccio più scrupoloso da parte dei professionisti che si occupano di fare riscontri, ha scritto il gruppo, permetterebbe di accrescere un tipo di documentazione che attualmente nella pratica forense è limitata, per ragioni di negligenza o superficialità nella raccolta storica dei dati.

Una condizione piuttosto comune tra le persone il cui cadavere viene trovato in uno stato alterato da animali domestici è la sindrome di Diogene, un disturbo caratterizzato dall’isolamento sociale e da un’estrema trascuratezza nell’igiene del proprio corpo e del proprio ambiente domestico. La valutazione forense di questi casi di morte è spesso resa molto difficile proprio dallo stato di abbandono e degrado della casa della persona morta e dalla presenza di animali da compagnia mai o raramente portati all’esterno.

In un caso riportato in uno studio del 2015 il cadavere di una signora di 83 anni con la mandibola scarnificata fu trovato diversi giorni dopo la morte, causata da una cardiopatia ischemica, in una casa piena di cumuli di spazzatura e feci di cane, a Córdoba, in Argentina. Le mutilazioni post-mortem erano state causate da due cani domestici di razza mista, in mancanza di cibo a loro disposizione. Nonostante i cani fossero coinvolti nel caso soltanto indirettamente, le autorità ordinarono di sopprimerli entrambi per evitare che potessero mostrare quel comportamento alimentare in occasioni successive.

La necrofagia da parte di animali domestici non riguarda soltanto cani e gatti, che sono comunque i casi più studiati, per quanto rari. Uno studio pubblicato nel 1995 riportò il caso di una donna di 43 anni trovata morta nel suo appartamento, seminuda e con estese lesioni dei tessuti molli del volto. I riscontri portarono inizialmente a pensare a una violenza sessuale, ma i risultati dell’autopsia indicarono che la morte era stata provocata dalle conseguenze di una polmonite lobare e una pleurite in stadio avanzato, e che i segni sul volto erano stati causati dopo la morte dai morsi di un roditore. Nella gabbia di un criceto che la donna teneva in casa furono successivamente trovati numerosi pezzetti di pelle, grasso e tessuto muscolare, poi associati alla donna tramite tipizzazione del DNA.

A volte, se tessuti e organi interni da analizzare mancano perché sono stati mangiati, può essere difficile stabilire se la morte sia stata provocata da un’intossicazione da sostanze, oppure da un trauma. Come riportato nel recente studio uscito su Forensic Science, Medicine and Pathology, diversi casi oggetto della revisione scientifica mancano di informazioni fondamentali, perché gli investigatori che se ne occuparono non documentarono dettagliatamente la presenza di un animale domestico sulla scena. Quelle informazioni aiuterebbero, per esempio, a capire se certi rosicchiamenti e altre alterazioni presenti sui cadaveri siano stati provocati all’epoca da gatti o da cani: una distinzione non facilissima da fare soltanto sulla base dell’aspetto delle lesioni.

Come ha detto alla rivista Science Carolyn Rando, antropologa forense dell’University College di Londra, la limitata letteratura scientifica sui comportamenti necrofagi degli animali domestici verso i loro proprietari suggerisce che i cani si concentrano su faccia e gola, mentre i gatti su naso, labbro superiore e dita. L’ipotesi più condivisa tra i ricercatori è che la fame sia la motivazione principale dei comportamenti necrofagi, ma non è necessario che l’animale trascorra molto tempo affamato prima di assumerli, anche se «tutti vogliono pensarlo», ha detto Rando. Gli animali domestici tendono a preoccuparsi se il proprietario o la proprietaria non risponde agli stimoli, soprattutto in caso di morte violenta o improvvisa: leccare il viso in cerca di conforto, secondo Rando, può quindi rapidamente trasformarsi in una ricerca di nutrimento.

Il consiglio generale condiviso dal gruppo di ricerca dell’Università di Berna agli investigatori è di annotare le dimensioni, la razza e il numero di animali che trovano durante i sopralluoghi, anche quando non sembra importante farlo per comprendere il singolo caso (non lo è, nella maggior parte dei casi in cui è presente un animale domestico). Questo tipo di raccolta dei dati potrebbe comunque servire in un secondo momento per capire se un eventuale morso di un animale ha alterato una ferita, per esempio, influenzando altri fattori che servono a determinare l’ora della morte (la presenza di certi insetti che colonizzano le ferite, per esempio).

Secondo Gabriel Fonseca, odontologo forense della Universidad de La Frontera a Temuco, in Cile, e uno degli autori dello studio del 2015, le indicazioni del gruppo dell’Università di Berna è utile ad attirare l’attenzione verso informazioni spesso ignorate da molte persone. «Si possono avere strumenti favolosi, medici legali affermati e formati, o antropologi forensi, ma se non sono formati i primi soccorritori, la possibilità di perdere fonti di prova può essere elevata», ha detto Fonseca a Science.

Le indicazioni condivise nello studio recente sarebbero state di grande aiuto, secondo Fonseca, in un caso recente avvenuto in Cile in cui una donna anziana, apparentemente morta per cause naturali, è stata trovata con la faccia in parte mangiata dal suo cane. I risultati di una successiva TAC eseguita sul cadavere hanno mostrato un trauma profondo, fornendo agli investigatori informazioni fondamentali per arrivare a concludere sulla base di altre prove che la donna era stata colpita in faccia durante una rapina e che i morsi del cane avevano nascosto le ferite.