50 anni di Robbie Williams

Gli alti ma soprattutto i bassi di uno dei cantanti pop più famosi degli ultimi decenni, che ha recentemente raccontato molte cose inedite su di sé

Robbie Williams guarda un fotografo mentre sale su un taxi in cui si vede la sua immagine riflessa
(Ian Gavan/ Getty Images)
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«Ho fatto un buon lavoro. Un lavoro straordinario», ha detto Robbie Williams in un’intervista data lo scorso ottobre a Chris Heath, già autore della sua biografia Reveal. Williams, che oggi compie 50 anni ed è stato uno dei cantanti pop più famosi degli ultimi decenni, dapprima come membro dei Take That e poi come solista, ha venduto decine di milioni di dischi in tutto il mondo grazie a canzoni come “Let Me Entertain You” o “Angels”, ma nell’intervista non si riferiva a questo.

Spiega invece di aver «venduto in maniera davvero convincente» al proprio pubblico l’immagine di un uomo che non era «in caduta libera mentale e spirituale». È noto da tempo infatti che, oltre che da una fama precoce ed enorme, la vita e la carriera di Williams sono state condizionate da problemi di salute mentale e dipendenze: di lui e di questi argomenti si è tornato recentemente a parlare dopo l’uscita del documentario sulla sua vita prodotto da Netflix.

Nato il 13 febbraio del 1974 a Stoke-on-Trent, in Inghilterra, Williams era un adolescente come tanti quando a 16 anni fu reclutato dal manager Nigel Martin-Smith per far parte dei Take That. Era il più giovane della boyband che tra il 1990 e il 1995 ottenne un successo enorme, diventando un fenomeno della cultura pop in tutta Europa, Italia compresa. Poco più che ventenne Williams però lasciò la band sia per divergenze artistiche (avrebbe voluto fare canzoni più rap e hip hop, anziché ballate), sia per la rivalità con Gary Barlow, considerato il leader del gruppo, che creò divisioni al suo interno.

L’esperienza con i Take That smise di essere «divertente abbastanza in fretta», ha detto Williams a Heath. Ancora adesso, dice, lo fa riflettere su «quanto velocemente avesse compromesso la sua salute mentale, e quanto velocemente entrare nel mondo degli adulti» gli avesse fatto qualcosa da cui non è riuscito a riprendersi «per molto tempo, se mai» si è ripreso. In questo complicato passaggio dall’adolescenza all’età adulta, tra le molte pressioni subite da una popstar del suo livello, Williams cominciò ad avere problemi con l’alcol e a fare uso di cocaina come forma di sostegno psicologico.

«Nessuno esce dalla fama ottenuta da ragazzi con un buon equilibrio», racconta nel documentario di Netflix, in cui riguarda ore di filmati d’archivio dei principali momenti della sua carriera, quasi sempre sdraiato sul letto di casa sua, in mutande.

Nel 1996 Williams avviò la sua carriera da solista con “Freedom”, una cover di George Michael che raggiunse il numero 2 nella classifica dei singoli nel Regno Unito, e poco dopo cominciò a collaborare con l’autore e produttore Guy Chambers, che sempre nel documentario descrive come una delle due metà della «band di Robbie Williams». Assieme i due scrissero alcune delle hit più famose dei suoi primi album, tra cui “Rock DJ”, “Let Me Entertain You”, “Millennium” e “Feel”, ma soprattutto “Angels”, che il pubblico inglese amò moltissimo. Il disco del 1997 Life thru a Lens rimase nella classifica dei 40 album più venduti nel Regno Unito per 92 settimane, quasi due anni.

Fu in quel momento che la carriera di Williams esplose. Da allora quasi tutti i suoi album di studio sono stati al primo posto delle classifiche inglesi, come sette suoi singoli; ha ottenuto 18 Brit Awards, i più importanti premi musicali assegnati nel suo paese, tra cui quattro come miglior artista maschile. Oggi ha venduto più di 75 milioni di dischi e cantato negli stadi di mezzo mondo, facendo spesso il tutto esaurito.

Come ha sintetizzato in maniera efficace Time, è difficile esagerare troppo le dimensioni dell’influenza che Robbie Williams aveva come popstar all’apice della sua carriera, a cavallo del 2000. Dominava le classifiche musicali e si mostrava come «l’intrattenitore nato» che diceva di essere, ma era anche molto discusso sui tabloid, sia per l’immagine da “cattivo ragazzo del pop” che gli era stata associata, sia per le relazioni con Nicole Appleton delle All Saints o Geri Halliwell delle Spice Girls. Nel pieno del successo, Williams stava anche affrontando la depressione che gli era stata diagnosticata dopo aver lasciato i Take That, così come le dipendenze da alcol e droghe e i problemi di ansia e autostima legati alla sua carriera.

Nel 2002 interruppe la collaborazione con Chambers, che come mostra il documentario era anche un suo grande amico. Era convinto di poter controllare la propria carriera da solo, e al tempo stesso sembrava mostrarsi insoddisfatto delle canzoni che gli stavano dando un successo mondiale («Voglio scrivere “Karma Police” e invece scrivo “Karma Chameleon”», dice nel documentario, alludendo alle arcinote canzoni del gruppo rock alternativo dei Radiohead e alla hit pop dei Culture Club del 1983).

Soffrì di episodi depressivi e attacchi di panico anche sul palco. Uno dei più intensi, che commenta nel documentario, fu quello che gli venne prima di esibirsi davanti a 90mila persone a Leeds, nel 2006, e che a suo dire andò avanti per tutto il concerto. Williams lo descrive come «uno di quei sogni in cui sei sul palco e non conosci il copione da seguire o non sai quello che stai facendo», qualcosa di «terrificante». Non lo aiutò il fatto che sempre nel 2006 la stampa di settore mise in ridicolo “Rudebox”, il singolo che dava il nome al suo decimo album, dalle bizzarre influenze hip hop. In una recente intervista data a NME ha detto che quella canzone «segnò la fine della [sua] era imperiale», un po’ come “Angels” aveva consacrato la sua carriera.

Nel documentario Williams racconta che all’epoca era «dipendente» da una serie di farmaci «prescritti», tra cui speed, ossicodone e morfina, che definisce «the greatest hits», usando la parola che nello slang inglese indica “dose”, “tiro” (hits appunto). Tra il 2007 e il 2008 smise di esibirsi ed entrò in una clinica per disintossicarsi, riuscendoci. Nel 2010 si riunì ai Take That, che si erano sciolti il 13 febbraio del 1996 (il giorno del suo 22esimo compleanno) e riformati nel 2005, come co-autore e cantante nel disco Progress. Si esibì dal vivo assieme al gruppo, che però poi lasciò per continuare a concentrarsi sulla sua carriera solista e sulla sua famiglia, con cui oggi vive a Londra.

Negli ultimi anni ha continuato a scrivere dischi e esibirsi, soprattutto nel Regno Unito e in Australia, e il prossimo 6 luglio è previsto un suo grande concerto a Hyde Park, a Londra. All’inizio del 2022 Williams aveva detto di non bere alcol da 20 anni, mentre durante un concerto a Sydney lo scorso novembre ha aggiunto di aver «dovuto smettere di bere e prendere droghe, altrimenti sarebbe morto». Pochi giorni prima, durante un evento a Londra per presentare il documentario di Netflix, aveva definito «un viaggio traumatico» ripercorrere e affrontare gli alti e i bassi della sua carriera durante le riprese. «Mi sono immerso nella malattia mentale, nell’alcolismo e nella dipendenza da droghe. E poi mi sono messo lì a guardarli, tutti quegli episodi. Quello che per me è importante è riuscire a controllare parte della narrazione. Questo sono io che controllo parte della narrazione».