Insegnare l’opera a Tokyo

«Le battaglie più dure si combattono sulla nasalizzazione esagerata di alcuni suoni e inevitabilmente sul suono della u, che per i giapponesi è molto lontano dal nostro. Nel kabuki, nelle canzoni tradizionali e nella musica pop è tutto un risuonare di suoni nasali simili alla n, e le u sono tutte strette, come ingolate. Una tipica situazione pericolosa è l’aria Tu che le vanità nell’atto finale del “Don Carlo” di Giuseppe Verdi, che quest'anno aprirà la stagione della Scala di Milano, perché dopo tre minuti di preludio orchestrale il soprano deve cantare su quella u così delicata»

Durante l'allestimento dell'"Alcina" di Georg Friedrich Händel per la Persimmon Hall di Tokyo,
produzione Nikikai, direzione di Hidemi Suzuki
e regia di Eva Buchmann. Tokyo, 2018 (Flavio Parisi)
Durante l'allestimento dell'"Alcina" di Georg Friedrich Händel per la Persimmon Hall di Tokyo, produzione Nikikai, direzione di Hidemi Suzuki e regia di Eva Buchmann. Tokyo, 2018 (Flavio Parisi)
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Nella mia famiglia la passione per l’opera è ereditaria: il nonno di mio padre da anziano e cieco si faceva mettere i dischi e ascoltava le arie seduto su una poltrona in penombra; uno dei miei zii dopo il lavoro faceva delle corse in macchina per raggiungere i teatri d’opera in città lontanissime da dove si trovava, senza biglietto, finendo per corrompere la bigliettaia ed entrare a opera già iniziata, o almeno così raccontava. È lo stesso zio che quando mi portava in automobile in giro per Roma metteva le cassette con le opere cantate da Di Stefano e Del Monaco e se dall’autoradio partiva un pezzo che gli piaceva, accostava e spegneva il motore per concentrarsi, afferrarmi il braccio e farmi ascoltare bene le sue arie preferite, per poi ricordarmi che avevamo delle zie Da Ponte che sostenevano di essere imparentate con Lorenzo, il grande librettista di Mozart. Non so quanto ci credesse, ma è una di quelle cose che si tramandano nella nostra famiglia.

L’opera mi è sempre piaciuta, ma in Italia la studia poco persino chi fa il conservatorio, specie se non è un cantante, e poi forse si comincia a diventare veri spettatori di teatro musicale dopo i 25 anni. Invece in Giappone il canto gode di uno status più diffuso e familiare: lo si fa in coro in modo piuttosto serio fin dalle scuole elementari, non sapere leggere la musica è considerato una forma di analfabetismo, ed è molto facile che durante una festa o un evento ci sia un numero musicale con dei cantanti, che solitamente finisce con un brano cantato insieme a tutto il pubblico a cui è stata distribuita la parte all’ingresso. Il termine canzone, usato in italiano, si usa per riferirsi ai brani vocali che vanno dalla romanza da camera alla canzone napoletana, fino ad arrivare alla musica pop del dopoguerra. È abbastanza comune trovare persone che erano state giovani negli anni Sessanta esaltarsi al ricordo di Bobby Solo, Domenico Modugno, Mina, Gigliola Cinquetti, e i loro brani sono regolarmente presenti negli elenchi dei karaoke, altra invenzione giapponese che testimonia la passione di questo popolo per il canto.

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All’inizio del 2004 in Italia c’era il governo Berlusconi bis, il più longevo della storia repubblicana, io mi ero laureato in hindi da pochi mesi e questo titolo di studio, combinato con il diploma in oboe preso al conservatorio, mi avrebbe garantito anni di ricerca frustrante di lavori insoddisfacenti e malpagati. Almeno questo è quello che immaginavo, ma non ne avrei mai avuta la prova perché partii subito per un viaggio di laurea in Giappone, con l’idea che se mi fosse piaciuto vivere lì, ci sarei rimasto. Il biglietto dell’aereo, ovviamente, si faceva ancora nelle agenzie di viaggio e non sul web. In lingua giapponese sapevo salutare, ringraziare, conoscevo i nomi di qualche film, di qualche attore e qualche parola volgare; la Tokyo di quasi venti anni fa era uguale a come è oggi, sempre in trasformazione e quindi molto diversa da come è adesso. Internet era già il modo più comodo e diffuso per informarsi e comunicare rapidamente, ma non ce lo si poteva portare addosso con gli smartphone, quindi per seguire le indicazioni stradali e raggiungere un posto bisognava stampare la mappa a casa prima di partire, oppure chiedere ai poliziotti dopo essere entrati nei loro piccoli uffici davanti alle stazioni. Io, che non avevo la stampante, tracciavo delle cartine essenziali con la penna per spostarmi dalla guesthouse dove abitavo nei primi mesi a dove avrei sostenuto dei colloqui di lavoro. A Tokyo c’era ancora l’onda lunga di alcune mode degli anni Novanta che adesso sembrano remotissime come le ragazze con la faccia spalmata di fondotinta scuro chiamate ganguro o i ragazzi dai capelli lunghi che scendevano a cascata sulle spalle, e si poteva fumare praticamente ovunque.

Un giorno mi contattarono dall’Istituto Italiano di Cultura, dove avevo cominciato a insegnare italiano, perché un gruppo di musicisti aveva bisogno di una lezione sulla poesia italiana del tardo Cinquecento. Ci incontrammo e mi spiegarono che l’Associazione Musica Antica Italiana in Giappone voleva saperne di più riguardo al poeta Battista Guarini e all’opera Il Pastor Fido. Mentirei se dicessi che sapevo esattamente di chi si trattasse: in testa mi rimanevano solo dei ricordi opachi di qualche lezione di storia sul teatro musicale delle origini. Ma mi preparai e la lezione andò bene; i membri dell’associazione erano giapponesi musicisti di professione o amanti della materia che praticavano la musica italiana antica e barocca e si interessavano di poesia di quel periodo. Mi sorprese molto che alcuni di loro avessero portato in classe la Gerusalemme liberata in versione originale con traduzione giapponese a fronte. Parlammo di metro, ritmo, musicalità e mi azzardai a definire i poeti italiani di Cinquecento e Seicento psichedelici, considerando la loro tendenza a immergere l’ascoltatore in stimoli simili alla sinestesia. Dopo questo incontro uno degli organizzatori fece il mio nome a un direttore di orchestra che doveva dirigere il Giulio Cesare in Egitto di Händel e aveva bisogno di un istruttore di italiano per i cantanti: ho cominciato a fare questo lavoro da quel momento. E non ho mai smesso.

Da allora il mio compito è dirigere la pronuncia dei solisti e cercare di migliorare la musicalità del loro fraseggio utilizzando metrica, accenti, sequenze armoniche, sempre mantenendo l’attenzione sulle regole della dizione. Collaboro alle produzioni di opera e lavoro anche per privati e università musicali tenendo corsi di storia dell’opera, dizione, metrica e interpretazione poetica; sono fortunato perché posso continuare a studiare una cosa che mi piace molto con la scusa che devo saperne sempre di più per insegnarla meglio.

Le facoltà di canto lirico delle università musicali sono frequentate tipicamente dalle figlie di buona famiglia, libere di praticare la musica senza troppa ansia di dover trovare per forza un impiego, anche se poi chi ha la capacità è in grado di trovare lavoro in serate nei locali, in recital e nei migliori casi sui palchi dei teatri d’opera giapponesi. Come per tutti gli altri strumenti musicali, anche il canto è un hobby praticato appassionatamente da tantissimi giapponesi che quindi hanno bisogno di insegnanti privati da reclutare tra i diplomati.

L’opera in lingua italiana è sbarcata in Giappone nel 1903, data della rappresentazione dell’Orfeo ed Euridice di Gluck, ma ho l’impressione che nei decenni lo studio della lingua italiana sia stato preso come un accidente fastidioso da risolvere traslitterando sbrigativamente con i caratteri sillabici giapponesi e concentrarsi più sulla musica. Per modificare questo approccio cerco di fare appassionare i cantanti alla musicalità della poesia che nel libretto esiste prima della composizione musicale: i suoni delle vocali e il ritmo dei versi. I cenni di metrica previsti dai programmi italiani delle scuole superiori insegnano a misurare la lunghezza dei versi, ma si impara veramente come suona un ottonario? Ho provato a ripensare il tutto e per presentarlo ai miei studenti del primo anno, quando inizia un nuovo corso, distribuisco a tutti un foglio con affiancati due testi in italiano: un articolo di qualche rivista e dei versi che devono provare a leggere a voce alta. Regolarmente per tutti è più facile leggere la poesia, che si tratti di

La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove
(Dante Alighieri, “Paradiso”, vv. 1-3)

o di

Io sono il numero zero
facce diffidenti quando
passa lo straniero in sclero
teso vero, vesto scuro,
picchio la mia testa contro il muro
(Sangue Misto, “Lo straniero”)

perché, come dicono con un’espressione giapponese, la poesia poggia i passi sul ritmo delle rime.

Studiare insieme ai cantanti giapponesi il suono dell’italiano è divertente perché permette anche a me di capirne di più della mia lingua grazie al loro sguardo esterno. Le loro difficoltà nell’aprire bene le vocali quando si pronuncia cantando, per esempio, sono rivelatorie di quanto alla lingua giapponese basti poco movimento muscolare mentre in Italia, anche nelle conversazioni quotidiane, si usi molto il diaframma e si spalanchi la bocca.

Le battaglie più dure si combattono sulla nasalizzazione esagerata di alcuni suoni e inevitabilmente sul suono della u, che per i giapponesi è molto lontano dal nostro. Questa distanza si percepisce ascoltando la musica tradizionale giapponese: nel kabuki e nelle canzoni tradizionali ma anche nella musica pop è tutto un risuonare di suoni nasali simili alla n, e le u sono tutte strette, come ingolate. Una tipica situazione pericolosa è l’aria Tu che le vanità nell’atto finale del Don Carlo di Giuseppe Verdi, che quest’anno aprirà la stagione della Scala di Milano, perché dopo tre minuti di preludio orchestrale il soprano deve cantare su quella u così delicata. Ormai condizionato dal mio mestiere, ho sempre paura che una pronuncia stretta e poco sonora rovini tutta l’atmosfera e invece del personaggio verdiano di Elisabetta di Valois si finisca per avere di fronte una persona giapponese che lo interpreta.

Messe a posto le vocali aperte e quelle chiuse, resta la cosa più importante: regolare il ritmo degli accenti e l’intenzione delle frasi che devono essere cantate, una cosa abbastanza difficile per chi non è abituato a parlare, discutere, arrabbiarsi o amarsi in italiano.

Qualche volta in Italia mi chiedono, incuriositi, come mai qui la lirica sia così amata e se non sia difficile per i giapponesi capire un’arte così complicata e lontana dalla loro cultura. E in effetti sul palco si canta una lingua vecchia e quasi incomprensibile anche per gli italiani, e anche se il pubblico legge i sottotitoli giapponesi, potrebbe venire il dubbio che gran parte del senso si perda nella traduzione. Eppure secondo me è più facile trovarsi in situazioni da Lost in translation nella vita reale che guardando un’opera lirica: innanzitutto i personaggi e gli avvenimenti sono profondamente umani poiché si parla di tradimenti, invidie, gelosie, amori infelici, vendette, miserie, grandiosità, rivincite, sconfitte e altre infinite passioni con cui tutti sono prima o dopo entrati in contatto. E poi c’è qualcosa nell’arte e nella bravura di chi la mette in scena che scavalca le barriere di lingua e cultura, forse grazie anche al meccanismo che ci spinge a voler credere alle storie che vediamo narrate.

Lo si vede anche andando a uno spettacolo di kabuki o di senza saperne molto: tutto quello che avviene sul palcoscenico, compreso il suono, se fatto ad arte, risucchia nella bellezza chi è seduto tra il pubblico, indipendentemente dalla sua cultura o lingua di origine. La spinta verso la perfezione della forma è un elemento molto importante nella pratica artistica giapponese ed è uno dei motivi per cui l’opera lirica è così rispettata qui: tutti percepiscono il grande lavoro che parte dal libretto e si arricchisce del lavoro di compositore, cantanti, direttori, orchestre, costumisti, coreografi, registi, macchinisti, sottotitolisti e altre schiere di persone che lavorano a una produzione. In fondo chiunque può godere la visione di un film straniero, anche proveniente da culture lontanissime, leggendo i sottotitoli, perdendosi valanghe di senso della lingua originale, di sottotesti, riferimenti, sfumature che il tempo e la distanza geografica cancellano, ma non importa.

L’importante, forse, è la bellezza. Chiaramente più se ne sa e più si può godere di uno spettacolo, ma questo vale tanto per gli italiani quando vanno all’opera che per i giapponesi al kabuki. È meglio, prima, farsi un’idea della trama leggendo il riassunto, e spesso per aiutare a fare mente locale in molti programmi di sala giapponesi c’è un grafico con i personaggi e delle frecce che indicano i rapporti che li legano: amore non ricambiato, marito e moglie, amanti, fratelli, rivali in guerra o in amore.

Per capire quanto il pubblico giapponese non si faccia spaventare dalla varietà dei linguaggi si può accendere la televisione al mattino e guardare uno di quegli sceneggiati in costume ambientati nell’epoca dei samurai: tutti usano linguaggi desueti da guerrieri e cortigiane, e uno straniero che conosca solo la lingua contemporanea si troverà pesantemente spaesato, ma per quel genere va usato quel modo di esprimersi, anzi la distanza tra i linguaggi arricchisce l’esperienza della visione. Un altro esempio è il doppiaggio della serie televisiva Beverly Hills 90210 degli anni Novanta in cui i personaggi parlavano un giapponese dal tono totalmente artificiale, fatto per riprodurre il suono della parlata dei ragazzi in California. Nella messa in scena la lingua più è varia e meglio è, in Giappone, e gli esperimenti fatti lungo gli anni con le opere liriche tradotte in giapponese sono stati abbandonati per sopravvivere ormai solo nelle rappresentazioni per i bambini ai quali è meglio fare capire le parole perché non si perdano nei meandri della storia.

Quando le compagnie mi chiedono di seguire i cantanti per una produzione di opera lirica io approfitto per rileggere i testi che la riguardano: Orlando furioso di Ariosto per la Alcina di Händel, Beaumarchais o le memorie del mio improbabile avo Lorenzo Da Ponte se si tratta delle opere italiane di Mozart. Prima che comincino le prove cantate incontro i solisti con cui leggo il testo, cerchiamo di capire il contesto e i riferimenti storici e letterari della loro parte, facciamo degli esercizi di pronuncia simili a quelli che facevo quando andavo dal maestro di oboe perché comunque si tratta di emissione d’aria, e ripesco anche i ricordi delle lezioni di coro al conservatorio, durante i pomeriggi in cui, da liceale, pensavo di non stare imparando niente e avrei voluto essere ovunque tranne che lì.

Nella fase in cui entrano in gioco i movimenti dettati dal regista c’è un momento di stallo: il corpo dei cantanti diventa il centro delle spinte artistiche di molti: il poeta, il compositore, il direttore e il coreografo-regista. Sotto il peso dello stress una delle prime cose che si dimenticano è il suono corretto di una lingua straniera: so che non posso mollare e mi inserisco nel contrasto spesso già teso tra gli ordini del direttore e del regista, inseguo i cantanti e li rubo agli altri per riportarli alla dizione corretta.

Arrivati alla prova generale ormai quello che è fatto è fatto, io non sono tra quelli che devono esibirsi sul palco e tutto il mio lavoro è in mano ai cantanti: posso godermi lo spettacolo dalla mia poltrona in sala e apprezzare le variazioni di ogni replica. Quasi sempre sono l’unico in tutto il teatro a capire le parole di chi canta senza bisogno di leggere i sottotitoli, ma voglio pensare che lo sforzo che i cantanti fanno per cantare in un italiano comprensibile rende la loro esibizione migliore, più bella.

Alla fine, terminate tutte le repliche e quando niente può più andare storto si fa una grande cena liberatoria con tutti i musicisti, le maestranze, il direttore e il regista. Si festeggia, si beve, si chiacchiera e dopo che ho salutato tutti e sto tornando a casa, da freelance di questo lavoro mi girano nella testa le parole di Leporello alla fine del Don Giovanni.

Ed io vado all’osteria/a trovar padron miglior

o, in alternativa,

La mia condizione
è di straniero nella mia nazione
(“Sangue Misto”)

Flavio Parisi
Flavio Parisi

È nato in Friuli dove si è diplomato in oboe al conservatorio, poi ha studiato lingue e culture dell’India a Venezia e si è trasferito a Tokyo, inizialmente per il viaggio di laurea. Vive insegnando la pronuncia dell’italiano ai cantanti lirici e la storia del melodramma. È ospite fisso della trasmissione televisiva Cool Japan sulla rete nazionale NHK, dove parla di cibo e altro. Su Twitter è @pesceriso, lo stesso nome che aveva il suo blog sul Post.

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