La moda mi apparve a Viareggio

«Erano i meravigliosi anni Ottanta e mentre la diversità diventava un terreno di scontro, la moda organizzava le armi per una disperata difesa. Non ero l’unico, lungo quella passeggiata, a trasformarmi in qualcun’altro. In pochi anni il modo di vestire era passato dall’essere qualcosa di anonimo e insignificante all’assomigliare a una vera e propria arma di riconoscimento sociale»

Passeggiata di Viareggio, Bagno Bertuccelli (Sailko via Wikimedia)
Passeggiata di Viareggio, Bagno Bertuccelli (Sailko via Wikimedia)
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Viareggio è una città piantata tra il mare e le montagne, costruita su un vasto territorio, paludoso fin dal tempo dei Romani, che a partire dagli inizi del Novecento è diventata una delle località balneari più famose d’Italia, soprannominata per questo “La Perla del Tirreno”.

È un luogo abituato a vivere in maniera stagionale che sussulta tra alti e bassi come il mare che la bagna. A momenti è una grande città invasa da folle di turisti, a momenti è solo un piccolo paese di provincia in cui tutti si conoscono, in cui tutti parlano. Il suo altalenare è il riflesso di un’identità mai raggiunta che sta ancora lì a cercare un baricentro tra cantieri navali per ricchi, sottoscala affittati a bagnanti agostani, il popolo della gente che lavora quattro mesi l’anno e quello che per quattro mesi l’anno vuole sentirsi in vacanza a tutti i costi, nuotando in un mare opaco, circondato da spiagge rumorose.

E poi c’è l’inverno, desolato e piovoso, che rende la città spettrale, fuori luogo, senza però mai farle perdere la dignità di sentirsi una perla, concedendo a quelli che ci vivono di risplendere, appena esce il primo raggio di sole che illumina le palazzine liberty.

Quando la mia famiglia si è spostata a Viareggio era il 1975 e io avevo nove anni. Arrivato da un piccolo paesino nascosto tra i monti della Lunigiana, tutto mi sembrava enorme, misterioso, affascinante, bellissimo. Insieme allo spaesamento che mi sono portato dietro per tutti i dieci anni in cui ho abitato lì, ho capito che esisteva un asse intorno al quale ruotava la vita locale, un unico grande punto di riferimento, un confine ma anche un approdo, un palcoscenico sterminato su cui operavano il giudizio sociale, l’amicizia, la ferocia, gli amori e i tradimenti, i successi e i fallimenti: la Passeggiata.

La Passeggiata è una lingua di cemento pedonale che percorre tutta la lunghezza di Viareggio, da Lido di Camaiore fino alla Darsena. Da lì si accede agli stabilimenti balneari e lì, nel tempo, sono stati aperti i più bei negozi, bar e ristoranti della Versilia, con l’aspirazione neanche troppo nascosta di diventare Nizza o Montecarlo ma con la visione imprenditoriale di Lignano Sabbiadoro. Nel suo periodo di maggior splendore, tra gli anni Settanta e Ottanta, la Passeggiata era la meta preferita dei ricchissimi in vacanza al mare, prima che Forte dei Marmi, più understated e chic, la soppiantasse per sempre e prima che Pietrasanta, ancora più understated e chic, soppiantasse Forte dei Marmi.

Nel luogo privilegiato dell’apparire e del mostrarsi erano state piazzate, come riserve di artiglieria pesante in un bunker di guerra, le armi per difendersi dal mondo circostante, per trasformarsi in tutto quello che non si era ma si sarebbe voluti essere, per raggiungere il massimo dell’accettabilità sociale o per rifiutarla del tutto: una schiera infinita di modernissimi negozi di abbigliamento.

Il mio primo incontro con la moda, all’inizio degli anni Ottanta, è avvenuto su quel lungo stradone con ancora qualche meraviglioso edificio liberty sopravvissuto ai bombardamenti della Seconda guerra mondiale e con ben sei cinema, uno dopo l’altro, che oggi sono diventati negozi di fast fashion.

Per chi come me era appassionatamente attratto da quel mondo così affascinante e lo vedeva sui giornali, trovare i negozi di Armani, Versace, Ferrè o Coveri significava poter toccare un pezzo di fantasia irraggiungibile e magari anche comprarsela, in minima quantità, perché i prezzi erano già altissimi.

Ricordo chiaramente la sensazione di straordinarietà che ho provato quando ho portato a casa un giubbotto di gomma tagliato al laser di Versace. Un oggetto imponente, strano, appariscente, completamente fuori dalla norma. Ricordo come nell’indossarlo assumevo un potere ultraterreno che mi permetteva non solo di dimenticare le amarezze, ma di sentirmi superiore ai bulli del mio liceo, per i quali ero un frocetto, un divertente passatempo che esisteva per essere sbeffeggiato, spintonato, a volte menato.

Erano i meravigliosi anni Ottanta e mentre la diversità diventava un terreno di scontro, la moda organizzava le armi per una disperata difesa. Non ero l’unico, lungo quella passeggiata, a trasformarmi in qualcun’altro. In pochi anni il modo di vestire era passato dall’essere qualcosa di anonimo e insignificante all’assomigliare a una vera e propria arma di riconoscimento sociale.

Dopo gli anni Settanta, alle battaglie collettive si erano sostituite le singole identità, l’uno aveva sostituito il tutto. Lo sfacelo che l’Italia aveva attraversato con il terrorismo nero e rosso, lo stragismo, i mancati colpi di stato e le logge massoniche avevano proiettato gli italiani in una ristrettissima dimensione personale, in cui l’universale, cioè gli altri, non erano compresi. Anzi, c’erano ma erano solo osservatori. Il tentativo di sfasciare il nucleo della famiglia e lo stato borghese era fallito e quello che mi ritrovavo in mano, io e tutta la mia generazione, era un mondo senza reti di protezione, senza l’idea del collettivo, con solo il nuovo mito del successo, dei soldi, dell’apparire, dell’essere in quanto apparenza. Ed era tutto esattamente lì. Metà si chiamava Viale Margherita e meta Viale Marconi: la Passeggiata di Viareggio.

Proprio all’inizio, verso la Darsena, c’era il posto più stupefacente: con un design radicalmente minimalista e poca, pochissima luce, la boutique di Giorgio Armani assomigliava più a un tempio taoista che a un negozio. Mia madre ne era un’assidua frequentatrice e per me era tutto così perfetto, così astratto rispetto al reale, da diventare un rifugio. Il reale era fatto di eccesso, di televisione commerciale, di appetiti sessuali incolmabili, di liti familiari, di chiasso, di rumore. Lì dentro invece c’era tutto quello che io potessi desiderare: il rigore come segno di ascesa, il silenzio, la mascolinizzazione del femminile, il senso di superiorità donato da abiti molto costosi, ancora difficili da capire per la massa. Perché l’idea che un vestito potesse darti un potere vero semplicemente prima non esisteva.

Ancora non sapevo che Giorgio Armani aveva iniziato a costruire il suo impero e la sua visione delle cose dopo aver incontrato Sergio Galeotti poco distante da lì, a Forte dei Marmi nel 1966. Lui trentaduenne, Sergio ventunenne, si erano entrambi nutriti di quei paesaggi cittadini, di quella realtà provinciale, prima di arrivare al successo.
Armani, nato a Piacenza, viveva da sempre a Milano e per lui, come per quasi tutti i milanesi, la costa tirrenica era un soleggiato luogo di vacanza chic in cui i ricchi stavano imparando che vestirsi, cioè sembrare, era molto più importante di essere. Aveva appena abbandonato il suo lavoro di visual merchandiser in Rinascente per entrare a lavorare in Hitman, l’azienda di Nino Cerruti, già famosissima al tempo per la produzione di abbigliamento maschile di alta qualità.

Galeotti invece era nato a Pietrasanta e della Versilia conosceva tutto, dalla vita notturna, alla socialità glamour, fino ai primi negozi di abbigliamento che stavano tracciando la rotta del nuovo Made in Italy. I due si erano innamorati subito, sia in senso affettivo che professionale, e avevano deciso di aprire uno studio di consulenze a Milano che li avrebbe portati nel 1975 a fondare la Giorgio Armani.

Quello che a me sembrava uno stile austero e asciutto, a mia madre e agli adulti della generazione precedente sembrava un’uniforme, anzi forse un simbolo. Qualcosa che aveva gli attributi della potenza, della riconoscibilità, dell’invincibilità.
È in questo momento che molte donne e uomini che passeggiavano tranquillamente vicino al mare di Viareggio scoprivano di essere bombe a orologeria pronte a detonare, abbracciando un’idea di successo che si era vista solo nei film. Quello che a me sembrava un rifugio per loro era un’arma.

Dalla parte opposta dello spettro estetico e culturale stava Gianni Versace. A volte, nelle fredde mattinate di febbraio, non andavo a scuola. Prendevo il vecchio motorino Garelli che mi aveva lasciato in eredità mio nonno e andavo a trovare Silvano, direttore del negozio di Versace di Forte dei Marmi. C’era una boutique di Versace anche a Viareggio, ma al Forte c’era Silvano che forse è stata la prima persona a capire com’ero e che cosa volevo essere e in quelle mattinate deserte mi accoglieva in quel negozio fatto di marmi neri come fosse casa sua.

Mia madre, dopo qualche anno, aveva deciso di abbandonare la sofisticata semplicità di Armani per accogliere il ben più riconoscibile massimalismo di Gianni Versace. Forse aveva capito che la discrezione in provincia funzionava poco e che un vero tratto distintivo poteva venire solo da abiti fortemente visibili, colorati, anche sexy. Lei, come molte altre donne, stava imparando a riconoscersi nel proprio corpo e, in qualche modo, a usarlo.

Anche Gianni Versace veniva a passare allegri weekend a Viareggio dopo che nel 1972 aveva cominciato a collaborare con un’azienda di Lucca chiamata Florentine Flowers. Versace era nato a Reggio Calabria ma da poco si era trasferito a Firenze insieme alla sorella Donatella e aveva cominciato a fare consulenze. Anche lui, poco dopo Armani, nel 1978, aveva iniziato a creare una collezione con il proprio nome e anche lui aveva scelto la Passeggiata di Viareggio tra le prime location per una boutique monomarca.

Mentre da Armani avevo assorbito l’idea di rigore che portava alla trascendenza, da Versace imparai, in una maniera molto poco conscia, che la moda poteva essere un luogo di accettazione della diversità. E anche se il mio gusto personale rimaneva piantato tra i grigi tailleur del signor Armani, dentro la boutique di Versace respiravo una cosa semplice che non avevo ancora imparato a capire: la libertà. Non immaginavo che Versace stesse insegnando quella lezione a molti. Trasportando nella triste Milano, direttamente da Reggio Calabria, una dose esplosiva di erotismo, aveva aperto le porte a un racconto che in quel momento non era considerato accettabile. L’esibizione conclamata del lusso e dell’erotismo era, per Versace, un valore positivo che dalla profonda provincia arrivava alla capitale morale d’Italia, passando anche per Viareggio.

Raramente mi capita di tornare a Viareggio. L’ultima volta l’ho fatto per incontrare una persona. Mi sono seduto a un tavolino all’aperto di Fappani, il bar più frequentato della Passeggiata, e di fronte a me c’era una bellissima donna che mi ha spiegato come un pezzo fondamentale della nascita del Made in Italy si fosse svolto proprio lì. Adriana Bacci era stata per anni sposata con Didi Chelotti, insieme a lei creatore della boutique omonima che fino a qualche anno fa stava a poca distanza da dove eravamo. Alla fine degli anni Settanta Chelotti era diventato uno dei negozi più importanti di Italia, scoprendo Walter Albini, il vero padre del Made in Italy, che morirà a 42 anni dimenticato, anzi oscurato dal successo dei designer successivi: Gianfranco Ferrè, Giorgio Armani e Gianni Versace, tra gli altri. Quel meraviglioso negozio era un punto focale intorno al quale molti giovani designer avevano costruito il loro successo e trovato consigli fondamentali per la loro carriera. Un posto in cui riconnettersi alle persone che compravano i loro vestiti, per osservarle e cercare di comprenderle.

Mentre guardavo i suoi occhi limpidi e il vento che le muoveva leggermente i capelli, Adriana parlava ininterrottamente, felice di raccontare una storia vecchia alla quale col tempo il mondo aveva smesso di pensare. Le sue parole formavano un quadro vivo, vibrante di realismo e di gioia per quel periodo magico. Improvvisamente mi sembrava chiaro come mai da un pezzo così piccolo di Italia, in qualche chilometro di cemento, fossero passati molti di quelli che avevano contribuito a creare una cosa che oggi chiamiamo Made in Italy e che è diventata un concetto universale ma che in realtà ha un’anima radicata nel più profondo dei particolari: la provincia italiana.

Andrea Batilla
Andrea Batilla

Dopo aver collaborato con alcuni dei più importanti marchi del Made in Italy come Romeo Gigli, Trussardi, Aspesi, Cerruti, Les Copains, Bottega Veneta, si occupa di consulenza strategica per aziende del lusso ed è investment consultant per il gruppo Mayhoola. Per cinque anni è stato direttore della scuola di moda dell’Istituto Europeo di Design di Milano, sviluppando una stretta collaborazione con Franca Sozzani, direttore di Vogue Italia. Il suo ultimo libro Come Ti Vesti (Mondadori, 2023) è un saggio sul significato storico e culturale del modo di vestire occidentale. Ha un profilo Instagram con più di 80 mila followers che si occupa di divulgazione e critica di moda. Ha co-diretto il semestrale PIZZA e scritto per Domani, Dust Magazine, Il Corriere della Sera, Il Post.

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