• di Davide Maria De Luca
  • Storie/Idee
  • Giovedì 19 ottobre 2023

Com’è fatta una guerra

«Alla maratona di Kiev il conflitto appare solo sotto forma di performance. Un militare che si prepara a correre con il suo giubbotto antiproiettile. Il minuto di silenzio per i difensori della patria impegnati al fronte. I veterani mutilati con protesi artificiali che inaugurano la gara con un giro simbolico. Per il resto potremmo essere a Londra, Berlino o Roma. Ruslan, neolaureato in ingegneria della sostenibilità, mi dice che quando leggeva Rainer Maria Rilke si chiedeva come facesse lo scrittore austriaco a indossare il frac e preoccuparsi del suo aperitivo nel pieno della Prima guerra mondiale. E aggiunge: "Ora ho capito"»

La linea di partenza della maratona (Foto Kyiv City Marathon)
La linea di partenza della maratona (Foto Kyiv City Marathon)
Caricamento player

Sto correndo da circa due ore in un gruppo di una mezza dozzina di persone. Indossiamo tutti abiti sintetici dai colori sgargianti tipici dei runner e pettorine numerate. Ci guida una ragazza sui 35 anni che non sembra sentire la fatica. Sulle spalle porta una specie di bandiera su cui è scritto 5:20: il tempo che manterrà per tutta la gara, misurato in minuti per chilometro. Il cielo è coperto e la temperatura fresca, condizioni ideali per correre una maratona. Il problema è che in qualsiasi momento un allarme aereo potrebbe costringerci a buttarci a terra nel bosco ai lati del percorso. Questa infatti non è una maratona come le altre. Sto correndo a Kiev, nella capitale di un paese in guerra.

C’è ben poco però a ricordarmi questa bizzarra circostanza. Il villaggio degli atleti, da dove siamo partiti questa mattina, ha tutto l’occorrente. Spogliatoi, deposito bagagli, bagni chimici, padiglioni degli sponsor e una bancarella che vende bibite energetiche e integratori. Non manca nemmeno la musica pop a tutto volume e l’annunciatore dalla voce entusiasta.

Se si intravede la guerra, è solo sotto forma di performance. Un militare che si prepara a correre con il suo giubbotto antiproiettile. Il minuto di silenzio per i difensori della patria impegnati al fronte. I veterani mutilati con protesi artificiali che inaugurano la gara con un giro simbolico. Per il resto potremmo essere a Londra, Berlino o Roma.

La prima volta che ho sentito parlare della maratona di Kiev era maggio e mi trovavo in Ucraina per la prima volta, ospite insieme ad altri giornalisti di un press tour che ci avrebbe portati in giro per la capitale e i suoi dintorni. Mentre con i colleghi passeggiavamo intorno al nostro albergo a Podil, il quartiere della movida universitaria, guardavamo con stupore i locali affollati e le strade dello shopping piene di persone.

Faticavamo a riconnettere quelle scene di normalità con la realtà di un paese coinvolto nel più grande conflitto in Europa dai tempi della Seconda guerra mondiale. Ma dopo un primo momento di stupore ci siamo adattati rapidamente. Gli allarmi aerei sono diventati un fastidio più che un motivo di panico, la sera scherzavamo nei dehors e dopo il coprifuoco delle 23 continuavamo a bere nel bar dell’hotel.

In alcuni angoli particolarmente paranoici dei social network queste scene di vita nelle grandi città ucraine hanno alimentato la tesi secondo cui la guerra in Ucraina non sarebbe altro che una finta. Ma basta fermarsi a parlare con il primo passante per scoprire che tutti qui conoscono direttamente qualcuno che ha perso la casa o la vita nel conflitto.


Il minuto di silenzio alla Maratona di Kiev per i soldati impegnati al fronte

Il contrasto tra il fronte e la vita nelle retrovie, però, colpisce anche gli ucraini. Mesi dopo, quando mi ero ormai trasferito in Ucraina, Ruslan, neolaureato in ingegneria della sostenibilità, mi ha detto che quando leggeva Rainer Maria Rilke prima della guerra si chiedeva come facesse lo scrittore austriaco a indossare il frac e preoccuparsi del suo aperitivo nel pieno della Prima guerra mondiale. «Ora ho capito».

Settant’anni di pace in Europa occidentale ci hanno fatto dimenticare che alla fine il pericolo è un parametro relativo. Pensiamo che vivere in un paese in guerra significhi passeggiare scrutando costantemente il cielo, pronti a cercare un rifugio al primo rumore sospetto. Ma il nostro cervello non si è evoluto per restare costantemente in modalità “attacco-fuga”, lo stato di alterazione fisiologica che ci prepara ad affrontare i pericoli. Date alla mente umana il tempo di abituarsi alle nuove circostanze e la soglia del pericolo percepito si alzerà da sola. Anche nel mezzo di una guerra abbiamo un disperato bisogno di stare in pace.

Ho incontrato Ruslan durante un viaggio a Kharkiv, città universitaria per eccellenza e capitale culturale dell’Ucraina. Qui, a pochi chilometri dal confine con la Russia, i missili arrivano prima che l’allarme aereo abbia tempo di entrare in funzione. Ma nonostante il pericolo, ogni sera centinaia di ragazzi si danno appuntamento di fronte a Piana Vyshnia, la catena di locali che serve liquore alla ciliegia. Se ti avvicini a parlare con loro ti chiedono se vuoi unirti a uno dei “party segreti” che vanno avanti per tutta la notte, ben oltre il coprifuoco.

A metà del percorso della maratona, le endorfine cominciano a entrare in circolo. Mi sento inebriato, come dopo un paio di bicchieri di liquore alla ciliegia. La stanchezza sparisce. Le gambe sembrano diventate due molle scattanti. Mancano circa venti chilometri all’arrivo. Come molti maratoneti dilettanti decido che è il momento di spingere.

In passato la maratona di Kiev era una delle più toste d’Europa. Secondo la leggenda, la capitale dell’Ucraina è stata costruita su sette colli, come Roma, e anche se i colli probabilmente non sono davvero sette, basta una passeggiata per accorgersi che Kiev è una città fatta di discese e salite spaventose. Risultato: fino al 2021 la maratona aveva un dislivello di quasi settecento metri. Per fare un paragone, quella di Roma ne ha meno di duecento.

La guerra, però, ha portato alcuni cambiamenti. Il primo: nel 2022 la maratona di Kiev non si è corsa. Il secondo: quest’anno ha ricevuto un nome molto più altisonante. Addio Maratona Wizz Air di Kiev, benvenuta Kyiv nezlamnosti marafon: maratona di Kiev l’indistruttibile. Terzo: il percorso è stato cambiato. Con il quartiere governativo chiuso alla circolazione dal filo spinato e il rischio di attacchi aerei, il tracciato è stato spostato dal centro città alla sabbiosa isola di Trukhaniv, un lembo di terra nel mezzo del fiume Dnipro coperto di alberi. Significa correre in uno splendido scenario naturale e soprattutto lungo un percorso perfettamente piatto.

L’isola di Trukhaniv vista dalla Vecchia Kiev (Foto Davide Maria De Luca)

Un pensiero mi galvanizza: forse oggi riuscirò a fare il mio tempo migliore. Fino ad ora ho corso soltanto la maratona di Roma a marzo, chiusa in tre ore e 40 esatte. Sono meno allenato di sei mesi fa – il trasferimento in Ucraina ha imposto un prezzo salato alla costanza dei miei allenamenti – ma penso di avere qualche vantaggio: il tracciato è piatto e senza sanpietrini, che con la loro superficie irregolare costringono le gambe a uno sforzo aggiuntivo. E c’è meno gente. A Roma, con oltre diecimila partecipanti, si passa un bel po’ di tempo a superare chi è più lento, allungando il percorso.

Posso farcela, mi dico mentre supero di slancio il gruppetto che ho seguito fin dall’inizio della corsa. Mentre oltrepasso un corridore dopo l’altro penso a quante persone in età militare stanno partecipando alla corsa. Quasi tutte sono potenziali reclute. La propaganda russa descrive l’Ucraina come un paese alla ricerca disperata di soldati da mandare al fronte e dove i reclutatori sono costretti a usare le maniere forti per trovare nuova carne da cannone. Ma nelle grandi città è vero l’opposto. Basta una serata nei bar di Podil per rendersene conto.

L’esercito ucraino conta circa un milione di soldati, mentre nel paese ci sono almeno dieci milioni di maschi in età militare. A dispetto del nome, la “mobilitazione generale” non riguarda tutta la popolazione. Il governo ucraino non avrebbe le risorse per reclutare e addestrare tutti i maschi arruolabili, nemmeno se ne avesse l’intenzione.

E l’intenzione non c’è. Il governo vuole proteggere l’economia e le nuove generazioni. A essere richiamati sono soprattutto coloro che hanno fatto esperienza militare ai tempi dell’Unione Sovietica o nei primi anni dell’indipendenza. Chi parla inglese o ha un’istruzione superiore, come ingegneri o lavoratori dell’informatica, di solito non viene richiamato.

Coscritti delle classi lavoratrici e volontari della classe media intellettuale sono la spina dorsale delle forze armate ucraine. Mentre il fronte si riempie di maschi di mezza età, i soldati ucraini hanno in media quarant’anni e sono molti i cinquanta e perfino i sessantenni, le strade delle città ucraine, così, restano piene di ragazzi.

È una situazione che può generare problemi più gravi di qualche utente social che accusa la guerra in Ucraina di essere una messa in scena. Masha, una psicologa militare, mi ha detto che dopo un anno e mezzo di guerra, il sentimento che ha visto crescere di più nei soldati che ha in cura è il senso di distacco e di frustrazione nei confronti dei civili che sembrano essersi dimenticati che c’è una guerra in corso.

«La normalità della vita a Kiev e in altre città fa parte di un divario sociale che continuerà ad allargarsi mentre la guerra continua e i soldati ucraini, molti dei quali sono già esausti, continueranno a fare di tutto per combattere giorno dopo giorno», ha scritto in questi giorni la giornalista del Kyiv Independent Asami Terajima.

Se la storia ci insegna qualcosa è che grandi masse di soldati che si sentono dimenticati o addirittura traditi non sono mai una buona notizia. Ma le conseguenze saranno difficili da comprendere finché al fronte si continuerà a sparare. I frutti di questa pianta malata li vedremo soltanto dopo la fine della guerra.

Davide Maria De Luca
Davide Maria De Luca

Giornalista, vive a Kiev. Ha lavorato per il Post, la Rai e il quotidiano Domani, occupandosi di politica italiana, esteri ed economia. Il suo ultimo libro, Bergamo e la marea (Minimum Fax), è un reportage sulla prima ondata della pandemia a Bergamo.

STORIE/IDEE

Da leggere con calma, e da pensarci su