Il dialetto padrone del mondo

«Nascosto negli interstizi della nostra parlata quotidiana, il dialetto resiste, anche se inespresso e dimenticato, a rappresentare un antico nucleo incandescente che cova sotto la cenere, e forse sotto ogni lingua. Ogni tanto viene a galla intorbidando l’italiano, addensando grumi di senso, increspando la superficie levigata della lingua che usiamo, per poi tornare a depositarsi sul fondo come una bestiola acquattata, e qui dorme finché qualcosa non la sveglia di nuovo»

La piana di Castelluccio in Umbria (GIORGIOTASSIFOTOGRAFO)
La piana di Castelluccio in Umbria (GIORGIOTASSIFOTOGRAFO)
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Rintracciare qualcuno, in un paese, cercandolo a partire dal suo nome di battesimo può risultare impossibile. Mi capitò quando tornai “da forestiera” nei luoghi da cui venivano i miei genitori per lavorare come rilevatrice del censimento dell’agricoltura. Sull’intestazione del questionario c’era il nome “Stella Basili” – una novantenne con il mio stesso nome di battesimo – e l’indirizzo. Ma raggiunta la via, non riuscivo a trovare la casa perché i numeri civici erano quasi ovunque mancanti, così cominciai a chiedere indicazioni. Nessuno conosceva una donna con quel nome, non in quella via. Soltanto dopo molti giri e altrettante domande a vuoto, a qualcuno venne in mente che poteva trattarsi della signora Gina. Chiesi alla diretta interessata da dove venisse quel nome, che non poteva essere un diminutivo o un nomignolo imparentato con Stella, e lei con una scrollata di spalle rispose: «Che te sàccio cocca, me se dìcia cuscì». «Mi si dice così».

Nominare qualcuno è un atto di appropriazione, una prova dell’esistenza in quell’angolo di mondo, che per chi ci abita è il mondo intero. E spesso a quel primo nome – secondo solo cronologicamente al nome di battesimo – vengono associati altri nomi, spesso nomignoli che raccontano in tono beffardo qualcosa della persona cui vengono affibbiati. Può essere una vera fioritura, come quella usata da mio nonno per chiamare mia nonna: Gina, ’Ngilina, Ninetta, a seconda dell’umore (di nonno) e del momento. Questi erano i nomi che usava quando parlava con lei, quando doveva chiamarla. Quando parlava di lei, i toni cambiavano, un po’ per pudore, un po’ per quella vocazione alla canzonatura da cui nasce, come da un grande e reboante big-bang lessicale, il dialetto. E insieme ai toni cambiavano i nomi: nonna diventava allora “la vecchia” (anche quando vecchia non era ancora) o “la rencòtta”, nomignolo che fa riferimento a un impasto lievitato che durante la cottura si affloscia, abbassandosi.

Nel mondo partorito dal dialetto ogni cosa è nominata: i campi avevano un nome, le strade, i crocicchi, anche i fossi – come il fosso de ʼNcanà  (il Rio Canale) di una filastrocca che spesso recitava nonno – avevano un nome. E gli alberi, gli animali, le erbe. Come li cristià – un’umanità contadina ormai scomparsa – anche il resto del mondo era nominato. La parola del dialetto, diceva Pirandello, è “la cosa stessa”, per questo nominando il mondo, il dialetto se ne appropria, lo disegna a sua immagine, lo ri-crea. Vale lo stesso quando a essere nominate sono le persone.

Ne Il Vanto e la Gallanza, un libro sulla lingua della civiltà contadina, ossia il dialetto, Giuseppina Pieragostini, l’autrice, scrive di aver appreso il proprio nome soltanto a scuola. Per tutti – la famiglia, i compaesani – era Pippinetta de Sgattó. E anche per sé stessa. Quel nome, Giuseppina, le suonava straniero. «Come te si dice?», «Come te se mintùa?», «Chi fija sci?» si chiede, con leggere variazioni a seconda del luogo, a un “forestiero”, a una persona che si vede per la prima volta. Non «come ti chiami?»: il nome, che prima restava per lo più una voce nel registro anagrafico del comune di nascita e una sequenza di lettere sulla lapide del cimitero, è una conquista della modernità, che porta con sé il riconoscimento dell’esistenza dell’uomo come individuo, con la sua interiorità assolutamente unica e irripetibile.

Il nome di una persona non era quello dato dai genitori alla sua nascita, ma quello che la comunità le attribuiva, unito al soprannome di famiglia: Spreca, Tartari, Filiciu, Vecciòlu, Sgattò, Poètu. Nomi che venivano da qualche caratteristica della famiglia, da una bizzarria, da un vizio, da un’abitudine, da un fatto primigenio – una specie di peccato originale, soltanto più colorito e canzonatorio. Ogni persona veniva ri-nominata dalla comunità, l’unica che aveva un reale potere nomenclatore, e quel nome le restava addosso per tutta la vita, fino a disperdere la memoria del “vero” nome, di fatto scalzato dal nome “vero”, quello a cui si rispondeva e che ti definiva e identificava rispetto agli altri.

Per questo la prima cosa che fa chi se ne va da un posto è dirazzare, ossia scrollarsi di dosso e liberarsi di tutti i soprannomi e nomignoli che la comunità gli ha attribuito – e che spesso mettono in evidenza difetti e mancanze della persona, come avveniva alla Lupa o a Rosso Malpelo nei racconti di Giovanni Verga –, per riappropriarsi del proprio nome di battesimo, e rivendicare il proprio diritto ad autodefinirsi e a essere individuo. I vecchi nomi, ormai inutili fardelli, vengono dimenticati, abbandonati insieme alle case e agli scarti delle cose e delle parole, quelle del dialetto, che disabitate perdono tutta la loro gallanza, la loro tronfia spavalderia.

I nomi dialettali venivano dall’antica arte del cimentare, verbo che significa “canzonare”, “prendere in giro”, ma porta con sé anche l’invito alla contesa e alla sfida. Chi si è trovato a contatto “da forestiero” con il dialetto delle Marche del sud, per esempio, avrà senz’altro avvertito una certa asprezza nei toni, una durezza nei modi, un’apparente ostilità: da queste parti «non si saluta, comunica, domanda, risponde, implora, complimenta, scusa. No: si attira l’altro a una sfida fatta di sarcastici rimandi verbali», scrive ancora Giuseppina Pieragostini nel suo ultimo romanzo, La danza della lepre. Con il cimentarsi gli abitanti di queste terre «hanno qualcosa che non sanno di avere: una chiave per creare il mondo a loro somiglianza».

Forse è per questo che da queste parti non si parla, ma si discorre, verbo che in senso letterale indica lo spostarsi rapidamente e in senso figurato il passare con la mente e con la parola da un concetto all’altro. Ma il “discorrere” nel suo uso dialettale ha anche una coloritura più bellicosa: una persona che «c’ha vòja de discòrre» è una persona che ha voglia di litigare, che si impunta, una persona cavillosa che porta il discorso per le lunghe perché vuole dimostrare di aver ragione, o semplicemente perché cerca rogne. Dopotutto, in una comunità dove si parla in dialetto, e quindi la lingua è per lo più orale, «ognuno vo’ di’ la so’» (ognuno vuol dire la sua), vuole raccontare il mondo a sua somiglianza, facendo epopea dei suoi fatti minuti e quotidiani.

Ecco che il dialetto diventa la lingua della narrazione per eccellenza. Andrea Camilleri  raccontava che trovò la sua voce di scrittore, quando capì che doveva imitare il modo in cui parlava con sua nonna e sua madre, ossia il dialetto. L’istinto di raccontare dà forma all’individuo e, al contempo, alla collettività. Per il tempo del racconto l’uomo è padrone del suo mondo, che ricrea a propria misura e immagine. Narrandolo e nominandolo si prende la propria rivincita, come quando un mio antenato s’inventò la parola “guardiàvolo” per definire il contadino mandato da lu patrò, il padrone: una specie di ruffiano, di raccomandato, che lo costringeva a salire sui pioppi per tagliare i rami più alti e rimaneva sotto a controllarlo con lu schiòppu puntato. In quel “guardiàvolo” c’era tutto il disprezzo per un contadino che per qualche briciola in più aveva venduto l’anima al “diavolo”, ossia il padrone, e faceva la “guardia” con il fucile, e c’era la ribellione di chi aveva inventato la parola, un’imprecazione borbottata fra i denti: va’ al diavolo!

Luigi Meneghello, in Libera Nos a Malo, scrive che il dialetto e il mondo che questo esprime non si possono «rifare con le parole». Il dialetto, per Meneghello, diventa la cavia perfetta da stritolare e innestare nell’italiano per poter giungere all’origine delle cose. Diventa il riflesso sonoro di uno scenario sociale aggrappato alla materia, al tatto: «Si sentiva che qui le cose erano venute prima delle idee, e la faccenda sembrava riposante». Il dialetto è la «schinca linguistica» che nasce da questo rapporto non mediato con la realtà:

«Ci sono due strati nella personalità di un uomo; sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto. Quando se ne tocca una si sente sprigionarsi una reazione a catena, che è difficile spiegare a chi non ha il dialetto. C’è un nòcciolo indistruttibile di materia apprehended, presa coi tralci prensili dei sensi; la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare, e non più sfumata in seguito dato che ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua. Questo vale soprattutto per i nomi delle cose. Ma questo nòcciolo di materia primordiale (sia nei nomi che in ogni altra parola) contiene forze incontrollabili proprio perché esiste in una sfera pre-logica dove le associazioni sono libere e fondamentalmente folli. Il dialetto è dunque per certi versi realtà e per altri versi follia. […]. Da tutto sprizza come un lampo-sgantìzo, si sente il nodo ultimo di quella che chiamiamo la nostra vita, il groppo di materia che non si può schiacciare, il fondo impietrito».

Nascosto negli interstizi della nostra parlata quotidiana, il dialetto resiste, anche se inespresso e dimenticato, a rappresentare un antico nucleo incandescente che cova sotto la cenere, e forse sotto ogni lingua. Ogni tanto viene a galla intorbidando l’italiano, addensando grumi di senso, increspando la superficie levigata della lingua che usiamo, per poi tornare a depositarsi sul fondo come una bestiola acquattata, e qui dorme finché qualcosa non la sveglia di nuovo, e lei balza fuori, magari in un momento di necessità emotiva. Molte sono le lingue, insieme al dialetto, che si depositano, come l’appùsa che fa il vino e l’olio, sul fondo della nostra lingua, quella che usiamo. Può trattarsi del dialetto, della lingua dell’infanzia, di un gergo, oppure di una o più lingue straniere. Si può dire che la lingua che usiamo nasca da una stratificazione di lingue appusàte, che interagiscono le une con le altre creando reazioni inaspettate e scintille di suono e di senso, tanto che diviene difficile, a un certo punto, distinguerle e identificarne l’origine: da queste lingue-matri che figliano da sé stesse nasce quel nòcciolo di materia magica e incandescente che è la lingua che parliamo e pensiamo, e con cui cerchiamo di abitare il mondo.

Stella Sacchini
Stella Sacchini

Insegna Lingua e traduzione inglese all'università di Macerata. Ha tradotto e curato, tra le altre, le opere di C. Brontë, J. London, M. Twain, C. Dickens, L.M. Alcott, H.P. Lovecraft, Apuleio, Ovidio. Il suo romanzo, Fuori posto, è uscito nel 2013.

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