Le cose sorprendenti che potremo fare col nervo vago

Dal cervello all'addome passando per il cuore, potrebbe essere la risposta per trattare molte malattie riducendo l'uso dei farmaci

(Wikimedia)
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Da circa un anno un gruppo di ricerca negli Stati Uniti è al lavoro su una delle più articolate e complesse strutture nervose del nostro organismo, che si sta rivelando molto più importante e versatile di quanto si ritenesse un tempo: il nervo vago. È un canale di comunicazione fondamentale tra il cervello e i polmoni, il cuore, lo stomaco e altri organi addominali. Contribuisce al controllo di processi involontari come la respirazione, il battito cardiaco, la digestione e ha un ruolo centrale nella regolazione di alcune attività del sistema immunitario. Sappiamo che svolge tutte queste funzioni, ma non sappiamo di preciso come; inoltre, si sospetta che ci possano essere altre sue attività che ancora sfuggono alle nostre conoscenze e che potrebbero rivelarsi molto utili nel trattare alcune malattie. Ed è per questo che lo studio delle sue strutture più intime è così importante.

Una delle ricerche più promettenti è svolta appunto negli Stati Uniti, più precisamente a Manhasset, a quaranta minuti di automobile da Manhattan, nello stato di New York. Pizzicata tra due campi di golf c’è la sede dei Feinstein Institutes for Medical Research, un centro di ricerca con una cinquantina di laboratori che nell’autunno dello scorso anno ha ricevuto 6,7 milioni di dollari dal governo statunitense per realizzare la «prima mappa anatomica del nervo vago», attraverso un progetto estremamente ambizioso e complesso che nei programmi dei suoi responsabili si dovrà concludere entro il 2025.

Il progetto Reconstructing Vagal Anatomy (REVA, letteralmente “Ricostruire l’anatomia vagale”) prevede di catalogare e mappare le 160mila fibre nervose che si stima costituiscano il nervo vago e tutte le sue principali diramazioni. Il lavoro di ricerca è un’attività delicata e laboriosa che inizia con l’asportazione da un cadavere del nervo, avendo cura di non danneggiarne i filamenti che nelle sue parti terminali possono essere sottili all’incirca quanto un capello. Ogni terminazione deve essere inoltre catalogata in base all’organo e ai tessuti cellulari cui è collegata.

Il gruppo di ricerca divide poi in segmenti il nervo e lo inserisce in una particolare cera. Si ottiene in questo modo un blocchetto che viene poi affettato, un po’ come si fa con un’affettatrice in salumeria, per produrre sezioni sottilissime da analizzare al microscopio. L’impiego di reagenti consente di fare assumere alle fibre nervose colorazioni differenti in base alle loro caratteristiche, facilitando in questo modo le analisi. In un certo senso il processo ricorda dal vero ciò che avviene con una TAC o una risonanza magnetica, esami di diagnostica per immagini che mostrano parti del corpo come se venissero appunto affettate, in modo da vedere come cambiano i loro tessuti.

I nervi sono formati da fasci di conduttori di impulsi (gli “assoni”) provenienti da uno o più neuroni e hanno la funzione di trasportare le informazioni da e verso il sistema nervoso centrale (i cui principali componenti sono il cervello e il midollo spinale). Se i vasi sanguigni sono le tubazioni dell’acquedotto, i nervi sono i cavi che fanno funzionare Internet: la loro presenza è fondamentale per far funzionare i muscoli, per percepire tutto ciò che abbiamo intorno e per molte altre attività. A seconda della loro funzione, i nervi appaiono in modo diverso ed è proprio grazie a queste differenze che chi lavora al REVA può mappare il nervo vago. Per esempio, le fibre nervose con uno strato più spesso di mielina, una sostanza che fa da isolante, sono di solito coinvolte nella trasmissione degli impulsi per controllare i muscoli dove non devono esserci dispersioni dei segnali.

Evitare che alcuni tipi di impulsi si perdano per strada è importante nel caso del nervo vago, considerato il lungo e intricato percorso che compie all’interno del nostro organismo (e che probabilmente gli è valso il nome “vago” dalla parola latina “vagus” che significa vagabondo, nomade). Ha origine nel tronco encefalico, alla base del cervello, fuoriesce dal cranio e prosegue nel collo per addentrarsi poi nel torace e nell’addome. In realtà ci sono due nervi vaghi: uno scende lungo il collo a sinistra e l’altro a destra, con vari punti di contatto specialmente nella parte finale del loro decorso.

Rappresentazione schematica del decorso del nervo vago dalla base del cervello fino all’addome (Northwell Health)

Il medico dell’antichità Galeno fu tra i primi a dedicare qualche attenzione al nervo vago. Sezionando alcuni maiali vivi si era accorto che tagliando il nervo della laringe (una diramazione del vago) il maiale perdeva la capacità di stridere, perché non aveva più il controllo sulle proprie corde vocali. Ci sarebbero voluti secoli prima di comprendere meglio i meccanismi dietro al funzionamento del sistema nervoso, le cui fibre sono spesso minuscole e difficili da isolare dal resto dell’organismo. Fu ricostruito il percorso compiuto dal vago e vari trattati iniziarono a ipotizzarne l’importanza, visto che dal cervello si spingeva oltre lo stomaco.

Con i progressi della scienza medica nel Novecento il vago tornò al centro dell’attenzione di alcuni gruppi di ricerca interessati a verificare le sue potenzialità come sistema per trattare alcune condizioni, legate per esempio agli spasmi muscolari dovuti alle malattie come l’epilessia. Alla fine degli anni Ottanta negli Stati Uniti fu per esempio sviluppato un dispositivo che riduceva gli spasmi applicando una bassa tensione elettrica al vago. Le ricerche nel settore portarono una decina di anni dopo all’approvazione da parte delle autorità sanitarie dei primi dispositivi per controllare alcune forme di epilessia che non rispondono ai farmaci solitamente impiegati per limitarne gli effetti.

Lo sviluppo delle nuove tecniche di diagnostica per immagini, come la risonanza magnetica, permise di individuare meglio l’intricata serie di diramazioni del vago, inducendo una certa creatività nella ricerca. Considerato che innerva lo stomaco, ci si chiese se fosse possibile intervenire sui segnali che il vago invia dallo stomaco, che insieme ad altri meccanismi consentono di percepire il senso di sazietà e pienezza che ci spingono a smettere di mangiare. Nelle persone con forme gravi di obesità, questo sistema sembra non funzionare a dovere e per questo si ritiene che modularne i segnali possa avere esiti positivi nel trattamento dell’obesità.

Ci sono dispositivi che, come nel caso di quelli contro l’epilessia, producono piccoli impulsi elettrici per modulare diversamente i segnali nervosi dallo stomaco. La loro utilità è ancora dibattuta: secondo alcuni studi, a parità di tempo le persone che lo utilizzano riescono a perdere più peso rispetto a chi non lo impiega, ma ottenere dati affidabili è difficile a causa della grande quantità di variabili che dipendono da come è fatta ciascuna persona e dalle abitudini che ha.

Test e sperimentazioni con dispositivi per stimolare il vago proseguono ancora oggi e in molti ambiti, proprio per via della grande quantità di funzioni svolte da questa struttura nervosa. Sono stati sviluppati dispositivi per provare a regolare la pressione sanguigna, che potrebbero un giorno sostituire i farmaci per tenerla sotto controllo specialmente tra le persone ipertese, così come ce ne sono per provare a ridurre gli effetti di alcuni tipi di ictus sulla parte superiore del corpo.

Negli ultimi trent’anni sono inoltre emerse altre funzioni del vago che non tendiamo ad associare comunemente ai nervi, come la capacità di intervenire suoi processi infiammatori. Tra i pionieri delle ricerche in questo settore c’è il neurochirurgo Kevin Tracey. Insieme al proprio gruppo di ricerca negli anni Novanta ha lavorato a un nuovo farmaco per ridurre la produzione delle citochine, cioè le proteine che stimolano il sistema immunitario a contrastare le infezioni. In condizioni normali il meccanismo induce un’infiammazione che rende i tessuti cellulari inospitali alla proliferazione di virus e batteri, ma in alcuni casi la produzione di citochine finisce fuori controllo portando a una reazione immunitaria che può causare seri danni anche ai tessuti non infetti. È la cosiddetta “tempesta di citochine” di cui si era parlato molto nei primi tempi della pandemia da coronavirus, quando il sistema immunitario di alcune persone finiva fuori controllo nel tentativo di eliminare l’infezione virale.

Tracey e colleghi avevano sperimentato il loro farmaco iniettandolo nel cervello di alcuni ratti con importanti infezioni batteriche cerebrali. Dopo la somministrazione l’infiammazione si riduceva sensibilmente, ma Tracey aveva notato che l’effetto non era limitato al cervello, ma anche al resto dell’organismo dei ratti. Era un risultato insolito considerato che il cervello è isolato e protetto dal resto dell’organismo proprio per evitare pericolose infezioni. Il gruppo di ricerca trascorse mesi a chiedersi come potesse essere possibile, infine provò a recidere il nervo vago di uno dei ratti e notò che l’effetto antinfiammatorio non era più riscontrabile. Tracey ha raccontato di recente alla rivista New Scientist di avere reagito con una certa sorpresa alla scoperta: «Gli scienziati non dicono più “eureka”, adesso dicono “porca miseria”, e fu quello che dicemmo».

Il processo non è ancora compreso nella sua interezza e le caratteristiche del “riflesso infiammatorio”, come lo chiama Tracey, sono ancora dibattute. La presenza delle citochine nell’organismo viene rilevata da alcune terminazioni nervose e segnalata al cervello, che tramite il vago invia i segnali per modulare la presenza di quelle proteine. È stato riscontrato che un aumento nell’attività di segnalazione del vago può ridurre i livelli di infiammazione e ridurre il rischio di danni agli organi o in generale ai tessuti cellulari, come avviene nel caso di alcune malattie croniche.

Le ricerche in questo ambito hanno aperto la possibilità di sviluppare dispositivi per provare a interrompere i processi infiammatori senza ricorrere ai farmaci. Tracey sviluppò un primo prototipo nel 2012 che fu impiegato in una sperimentazione con un piccolo gruppo di persone affette da artrite reumatoide, una malattia che causa una costante infiammazione delle articolazioni portando a dolore e deformazioni, che possono essere invalidanti. Tra le persone con il dispositivo, il 70 per cento segnalò una riduzione di circa un quinto dei sintomi, mentre più in generale circa la metà disse di avere riscontrato un miglioramento. Attualmente è in corso una sperimentazione clinica che coinvolge 250 persone per valutare con più accuratezza gli effetti del dispositivo, in vista di una sua eventuale autorizzazione nei prossimi anni a partire dagli Stati Uniti, dove viene svolto lo studio.

Tracey ha detto a New Scientist che intervenire direttamente sul vago non ha solo il beneficio di ridurre l’assunzione di farmaci antinfiammatori che possono avere vari effetti avversi, specialmente nel caso di un loro impiego prolungato. A differenza di alcuni farmaci, la stimolazione del nervo rende possibile il mantenimento di quote minime di citochine, sufficienti per non disattivare alcune funzioni molto importanti del sistema immunitario.

Elaborazione grafica di un impianto per stimolare il nervo vago (RESETRA)

Approcci analoghi a quelli sviluppati da Tracey potrebbero rendere possibile il trattamento di varie condizioni legate alle infiammazioni croniche, ma secondo gli esperti potranno mostrare a pieno le loro potenzialità solo quando sarà risolto un problema non di poco conto. A oggi non sappiamo come reagisca di preciso il nervo vago alle stimolazioni e quali processi si inneschino nel resto dell’organismo: sappiamo solo che si ottengono alcuni risultati. Gli stimolatori sono diversi tra loro, alcuni agiscono attraverso la pelle, altri andando più in profondità, e non è chiaro se attivino solamente i distretti del vago nelle loro vicinanze o anche a grande distanza. Queste difficoltà si riflettono anche nella difficile identificazione di eventuali effetti avversi da ricondurre alla stimolazione.

La mappatura del nervo vago in corso ai Feinstein Institutes for Medical Research potrebbe aiutare a risolvere il mistero, per esempio individuando con maggiore precisione il ruolo di specifiche fibre nervose, in modo da rendere più precisa l’applicazione degli elettrodi e degli impulsi. Le possibilità di miniaturizzazione dei microchip stanno infatti rendendo possibili innesti di alta precisione, come dimostrato in recenti esperienze svolte su alcune aree del cervello. La semplice identificazione delle fibre non sarà comunque risolutiva, almeno fino a quando non sarà anche chiarito il ruolo di ciascuna in processi che coinvolgono il sistema nervoso, altri organi e naturalmente il cervello.