Bisogna credere di più ai narcolettici

Colpevolizzati e derisi per un bel pezzo di vita, solo con una diagnosi riescono a capire cosa non va e avere una socialità quasi normale

di Isaia Invernizzi

(Unsplash/Rex Pickar)
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A Massimo Zenti hanno affibbiato molti nomignoli. È stato lo scansafatiche, il pigro, a scuola finiva sempre nella categoria è-intelligente-ma-non-si-applica, molte persone lo consideravano depresso, altre sotto effetto di sostanze stupefacenti. In realtà Zenti era semplicemente narcolettico ma nessuno lo sapeva, né lui né le persone che gli stavano attorno. Malgrado si sforzasse di avere una vita sociale normale la sua reputazione era segnata dalla costante e irrefrenabile necessità di farsi una dormita, anche nei posti e nei momenti meno opportuni. A 21 anni, dopo l’ennesimo ciclo di visite ed esami, uno specialista dei disturbi del sonno lo chiamò per comunicargli la diagnosi. «Mi disse che doveva darmi una brutta notizia, cioè che avevo la narcolessia. Fu uno dei giorni più belli della mia vita. Finalmente scoprii che non era colpa mia».

La narcolessia è una malattia neurologica, ovvero causata da una disfunzione del sistema nervoso centrale. Il sintomo principale e più conosciuto è l’eccessiva sonnolenza diurna. Spesso le persone narcolettiche si addormentano in momenti di inattività e dormono più volte al giorno per poco tempo, tra dieci minuti e un quarto d’ora. Dopo qualche ora, o anche meno, si ripresenta la necessità di fare un nuovo sonnellino e non possono farne a meno. Secondo diverse persone che ne soffrono, la sensazione che si prova è quella di voler restare svegli dopo non aver dormito per 24 ore consecutive.

Da decenni scienziati e medici di molti paesi studiano la narcolessia per indagarne le cause e trovare una terapia per alleviare i sintomi o ancora meglio una cura. Le conseguenze di questa malattia sono debilitanti per il fisico, ma quelle che incidono di più per chi ne soffre riguardano la vita sociale e le relazioni.

Da presidente dell’associazione nazionale narcolettici, Zenti ha ricevuto centinaia di confidenze che gli hanno ricordato la sua esperienza. «Hai una perenne sensazione di colpevolezza, di non fare abbastanza», dice. «Si finisce presto in un vortice di negatività. Ci si rende conto di essere malati, ma non si capisce mai bene qual è il confine tra la malattia e la mancanza di volontà. E in pochi ti capiscono o ti credono».

I dati dicono che 4 persone ogni 10mila hanno la narcolessia, ma molte persone sono malate senza saperlo. In Occidente servono in media circa dieci anni per avere una diagnosi corretta, e molto spesso le persone che ne soffrono riescono a prenderne coscienza dopo aver vissuto quasi tutta la loro vita segnata da esperienze per certi versi inspiegabili. C’è un umorismo scontato anche se un po’ crudele nelle storie delle persone che si addormentano in posti dove non dovrebbero dormire: sui banchi di scuola, sulla scrivania al lavoro, a una festa, dal dentista, allo stadio, in autobus per poi svegliarsi straniti al capolinea. Ma la narcolessia non è divertente.

Zenti ricorda in particolare le discussioni con gli insegnanti e con la madre. Il suo percorso scolastico è stato disastroso perché dormiva in classe. Si era imposto di frequentare gli amici e nelle uscite serali concentrava tutte le sue forze. «Provavo a giustificarmi, però a forza di dirmi che ero pigro mi ero convinto di esserlo per davvero», dice. Uno dei tanti medici che lo visitarono disse alla madre che forse il figlio assumeva qualche sostanza stupefacente con effetti rilassanti. «Mi portarono a fare il test tossicologico del capello, e non ci fu modo di spiegare che non prendevo nulla fino a quando il test fu negativo».

Quando iniziò a lavorare come addetto alla documentazione di una compagnia aerea trovò uno stratagemma che sapeva essere insostenibile, addormentarsi al bagno. «Funzionò per tre mesi, al quarto mi lasciarono a casa con la classica frase “questo lavoro non fa per te”». A 21 anni finalmente riuscì a ottenere la diagnosi dopo una serie di esami al centro narcolessia e disturbi del sonno dell’istituto di scienze neurologiche di Bologna, il più importante in Italia. Qui è stata fatta la maggior parte delle diagnosi ai circa duemila malati italiani, un numero sicuramente sottostimato rispetto alla realtà.

Giuseppe Plazzi, il direttore del centro narcolessia e disturbi del sonno, si occupa di narcolessia da molti anni. Ormai gli bastano pochi minuti per individuare alcuni segnali indicativi della possibile malattia. Oltre all’eccessiva sonnolenza diurna, un altro sintomo tipico e abbastanza bizzarro è la cataplessia: è un improvviso e breve episodio di debolezza muscolare accusato provando emozioni come il riso, la sorpresa, la rabbia. Capita anche durante l’orgasmo. La cataplessia può coinvolgere improvvisamente tutti i muscoli e causare una caduta senza perdita di conoscenza, oppure iniziare dal viso e scendere man mano fino alle ginocchia.

Un altro sintomo della narcolessia sono le allucinazioni ipnagogiche, esperienze spaventose che precedono il sonno o percepite durante una fase di sonnolenza. Compaiono ombre, figure, animali e false percezioni di ogni tipo, difficili da distinguere dalla realtà soprattutto prima della diagnosi. L’esperienza è ancora più terrificante se l’allucinazione è associata all’impossibilità di muoversi, fuggire o difendersi da quello che sta accadendo.

Un’altra cosa sorprendente è che le persone narcolettiche sognano non appena chiudono gli occhi e non solo, anche quando li socchiudono. È come se il sogno travalicasse la linea raggiungendo la veglia, e rendendo difficile distinguere i sogni dalla realtà.

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Molti di coloro che faticano a dormire la notte potrebbero pensare che dormire un sacco sia una fortuna, in realtà i sintomi diurni della narcolessia si riflettono anche sulle ore notturne in cui il sonno non è mai continuo ed è spesso attraversato da incubi. Sia il continuo sognare che i ripetuti riposini sono un segno evidente dell’incapacità del cervello umano di controllare il ritmo tra il sonno e la veglia. «Oltre a condizionare le relazioni e la socialità, questi sintomi portano a un rischio molto serio di incidenti domestici e sul lavoro», dice Plazzi.

Nonostante sia stata descritta già nel 1880 dal medico francese Jean-Baptiste-Édouard Gélineau, la narcolessia e i suoi misteri continuano ancora oggi ad affascinare gli studiosi del cervello e del sonno. Negli anni Cinquanta del Novecento la scoperta delle fasi del sonno – un’alternanza tra fase REM, movimenti oculari rapidi (rapid eye movements), e fase non REM – consentì di descrivere in modo accurato il sonno notturno con risvolti notevoli sulla ricerca delle cause della narcolessia e di altri disturbi.

Tra gli anni Ottanta e Novanta furono allestiti in molti paesi laboratori e stanze insonorizzate per proteggere le osservazioni del sonno di persone sane e pazienti. Gli esami venivano fatti con elettroencefalografi sofisticati per misurare diversi parametri: l’attività respiratoria, quella muscolare, la temperatura, l’attività cardiaca, la pressione arteriosa. Nacque la polisonnografia, un esame utilizzato ancora oggi per diagnosticare i disturbi del sonno.

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La scoperta più importante in questo campo risale al Duemila. Emmanuel Mignot della Stanford University scoprì che il cervello dei pazienti narcolettici non aveva le cellule adibite alla produzione dell’orexina (conosciuta anche come ipocretina o oressina), una proteina, anzi più propriamente un peptide, che regola il sonno e la veglia.

Per molti anni Mignot studiò le origini della narcolessia indagando il DNA dei cani, tra cui quello di Watson, il suo cane narcolettico. Nelle fasi più avanzate della sua ricerca, prelevando il fluido spinale da pazienti narcolettici, Mignot scoprì che i cani hanno l’orexina ma non i recettori per attivare la risposte chimiche indispensabili per regolare il sonno, mentre nelle persone ci sono i recettori, ma manca l’orexina che non viene proprio prodotta.

Negli ultimi anni questa scoperta ha permesso ai centri di ricerca e all’industria farmacologica di sperimentare terapie più efficaci contro i sintomi della malattia. Assumere l’orexina non basta, perché questa proteina se assunta e non prodotta dal corpo non riesce a superare la barriera emato-encefalica, cioè la struttura che regola il passaggio di sostanze chimiche da e verso il cervello, proteggendo il sistema nervoso da infezioni. Per risolvere questo problema negli ultimi anni sono state create e sperimentate diverse molecole sintetiche che imitano il comportamento dell’orexina.

L’istituto di scienze neurologiche di Bologna ha partecipato a uno studio sperimentale in collaborazione con altri centri di ricerca, i cui risultati sono stati pubblicati di recente sul New England Journal of Medicine. Lo studio è stato interrotto prematuramente perché sono emersi effetti collaterali al fegato in alcuni pazienti coinvolti, ma i dati raccolti dicono che la nuova molecola elimina tutti i sintomi della narcolessia. «Sono risultati molto promettenti, sappiamo che c’è un modo per cambiare la vita a migliaia di persone», dice Plazzi. «Ne beneficeranno molti altri pazienti di altri disturbi e malattie del sonno».

Finora contro i sintomi della narcolessia erano stati utilizzati due tipi di farmaci: stimolanti molto simili alle anfetamine per far stare svegli, sedativi per dormire di notte o antidepressivi per inibire la fase del sonno REM. Zenti sta partecipando a una sperimentazione. «Per me ora la narcolessia è un ricordo. Non ho sonnolenza e dormo regolarmente». Molti altri pazienti in Italia che non hanno avuto accesso alle cure sperimentali invece sono alle prese con la carenza del farmaco più utilizzato per dormire di notte. I farmacisti dicono che bisogna aspettare almeno fino a novembre per le nuove forniture. «Mi chiamano da molte regioni italiane, non sanno che fare», conclude Zenti. «Purtroppo essendo una malattia rara non gliene frega niente a nessuno, è complicato trovare una soluzione».