• di Federico De Ambrosis
  • Storie/Idee
  • Giovedì 7 settembre 2023

I pirati del Mediterraneo

«Da ragazzino negli anni novanta avevo il sogno di fare un giorno il periplo del Mediterraneo, non sapevo che le instabilità politiche si sarebbero moltiplicate. Oggi un viaggio di quel tipo sarebbe impensabile. Mi sono rifatto seguendo le rotte dei corsari. Sulla mia scrivania, per tanti anni, ho tenuto una grande mappa satellitare del Mediterraneo su cui, quando potevo, riposizionavo segnalini per aggiornare gli spostamenti delle navi. Ci sono voluti quasi sei anni per arrivare a un database di circa novemila fatti citati nei vari libri di storia o nei lavori di ricerca accademica»

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Dieci anni fa vicino a una chiesetta a Riva Trigoso, in Liguria, ho visto una stele che ricordava lo sbarco di alcuni corsari turchi. Era un’iscrizione ampollosa, ma erano presenti alcuni dettagli come il mese e l’anno dello sbarco, il numero di persone portate via e il comandante dei corsari turco-barbareschi che aveva condotto l’operazione.

In quei giorni stavo leggendo Le repubbliche dei pirati di Hakim Bey, che tratta principalmente le vicende dei corsari di base a Rabat all’inizio del diciassettesimo secolo. Ho iniziato a pensare che esiste tantissima narrazione riguardo ai corsari nei Caraibi: dalle fiction Disney alle serie tv come Black Sails, dalle collane intere di libri alle grandi produzioni hollywoodiane. Un intero arsenale semiotico fatto di bende sull’occhio e bandiere nere col teschio, tibie incrociate, gambe di legno, sciabole all’aria e enormi tesori, magari sepolti e con qualche mappa segreta per ritrovarli. Un portato di grandi dimensioni che ha avuto grandi influenze nell’immaginario occidentale come mostra Matteo Guarnaccia nel suo libro Pirati: da Jean-Paul Gaultier alle bende sull’occhio di Salvador Dalì, David Bowie e del cantante dei Dead or Alive. “Morgan” è il nome d’arte di un famoso cantante e “il Pirata” il soprannome del più famoso ciclista italiano degli ultimi cinquant’anni.

Invece sulla “guerra di corsa” avvenuta sulle spiagge italiane, nordafricane ed europee il materiale è molto meno: qualche capitolo nei libri che parlano di storia della pirateria in generale, mi riferisco ad autori come Philip Gosse o David Cordingly, le biografie delle figure più salienti tradotte da autori per lo più anglosassoni, come ad esempio Vita e imprese del corsaro Barbarossa di Ernle Bradford e poi qualche editore italiano che ha pubblicato ricostruzioni di fatti accaduti in specifiche aree geografiche.

Quella che era una curiosità è diventata piano piano il desiderio di colmare ciò che mi sembrava una lacuna: com’era possibile che una vicenda storica lunga secoli non avesse una trattazione sistematica? Eppure le calate dei pirati barbareschi sono rimaste nel sentimento comune. Da bambino mi ricordo a malapena di Pietro ’o turc’ Mennea e tutti abbiamo sentito qualche volta il “mamma li turchi”, ma a fronte di questo le fonti più rilevanti che ho trovato erano confinate a lavori accademici. Sono partito proprio dalle schede biografiche di capitani di ventura italiani e corsari barbareschi, cavalieri Ospitalieri e uomini di mare della Serenissima. Una babele di storie intrecciate, di percorsi umani che toccavano e ritoccavano le tre sponde del Mediterraneo lasciando segni del loro passaggio.

Da informatico la mia prima idea è stata quella di creare un database di tutti i fatti di guerra di corsa che incontravo nelle fonti che spulciavo. Devo dire che ho lavorato solo su fonti secondarie perché già così mi rendevo conto che si sarebbe trattato di un lavoro enorme. Ci sono voluti quasi sei anni di tempo ritagliato dal lavoro soltanto per arrivare ad avere un database di circa novemila fatti narrati nei vari libri di storia o nei lavori di ricerca accademica. Di fronte a questa mole enorme di dati ho deciso di dedicarmi a un periodo specifico: quello in cui lo scontro nel Mediterraneo aveva come principale protagonista l’impero Ottomano. Una fascia di anni a cui possiamo dare un inizio ben preciso nell’inverno tra il 1496 e il 1497 e una fine più sfumata intorno al 1580-1585. La guerra di corsa ottomana nel Mediterraneo inizia perché per lunghi anni il sultano Bayezid aveva stipulato contratti con le varie forze cristiane – i cavalieri Ospitalieri di Rodi, il Vaticano a Roma, la Serenissima – affinché «custodissero» suo fratello Cem lontano da Costantinopoli, dove temeva potesse aizzare una faida ai suoi danni. Alla morte di Cem, avvenuta a Capua nel 1495, i cristiani non avevano più argomenti per ricattare il sultano che poteva quindi pensare ad armare una sua flotta stipendiando i pirati delle coste anatoliche.

La fine della guerra di corsa ottomana è più sfumata. La descrive benissimo Fernand Braudel nel suo capolavoro Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, in cui spiega la mancata propensione dei due imperi a continuare una guerra costosa per contendersi uno specchio di mare che perdeva importanza strategica, grazie allo stabilizzarsi della rotta atlantica per gli spagnoli e della rotta per le Indie per gli ottomani.

Questa porzione di dati, che conta circa quattromila fatti racchiusi tra queste due date, è raccolta in un ulteriore database che in seguito ho indicizzato, georeferenziato e che ho deciso di pubblicare e rendere consultabile a tutti qui.

Calare in luoghi esatti le biografie di qualche migliaio di comandanti che avevano combattuto in quegli ottant’anni nel Mediterraneo significava anche avere di fronte agli occhi una mappa del Mediterraneo completamente nuova. Luoghi, tutto sommato ora di secondaria importanza, che per decine di anni sono stati oggetto di assalti e contro-assalti, con assedi sanguinosi e la perdita di migliaia di vite. Per esempio la contesa per Mahdia, nell’attuale Tunisia, che insisteva su una penisola quasi inespugnabile grazie anche all’antica fortezza Fatimide e passata di mano più volte negli anni. Il mito delle fortificazioni di Corfù, considerata l’occhio di Venezia sull’Adriatico, con i cannoni di lunga gittata che si diceva potevano colpire fino al continente. Il golfo di Arta era il passaggio più facilmente difendibile da una flotta in minoranza numerica e sarebbe stato teatro delle fasi preliminari della battaglia di Preveza del 1538. Era un golfo ben noto, tanto che quindici secoli prima già Antonio e Ottaviano si erano scontrati lì in quella che prese il nome di “battaglia di Azio”. Djerba, oggi placida località turistica, ha visto una grossa strage di cristiani, oltre a un’incredibile fuga turca che cambiò per sempre la geografia dell’isola. Le piazzeforti di La Goletta, Mers el Kebir e Penon de Velez erano contese enclave cristiane nella costa barbaresca. I luoghi di imboscate per eccellenza erano gli arcipelaghi di Porquerolles e le Egadi. I passaggi più pericolosi per la navigazione erano la baia della Herradura o il piccolo arcipelago di Fourni nell’Egeo.

Una mappa che si componeva e che faceva riferimento ad anni, i primi del sedicesimo secolo, in cui la cartografia ottomana faceva passi da gigante sotto l’impulso di Piri Reìs, un comandante turco nipote di quell’ammiraglio Kamal Reìs che, combattendo al largo di Valencia nell’agosto del 1501, aveva catturato una piccola imbarcazione spagnola che trasportava le mappe del nuovo Mondo sotto la custodia di un capitano che aveva navigato con Colombo. Affascinato dalla scoperta, Piri Reìs aveva dedicato otto anni della sua vita a redigere uno dei più grandiosi portolani del Mediterraneo, il Kitab-i Bahriye, il libro del mare. Era arricchito dal lavoro di abili amanuensi e dagli appunti dei corsari che riportavano a sapere comune informazioni cruciali come la dislocazione delle sorgenti di acqua dolce, il posizionamento delle secche, la disposizione dei torrioni difensivi e in alcuni casi le usanze delle popolazioni locali.

I turchi di fine quindicesimo secolo non erano un popolo che aveva familiarità col mare: erano venuti dalla profondità del continente attraversando i fiumi con battelli (çamac) e caicchi (kajak). Per un Paese dove si trovavano molto più spesso agricoltori che pescatori, dove si cantava l’ulivo e il fico e si coltivavano la vite, il melograno e il mandorlo, trovare abili marinai per tenere testa a Venezia e agli imperiali era diventata una necessità. Non avevano nemmeno una parola per indicare il mare, si erano fatti prestare dai persiani la parola “deryasi”, da cui “deniz” che indicava genericamente tutte le acque sia dolci che salate.

Dopo la prima accolita di pirati stipendiati, come Enrichi, Hassan Kara, i quattro fratelli Barbarossa o il fuggiasco ibizenco Jorge Andero, la flotta turca ha iniziato un lento ma inesorabile processo di arruolamento di uomini di mare provenienti da tutto il Mediterraneo. Ed è così che nel giro di qualche decennio al comando di intere flotte o nel ruolo di bey di importanti città troviamo decine di figure meticce. Personaggi come Acsas rais “lo zoppo”, originario di Creta; Khayr ad-din Barbarossa, futuro ammiraglio, e suo fratello Arouj, greci originari di Mitilene sull’isola di Lesbo; Cayto Ramadan, bey di Algeri e Tunisi, sequestrato in Sardegna; Uluch Alì, originario di Isola di Capo Rizzuto, primo italiano a comandare la flotta turca dopo la battaglia di Lepanto; Scipione Cicala, il Sinàn Capudàn Pascià cantato anche da Fabrizio De André nell’album Creuza de ma, messinese, anche lui ammiraglio della flotta turca; Hassan Agà, capo della difesa di Algeri nel 1541 dall’assalto di Carlo V, sardo; Kara Ogia, che avrebbe flagellato l’Adriatico per decenni, era di Chioggia o di Fano a seconda delle fonti; Mami rais, citato anche dai Wu Ming nel loro Altai tra i comandanti più importanti a Lepanto, era albanese; Murad rais, il primo corsaro ottomano a saccheggiare le Canarie, era sardo; Piyale pascià, altro ammiraglio della flotta turca, veniva dalla penisola dalmata. Sono solo alcune figure del naviglio militare turco che hanno trovato una strada attraverso la conversione.

Nella babele di biografie della flotta turca, ho trovato interessanti elementi di modernità. Ho preso mano a mano coscienza della quantità di corsari nati sulle sponde europee che avevano combattuto con le “spade sguainate dell’Islam”. La mobilità coatta del sedicesimo secolo aveva preso tratti sorprendenti. Darsi alla guerra di corsa o alla pirateria poteva essere un’opzione di riscatto e una possibilità di mobilità sociale negata nei villaggi periferici sotto l’impero di Carlo V o Filippo II. D’altra parte la parola “pirati” viene dal sostantivo peiratés e dalla forma verbale peiràomai, che significa “provarci”, “fare un tentativo”. Era in mare che risiedeva la possibilità di spezzare l’ineluttabilità di un destino povero e rurale e quindi tentare di impadronirsi della propria vita.

La parabola umana più strabiliante credo sia quella di Giovan Dionigi Galeni. Sequestrato adolescente nel 1536 a Isola di Capo Rizzuto, si converte nel giro di qualche anno all’Islam e prende il nome di Uluch Alì pascià. Una storia che sfonda nel mito ma sulla quale, nei suoi passaggi sostanziali, le fonti concordano. Dopo aver partecipato agli snodi cruciali dell’epoca come la battaglia di Djerba o l’assedio di Malta, dotato di una capacità militare straordinaria, scala la gerarchia fino a diventare ammiraglio all’indomani della famosa battaglia di Lepanto. A lui affidano la rifondazione della marina da guerra turca nell’inverno tra il 1571 e il 1572 nei cantieri navali vicini a Costantinopoli, che presero il nome di “Nuova Calabria”. Diventa poi signore di Algeri e di Tunisi e chiude di fatto la sua carriera da mai sconfitto.

Un secondo elemento è stato constatare che per quel mondo le leggi del mare erano sacre: una per esempio imponeva che l’unico porto franco del Mediterraneo fosse Lampedusa. Non è dato sapere da quando e per quale motivo fosse stato preso questo tacito accordo tra nemici che solo qualche miglio al largo si sarebbero scannati senza pietà. Si racconta che a Lampedusa, tra le molte grotte che costellano le scogliere, in una dedicata alla Madonna fosse sepolto anche un marabutto turco. Oggetti e simboli delle religioni si erano confusi nelle generazioni, e tutti erano tenuti a lasciare in segno di carità un po’ di cibo per i naufraghi, per i pescatori sfortunati e anche per gli schiavi che riuscivano a liberarsi dalle catene. Una leggenda vuole che in una di queste grotte si fosse rifugiato il fuggiasco Andrea Anfossi, a cui poi sarebbe stata intestata la costruzione del santuario di Nostra Signora di Lampedusa a Castellaro, nell’imperiese. Lampedusa era zona franca anche per i fuggiaschi. Le leggi non scritte del mare per i marinai valevano più dei trattati siglati dai regnanti e degli accordi commerciali.

Il terzo elemento è stato notare come il Mediterraneo del sedicesimo secolo era un mondo cosmopolita e meticcio che comunicava tramite il sabir, la lingua franca dei porti. Sulle navi per i prigionieri italiani suonavano comuni parole come quilla, poppa, prua, gomena, corsia, fogone, scotta, vela maestra e trinchetto. I termini di comando più frequenti erano “izza” per le vele, “vogar” per remare e “scotar” per ordinare di togliere l’acqua. Si trattava di un codice comune conosciuto e compreso da Beirut a Marsiglia, da Tripoli a Genova. Troviamo pubblicazioni in sabir come portolani o dizionari sparse nell’arco di sei secoli. È stato usato da Carlo Goldoni che in L’impresario delle Smirne fa esprimere un suo personaggio in questa lingua franca e anche da Molière nel Borghese gentiluomo.

Li ho un po’ amati questi pirati e questi corsari, ho passato con loro dieci anni e da quando ho finito di “sbobinare” le loro storie mi mancano. Li ho amati forse perché ho visto i luoghi da dove venivano, ho immaginato la condizione e i sentimenti di persone come Uluch Alì che da Isola di Capo Rizzuto ha preso a frequentare i palazzi più sontuosi di Costantinopoli o Hassan Agà che da contadino sardo si insediò come pascià nel palazzo di Algeri e di altri centinaia come loro.

Da ragazzino avevo il sogno di fare un giorno il periplo del Mediterraneo, erano gli anni novanta e non sapevo che le instabilità politiche si sarebbero moltiplicate. Oggi un viaggio di quel tipo sarebbe impensabile. Mi sono rifatto seguendo le loro rotte. Sulla mia scrivania, per tanti anni, ho tenuto una grande mappa satellitare del Mediterraneo su cui, quando potevo, riposizionavo segnalini per aggiornare gli spostamenti dei vari corsari. Nel giro di pochi anni di storia ho visto navi di ogni bandiera disegnare trame fittissime e collegare i porti più strategici come Barcellona, Marsiglia, Genova, Palermo, Messina, Venezia, Creta, Costantinopoli.

Dare qualche ordine alla geografia umana dei pirati e dei corsari del sedicesimo secolo è stata per me una sfida lunga un decennio. David Abulafia, forse il più importante storico contemporaneo del Mediterraneo, ha scritto che questo «mare in mezzo alle terre» è «uno spazio frammentato, in cui anche nel passato l’incontro tra culture fu l’eccezione di alcune città cosmopolite e non la regola». Per Abulafia sono state proprio la frammentazione e la varietà il fattore attrattivo che ha permesso quegli scambi culturali e commerciali grazie a cui un’area così geograficamente limitata ha continuato per millenni a produrre innovazioni, dal monoteismo al turismo di massa, che continuano a influenzare il mondo.

– Leggi anche: La prima indagine per pirateria nella tratta migratoria del Mediterraneo

– Leggi anche: Padri di noi, ki star in syelo

Federico De Ambrosis
Federico De Ambrosis

Vive a Milano, è docente di informatica e fa parte dell’equipaggio di terra di Mediterranea Saving Humans. Nel 2016 ha pubblicato Bomber renegade - un soldato di sua maestà al servizio dell'IRA (Milieu). Nel 2022 ha pubblicato Il sabir dei pirati - 1001 vicende della guerra di corsa nel Mediterraneo (Prospero editore).

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