Padri di noi, ki star in syelo

Ogni volta che una barca piena di persone affonda nel Mediterraneo – o affonderà, conferme per l’ultimo naufragio mentre scrivo non ce ne sono ancora – le parole diventano una poltiglia, si tramutano in un silenzio che non ha niente da dire, nel pensiero passano immagini, corpi che galleggiano, colori, oggetti che si posano sul fondo, pesci che mangiano cadaveri. È un silenzio chiuso da ogni lato, impossibile da aprire e svolgere in parole. Per non guardare da vicino, vedo tutto da lontano, come se fossimo antichi. Due persone a caso nate sulle sponde del Mediterraneo – risalendo indietro nel tempo hanno quasi certamente un antenato comune. Il dna è sempre lo stesso, arriva da sud, come Europa che era una principessa di Tiro, in Libano, portata da Zeus a Creta. In superficie l’acqua del Mediterraneo si rinnova ogni 80 anni, ma ne occorrono 7 mila per un ricambio completo. È sempre lo stesso mare. È la stessa acqua di Europa, dei romani e dei fenici, dei corsari turchi e dei crociati cristiani. Sul Mediterraneo viaggiano ogni giorno 2 mila traghetti, 2 mila navi commerciali e 1.500 cargo. Ogni anno sul Mediterraneo passano 10 milioni di crocieristi e vengono movimentati 20 milioni di container che, impilati l’uno sull’altro, in tre anni formerebbero una torre alta fino alla Luna. 
Le barche che arrivano in Europa piene di persone sono poche. Non è un’invasione.

So che è stupido, retorico e inutile, ma ogni volta che una barca affonda penso al sabir, la lingua franca parlata in ogni porto del Mediterraneo dal Medioevo fino alla metà del’Ottocento, una lingua con un unico verbo ausiliario, star, senza tempi e modi e persone, che per il futuro usava bisognio+infinito, composta da parole veneziane e genovesi, arabe, spagnole, catalane, occitane, siciliane, turche e greche. La chiamavano anche petit mauresque, farenghi, ‘ajanabi, a seconda di chi la parlava. Fu probabilmente inventata dagli schiavi europei in Nord Africa. Era una lingua rara perché è raro che siano gli schiavi a insegnare ai loro padroni.

sabir1

Il sabir era una lingua semplice, elementare, quasi quanto gli slogan xenofobi, ma serviva per parlare, non per respingere. Naufragio si diceva nofragio, gratis dgiaba, qui aki, primavera roubiè. Come stai? si diceva Comme ti star?
In sabir si pregava anche. Il Padre nostro – io non credo che il padre esista, ma se c’è so che è nostro, di tutti – suonava così:

Padri di noi,
ki star in syelo,
noi voliri ki nomi di ti star saluti.
Noi volir ki il paisi di ti star kon noi,
i ki ti lasar ki tuto il populo fazer volo di ti na tera,
syemi syemi ki nel syelo.
Dar noi sempri pani di noi di cada jorno,
i skuzar per noi li kulpa di noi,
syemi syemi ki noi skuzar kwesto populo ki fazer kulpa a noi.
Non lasar noi tenir katibo pensyeri, ma tradir per noi di malu.
Amen.

C’è brutto tempo si diceva il tempo star cativo.
tempo

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.