• di Ilaria Maria Sala
  • Storie/Idee
  • Martedì 5 settembre 2023

Come abituarsi ai cicloni

«Ora che i cambiamenti climatici stanno costringendo anche l’Italia a vedersela con i cicloni, può essere istruttivo guardare che cosa avviene a Hong Kong, dato che qui si è alle prese coi tifoni da sempre. Ogni anno malgrado gli avvisi e le allerte, ci sono persone che vanno a fare surf, a ballare sotto la pioggia o a camminare in mezzo al verde per vedere in diretta gli alberi sradicati. Sport estremi hongkonghesi»

Fotografarsi durante il tifone Saola, 2 settembre 2023, Hong Kong (AP Photo/Billy H.C. Kwok)
Fotografarsi durante il tifone Saola, 2 settembre 2023, Hong Kong (AP Photo/Billy H.C. Kwok)
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Il 1° settembre il tifone Saola è passato sopra Hong Kong lasciandosi dietro una sensazione pesante e spiacevole: Hong Kong è abituata ai tifoni, ma questo è stato davvero violento, spaventoso, in particolar modo perché ha attraversato il territorio di notte. Quando siamo di nuovo usciti di casa, il giorno dopo, l’intera città era piena di alberi divelti, foglie, rami, oggetti incongrui qui e lì. Una ciabatta infradito. Una scatola del riciclaggio vestiti in mezzo alla strada. Una borsa dell’Ikea. Qualche macchina pesta, e una finestra o un’insegna appese in alto, penzoloni, con strisce in plastica bianca e blu della polizia allacciate sotto, sul marciapiede, per impedire che qualcuno si potesse far male passando proprio nel momento in cui dovessero decidersi a cadere.

Alla fine d’agosto e agli inizi di settembre a Hong Kong i tifoni (ovvero il nome con cui sono note le tempeste tropicali, o cicloni, nell’oceano Indiano e nel Pacifico occidentale) sono una certezza e quando si presentano, ottengono l’attenzione di tutti. Qui le estati se ne vanno poco alla volta (il caldo perdura fino a novembre) ma in modo tempestoso, con giornate fitte di pioggia calda e venti impetuosi che fanno scuotere le cime degli alberi come se fossero persone che parlano fra di loro esagitate e affannate, muovendo le mani e la testa.

Il senso di sgomento che ha lasciato Saola, chiamato così dal nome dell’unicorno asiatico, un bel mammifero schivo che nulla ha in comune con questo tifone arrabbiato, è dovuto al fatto che di solito le giornate di tempesta non passano così, con tonfi improvvisi nella notte, e il suono sinistro del vento che imperversa contro edifici, finestre, piante, e tutto il mobilio urbano. I piani più alti degli edifici oscillavano, e tutti postavano sui social foto di lampadari e quadri che si muovevano. Ora che i cambiamenti climatici stanno costringendo anche l’Italia a vedersela con i cicloni, può essere istruttivo guardare che cosa avviene a Hong Kong in queste occasioni, dato che qui si è alle prese coi tifoni da sempre.

Il da farsi è ben rodato: l’Osservatorio meteorologico, un’istituzione fondata nel marzo del 1883 proprio per monitorare i tifoni, comincia a dare le indicazioni necessarie appena possibile, così il pubblico sa cosa aspettarsi. Ci sono cinque livelli di allerta – numero 1, che equivale a un segnale di standby; numero 3, che avverte della presenza di venti forti; numero 8, che può avere quattro simboli diversi a seconda che i venti siano da nordest, nordovest, sudest o sudovest; numero 9, che mette in guardia da venti di burrasca, e infine numero 10, il più alto, che corrisponde a un uragano.

Data la regolarità con cui i tifoni si presentano ogni anno c’è chi spera in un tranquillo segnale n. 8 perché con l’8 chiude tutto, si sta a casa da scuola e dal lavoro, i negozi e la Borsa abbassano le saracinesche. Non appena l’Osservatorio annuncia che verrà issato, i datori di lavoro sono tenuti con un paio d’orette di margine a lasciare ai loro impiegati tutto il tempo di tornare a casa. Altrimenti possono essere multati. Barche e navi hanno l’obbligo di recarsi nei rifugi anti-tifone, e starsene strette l’una contro l’altra ad aspettare che il mare grosso torni normale. L’aeroporto viene chiuso e un po’ per volta cessano tutti i trasporti pubblici. Alcuni edifici mettono sacchi di sabbia agli ingressi per prevenire le inondazioni.

Ma per la maggior parte delle persone si tratta solo di tornare a casa, portarsi dentro tutto quello che è appeso alle finestre, sul balcone o nel giardino, e chiudere la porta. Chi è cresciuto in epoca coloniale disegna sulle finestre con lo scotch da pacchi delle X che dovrebbero evitare al vetro di frantumarsi in mille pezzi sotto la pressione del vento e fare in modo che si rompa in pezzi grossi più facili da raccogliere (serve? non serve? Nessuno sa dirlo con certezza: ma in epoca coloniale, terminata nel 1997, era consigliato farlo, e chi è cresciuto mettendo lo scotch alle finestre è talmente abituato che non sa smettere).

Uscire è sconsigliato: l’Osservatorio continua a mandare messaggi in cui raccomanda di restare al coperto, e normalmente è come avere un giorno di vacanza pagato in più. Trattandosi di evento naturale, c’è qualcosa di intoccabile nel riposo forzato imposto dai tifoni: oggi, dopo gli anni pandemici passati online, non conosco nessuno che accetti di essere su Zoom o Google Meet quando fuori impazzano il vento e la pioggia. Non è considerato accettabile. La scusa, di solito, è che Internet potrebbe saltare da un momento all’altro insieme all’elettricità. La realtà è che lavorare col tifone, anche se da remoto, sembra blasfemo. Televisione, libri, tè, magari un alcolico, e poco più: al massimo si possono mandare su WhatsApp ad amici e parenti fotografie di quello che si vede dalla finestra.

Il giorno dopo, se il tifone è stato forte, ci si chiama o ci si incontra e si dice: «Eh sì, era proprio un 8 quello». Oppure, che non lo sembrava – e i datori di lavoro chiamano i programmi radio per dire che l’Osservatorio ha davvero esagerato, che quello non poteva essere un 8, nemmeno per sogno, al massimo un 3, e invece hanno fatto chiudere una città intera, una città come Hong Kong!

Da tempo, però, l’Osservatorio ha la risposta pronta a queste lamentele: spiega che malgrado gli strumenti siano ormai evoluti e raffinati, prevedere il tempo, o la traiettoria dei tifoni, non è cosa da poco, e dal momento che sbagliarsi è inevitabile, meglio farlo per troppa cautela che per troppo poca, mettendo a repentaglio vite umane. E poi, i tifoni non sono così comprensibili: improvvisamente possono cambiare corso, venire più vicino o più lontano ai centri abitati, sgonfiarsi mentre sono ancora in cammino o al contrario prendere maggior forza e violenza strada facendo. Pretendere precisione matematica sarebbe assurdo, ed è meglio rassegnarsi dunque alla possibilità di mandare a casa i propri impiegati per un giorno, o anche due, quando arriva settembre.

Ogni anno malgrado gli avvisi e le allerte, ci sono anche persone che decidono di andare a fare surf, a ballare sotto la pioggia (possibilmente in vicinanza di una telecamera e di un o una cronista in cerata gialla con il cappellino impermeabile in testa e intorno l’acqua impazzita che sembra provenire non più soltanto dal cielo verso la terra, ma in tutte le direzioni, spruzzata ovunque dal vento) o a camminare in mezzo al verde per vedere in diretta gli alberi sradicati. Sport estremi hongkonghesi.

Alcuni tifoni sono rimasti date della storia locale: il tifone Wanda, nel 1962, che lasciò 72.000 persone senza casa e causò centinaia di morti, con venti a 260 km l’ora che spinsero navi e barche via dal mare e per le strade della città. Il peggio che io abbia mai visto è stato nel 2018, con il tifone Mangkhut, che sradicò più di 60.000 alberi e portò onde, e pesci, dal mare fino alle strade, un turbinio di acqua, rami, fogli di giornale e buste di plastica. Dopo il tifone la città era frastornata, e uomini e donne in scarpe di gomma raccoglievano rami e rottami per impilarli vicino ai bidoni della spazzatura. Ci fu un giorno supplementare a casa dal lavoro, ma non per questo Hong Kong si impigrì.

Eppure, questo strano e notturno Saola per qualche motivo era più spaventoso di Mangkhut, forse perché si è mosso così in fretta, facendo scattare i diversi livelli di allerta rapidamente uno dopo l’altro, e poi proprio perché si è scaraventato sulla città di notte – abbattendo alberi nel buio, danneggiando lampioni e illuminazione e facendo scuotere gli edifici con persone sdraiate nel letto che si alzavano per guardare dalla finestra la quantità d’acqua fitta e rabbiosa che precipitava giù nella notte. Per fortuna c’è stato l’Osservatorio meteorologico, affidabile, costante, uno dei pochissimi uffici a restare al lavoro quando viene innalzato il segnale n.8.

Non bisogna dimenticare che siamo nella nuova Hong Kong, quella del dopo-2020, l’anno in cui Pechino ha voluto imporre alla città una nuova Legge sulla Sicurezza Nazionale, liberticida, a cui si sono accompagnate riforme elettorali che hanno diminuito quasi del tutto la capacità dei cittadini di scegliere i loro rappresentanti. Il giorno dopo Saola, per accrescere l’amore della cittadinanza verso le autorità, come parte della campagna del governo per aumentare il consenso, 1500 funzionari governativi sono scesi in strada, elmetto in testa, a riaccompagnare i vecchietti nei centri per anziani da cui erano stati sfollati per condurli in rifugi solidi e a prova di catastrofe, aiutando a raccogliere e portare via i rami degli alberi caduti a terra. Non so se il loro volontariato obbligatorio abbia fatto sentire più affetto per questi rappresentanti non scelti a spasso coi fotografi che testimoniavano la loro laboriosità, ma certo, che diano una mano è meglio di niente.

Ilaria Maria Sala
Ilaria Maria Sala

Vive dal 1988 in Asia – dopo Pechino, si è spostata a Tokyo, poi Hong Kong, Shanghai, Hong Kong e Kathmandu, e ora di nuovo a Hong Kong. È autrice di diversi libri, l'ultimo, L'Eclissi di Hong Kong, Topografia di una città in tumulto, è stato pubblicato da Add Editore nel 2022. Fa parte di Lettera22. Scrive in italiano e inglese, parla una decina di lingue (più o meno bene a seconda della lingua) ed è poetessa e ceramista.

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