Non c’entra solo Chernobyl con i cinghiali radioattivi

Anche i test nucleari svolti durante la Guerra Fredda potrebbero essere tra le cause delle contaminazioni tra questi animali

(AP Photo/Michael Probst)
(AP Photo/Michael Probst)
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I cinghiali sono tra le specie selvatiche più diffuse nell’Europa centrale. Sono molto prolifici, abituati sempre di più alle attività umane e in alcuni casi sono radioattivi, al punto che in alcuni paesi, come la Germania, è vietato il consumo delle carni di determinati esemplari. La presenza di elementi radioattivi in questi animali è nota da tempo e non suscita particolari preoccupazioni (ci sono molte altre fonti inquinanti più pericolose per la salute), ma le cause della loro condizione sono ancora oggi dibattute perché potrebbero aiutarci a comprendere meglio le conseguenze ambientali di alcune attività umane nel lungo periodo.

La responsabilità della radioattività nei cinghiali era stata inizialmente attribuita all’incidente nella centrale nucleare di Chernobyl del 1986, ma secondo una ricerca scientifica da poco pubblicata è probabile che parte della contaminazione sia riconducibile ai numerosi test nucleari che furono effettuati nel mondo tra gli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo.

Oltre al caso della Germania, di cinghiali radioattivi si era parlato anche in Italia una decina di anni fa, quando alcune analisi avevano portato all’identificazione di esemplari interessati dal fenomeno in Val Sesia, in provincia di Vercelli (Piemonte). Il fenomeno era stato indagato dall’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA), che nel 2013 aveva definito il rilevamento di elementi radioattivi in alcuni cinghiali della zona come effetti nel lungo periodo dell’incidente di Chernobyl.

Nelle ore seguenti al disastro nucleare, avvenuto nell’odierna Ucraina, si erano diffuse nell’atmosfera importanti quantità di isotopi radioattivi, che erano poi ricaduti in buona parte dell’Europa. Era stato riscontrato un temporaneo aumento della radioattività in diversi animali, che in buona parte dei casi si era poi ridotta negli anni seguenti. I cinghiali in alcune aree geografiche avevano fatto eccezione, mantenendo livelli significativi, e vari gruppi di ricerca erano arrivati alla conclusione che ciò derivasse dalla loro particolare predilezione per i tartufi.

Nel tempo le piogge trasportano in profondità gli isotopi che si sono depositati sul suolo, che a loro volta si accumulano nei tartufi che crescono sottoterra, fino a quando non vengono intercettati dal fiuto dei cinghiali. Esistono numerose specie e varietà di tartufi, talvolta con un profumo e un sapore distanti da quelli cui siamo solitamente abituati. I cinghiali ne consumano grandi quantità specialmente d’inverno, quando non hanno molte alternative per nutrirsi.

Gli accumuli di isotopi sono inoltre più probabili nelle porzioni di territorio dove l’attività umana è pressoché assente, quindi con minore probabilità che sia spostato il materiale radioattivo depositato al suolo. In alcune aree geografiche meno antropizzate come le zone montuose delle Alpi bavaresi è quindi frequente trovare cinghiali radioattivi, in molti casi con valori al di sopra di quelli consentiti dalla legge per l’impiego delle loro carni. Per questo motivo in Baviera ne è stato vietato il consumo, con conseguenze sull’aumento della loro popolazione, visto che cacciarli non porta a particolari ritorni economici.

Per lungo tempo la spiegazione di Chernobyl aveva convinto la maggior parte dei gruppi di ricerca, ma erano comunque state sollevate ipotesi su altre fonti degli isotopi che ancora oggi interessano i cinghiali. Tra chi riteneva che Chernobyl fosse solo un pezzo della storia c’è Bin Feng, un ricercatore che ipotizzava che questi animali stessero in un certo senso pagando anche le conseguenze dei test nucleari svolti intorno alla metà del secolo scorso, molti dei quali per esempio sui territori dell’ex Unione Sovietica. Circa un quarto delle duemila bombe nucleari era stato infatti sperimentato con esplosioni nell’atmosfera, con il conseguente rilascio di particelle radioattive finite a grande distanza e cadute poi al suolo.

Insieme al suo gruppo di ricerca, Feng ha analizzato le carni di 48 cinghiali cacciati in Baviera, misurando i livelli di isotopi di cesio in ogni esemplare: in quasi il 90 per cento dei casi superavano i limiti di legge. L’analisi si è poi spostata su due specifici isotopi del cesio: il cesio-137 e il cesio-135, che si presentano in rapporti diversi a seconda della loro origine da un reattore o da un’esplosione nucleare.

In uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Environmental Science & Technology, il gruppo di ricerca scrive che tutti i campioni contenevano cesio radioattivo proveniente sia da Chernobyl sia da detonazioni nucleari, con proporzioni molto variabili a seconda degli animali esaminati. In circa un quarto dei campioni, la radioattività derivante dai test nucleari era da sola sufficiente per superare i limiti di legge per un consumo in sicurezza della carne di cinghiale.

(Environ. Sci. Technol. 2023)

Feng e colleghi nel loro studio dicono che la «sovrapposizione di vecchie e nuove tracce di cesio-137 può superare ampiamente l’impatto di qualsiasi singola fonte e mette in evidenza il ruolo centrale delle emissioni storiche di cesio-137 nelle attuali sfide contro l’inquinamento ambientale». Il cesio-137 dimezza la propria radioattività ogni 30 anni, un tempo di dimezzamento relativamente breve, ma comunque sufficiente per costituire un problema ambientale. Oltre a depositarsi nel suolo, può essere presente nell’acqua e nell’aria, e può finire nel nostro organismo attraverso l’ingestione di cibo o acqua contaminati, con conseguenze per la salute.

È per questo motivo che ci sono regolamenti e leggi che vietano l’utilizzo e il consumo di alimenti con livelli di radioattività tali da non renderli sicuri per il normale consumo. Oltre agli isotopi dovuti all’attività umana è utile ricordare che altri sono naturalmente contenuti nella crosta terrestre e che finiscono nell’acqua, nelle piante e di conseguenza nella catena alimentare. Le autorità sanitarie di solito non fanno particolari distinzioni sull’origine dei contaminanti, ma si occupano di misurarne i livelli a cominciare da quelli nell’acqua che viene utilizzata per il consumo umano.