Ieri ho comprato un cimitero usato, forse

«Le cose finiscono perché è giusto che finiscano: per consunzione, abbandono – una volta in Argentina ho visto una città abbandonata – sommersione da liane o da over turismo. Poi quel pensiero: a cosa serve? Cosa fare di un cimitero abbandonato? Cosa può fare lui per noi? Chiedo a chiunque mi capiti a tiro. Un giardino di rose? Un campo di lavanda? Una macchina da soldi: lo affitti per le notti di Halloween. La gente impazzisce per Halloween. Su dalla Romagna verranno a centinaia, son gente che per divertirsi fa qualsiasi cosa. Metti musica da paura, candele e torce e a mezzanotte irrompi vestito da zombie»

Tre croci nel camposanto abbandonato di Salecchio, Firenze, 1974 (foto Iacopo Menghetti)
Tre croci nel camposanto abbandonato di Salecchio, Firenze, 1974 (foto Iacopo Menghetti)

Ieri ho comprato un cimitero usato.

Cioè, a essere precisi, ho presentato domanda di partecipazione all’asta per comprare il cimitero. Ho avuto qualche difficoltà nell’approntamento del plico, che aveva da essere «sigillato con nastro adesivo e controfirmato sui lembi di chiusura, tale da confermare l’autenticità della chiusura originaria proveniente dal mittente ed escludere così qualsiasi possibilità di manomissione del contenuto». Sul nastro adesivo la firma tendeva a scivolare via, poi con la consulenza della cortese impiegata dell’Ufficio Protocollo del comune ce l’abbiamo fatta. Sulla busta ho apposto «l’esatta denominazione del mittente» (io) e ho vergato con una certa emozione la richiesta dicitura in caratteri maiuscoli: «NON APRIRE. CONTIENE DOCUMENTI PER ASTA PUBBLICA IMMOBILE LOC. SALECCHIO».

Dentro il plico ho messo la busta A, debitamente sigillata con nastro adesivo e controfirmata sui lembi di chiusura e recante la dicitura «Documentazione amministrativa». Dentro, domanda di partecipazione all’asta; fotocopia della carta d’identità; ricevuta del bonifico bancario per la somma pari al 10% dell’importo a base d’asta. Poi la busta B, anch’essa debitamente sigillata con nastro adesivo e controfirmata ecc. ecc. recante la dicitura «Offerta economica», con il modulo dove ho scritto quanto sono disposto a spendere.

L’asta sarà tra qualche giorno, il 24 agosto 2023. Mi è stato fatto capire che non dovrebbero esserci molti partecipanti, il mercato dei cimiteri usati, qui in Mugello, Firenze, ha una sua vivacità ma non eccessiva. Ho offerto 3mila euro, 3.050 per fare il grosso. Potrei essere l’unico pretendente. E avere il cimitero.

Qualche ora prima di vergare la richiesta, quando c’era da versare l’acconto, la mia determinazione ha perso slancio. Chi me lo fa fare, mi sono chiesto, e perché? Ho vacillato. Ho pensato ai figli: potrebbero tentare di interdirmi per palese incapacità di provvedere ai propri interessi, con il tribunale che nomina un amministratore di sostegno? E quali sono i miei interessi profondi? Perché mi interessa tanto un cimitero? Fatto è che in questa storia ci sono dentro da anni.

I cimiteri mi son sempre piaciuti. Capita. Quelli famosi, monumentali: a Parigi e a Milano, a San Michele, Venezia, su un’isola intera, dove sono sepolti Franco Basaglia in una cappella di famiglia e Igor Stravinskij sotto una lapide che mi ricordavo tutta nera e lucida ma poi controllando – questo è Il Post, se sbagli sei morto – ho scoperto essere bianca e corrosa. Quella nera lucida è di Emilio Vedova. C’è anche Christian Doppler, matematico tedesco, quello dell’effetto. A Londra, Highgate, con i figli adolescenti andammo a vedere la tomba di Karl Marx, un faccione severo, baffi e capelli lunghi, su un capitello alto alto. Una famiglia di indonesiani aprì un pacchettino e sparse lì davanti le ceneri di un loro parente – il padre? – che doveva averlo scritto nel testamento e loro parevano emozionati e al contempo divertiti. I comunisti in Indonesia con la morte devono avere un rapporto tutto loro: ne hanno uccisi a milioni. Lo avevo confusamente riportato ai figli, che avevano subito controllato in rete perché dell’autorità paterna sempre si dubita. Cose da cimiteri.

Diversi quelli di campagna. Più riflessivi. Girelli in Vespa, da ragazzo, entri, leggi qualche epigrafe, ti siedi sul prato, pensi. Adesso, nelle date sulle tombe, cerco quelli che sono nati nel mio stesso anno o giù di lì, ma un secolo prima. Faccio dei conti, elaboro statistiche, inserisco la solida maggiorazione percentuale della più lunga aspettativa di vita che che gli ultimi decenni del ’900 ci hanno messo davanti. Penso emotivamente. Fluttuo.

Poi i cimiteri di guerra. Quelli sull’altipiano di Asiago, dove si sono massacrati con particolare impegno, e un amico di amici, Claudio Rigon, è andato a fotografare le tracce di decine e decine di piccoli e piccolissimi cimiteri. Erano sparsi ovunque. Nella primavera del 1919, quando la neve si scioglie e cominciano ad apparire i corpi dei morti, a decine di migliaia vengono sepolti lì. Tra il 1922 e il 1924 Cristiano Bonomo, di Asiago, ne fotografa 41. Novant’anni dopo Claudio Rigon li ricerca uno a uno e posiziona la macchina fotografica nello stesso posto. Medesima inquadratura, stesso bianco e nero. A vedere quale c’è ancora, cosa ne rimane e cosa sorge al suo posto: un condominio, un bosco. Anche i morti, lo capirò meglio dopo, migrano. Lì ad Asiago verso un grande cimitero, il Sacrario Militare, costruito dal fascismo. Per commemorare, esaltare l’eroismo e la sacralità della vittoria. Per preparare ad un’altra guerra. Fanno comunicazione, i cimiteri.

Quello militare inglese che sta vicino a Firenzuola, Mugello, accoglie 275 soldati inglesi, 10 canadesi e 2 sudafricani morti nelle battaglie della Linea Gotica, 1944. Erba verde ben curata e lapidi bianche, tutte uguali. Una è in francese, una sola, canadesi francofoni, per «Il nostro unico figlio». C’è il nome di quel ragazzo, non me lo ricordo, me ne dispiace. Una panchina di legno, pesante e leggera, molto inglese, per provare a pensare.

Pochi chilometri più avanti e più in alto, il Cimitero militare germanico del passo della Futa. Stessa Linea Gotica, 30mila e passa sepolti. Lapidi basse, due facciate, due nomi. Tantissimi hanno 17 anni. Una lunga storia complicata: un paese che vacilla all’idea di dare ospitalità, per sempre, ai nemici, in un grande monumento che risale il monte in una spirale senza fine. Inaugurazione il 28 giugno 1969. Piove. I parenti sono arrivati dalla Germania: «Mio fratello ha sempre desiderato di poter vivere per vedere questo giorno. È morto quattro mesi fa e fino alla fine ha chiesto che un membro della famiglia si recasse al funerale del suo unico figlio, morto a 19 anni. Quindi lo faccio ora, ho ottantacinque anni. È difficile». «Mio marito è sepolto lì. È la prima volta che vedo il suo luogo di riposo».

Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni, Archivio Zeta, due teatranti eccezionali allievi di Ronconi – ma teatranti è riduttivo: autori e operatori indipendenti di lavoro culturale, meglio – fanno da 20 anni teatro in mezzo a quel cimitero. Eschilo, Sofocle, Karl Kraus – Gli ultimi giorni dell’umanità, maschere antigas nell’aria limpida dei monti – poi Dostoevskij, Shakespeare e Cortázar, poi altri. Adesso Thomas Mann, La montagna incantata. Si sale alle sei del pomeriggio, si entra nel cimitero: una scena e ci si sposta, poi un’altra, si sale la spirale. A volte si entra nella cripta nera che sta in cima. Di colpo il tempo cambia, siamo a quasi mille metri d’altezza, e si passa alla svelta da agosto a gennaio. I più avveduti hanno una giacca a vento. Il freddo è straniante, ci sta con il teatro. A volte comincia a piovere e Gianluca Guidotti riconvoca tutti per il giorno dopo. Scenografia zero o quasi: ricordo un tronco d’albero a fare da tomba, qualche filo rosso a tessere trame, un drappo nero di regina. È il grande cimitero che dice tante cose, amplifica, risuona e si intreccia con le parole e i gesti. Un cimitero fa cose. Cassa di risonanza.

Dati questi presupposti, dieci anni fa, in un paesello dell’Appenino tra Toscana e Romagna dove passiamo le vacanze ho incontrato il cimitero a cui adesso tendo la pargoletta mano. Sta a 500 metri dalla chiesa della frazione. Qui, in una parrocchia di case sparse, fino agli anni ’60 abitavano più di 300 persone. Adesso sono meno di dieci. Se ne sono andati tutti in pochi anni, a lavorare in pianura, la Bassa, dove l’agricoltura non era quella da sopravvivenza di questi monti. L’esodo veloce e biblico che ha svuotato l’Appennino, con tutti che sono scivolati a valle. Qualche anno dopo hanno portato via anche i morti, esumazione, trasferiti nel cimitero del paese. Per qualche anno – ho capito chiedendo – il cimitero continuava ad essere curato. «Tagliavano l’erba», mi ha detto Oscar Biagi che ha un castagneto un po’ sopra e ci passa davanti spesso con il trattore, «poi hanno smesso».

Quando l’ho visto per la prima volta era già invaso dal bosco. Arbusti che lavorano per diventare alberi dentro e altri che si affacciano da fuori. Una parte delle mura crollata. Un accerchiamento di liane rampicanti amazzonico-appenniniche ricopre tutto. Tipo sipario. E edera di dimensioni ciclopiche che ha scavalcato le mura e ha invaso il suolo. Tipo Blob, ma più lento e denso. Un tappeto sommergente. Il cimitero sta affondando e a me dispiace. Non so perché, ma la la lotta contro il rampicante mi scava dentro impreviste voglie di guerra. Roba dura, mezzi pensieri, tronchesi tagliarami d’acciaio finlandese – il migliore, si sa – per liberare i soffocati. Una lotta di liberazione? Pare troppo. Ma comunque mi tocca qualcosa.

Il comune mette in vendita il cimitero. Di più: una serie di cimiteri nelle frazioni del paese, tutte più o meno abbandonate. Enzo Naldoni, il meccanico del paese, è interessato a quello di Bibbiana: lo ha in comodato d’uso da anni e dice che è il recinto ideale per i suoi cani da tartufo. Oscar Mongardi, il geometra, penserebbe a quello di Badia di Susinana. Io mi butto su Salecchio. Ipotizziamo una lobby dei proprietari di cimiteri per far sentire tutto il nostro peso nella vita del paese. Non se ne fa niente. Solo Naldoni arriva alla fine. C’è qualche malumore per questa cessione della memoria collettiva a dei privati, credo un po’ di più a me che vengo da fuori e sono, palesemente, un cialtrone. O forse è un’astuta mossa dell’opposizione per mettere in difficoltà la maggioranza che governa il comune. Comunque la vendita viene annullata.

Me ne dispiaccio, me ne faccio una ragione.

Ripasso al cimitero otto anni dopo, estate del ’21, e semplicemente non lo trovo più. Dovrebbe essere lì dov’è da secoli, appena superato il ponticello sul torrente, tre metri in alto sopra la strada. Non c’è più. Non si vede. È sommerso. Le liane stanno trionfando, l’edera festeggia. Il tetto della cappelletta è crollato e le mura resistono solo perché l’edera fa da cemento. Una parte delle mura è collassata e qualcuno ha rubato le pietre più belle, quelle lavorate di scalpello. Come tutela della memoria collettiva non siamo andati bene, penso. Ma senza rabbia. È malinconia, che con il cimitero ci sta.

Mi riprende questo pensiero di cosa si possa fare di un cimitero. Forse, penso, le cose finiscono perché è giusto che finiscano: per consunzione, abbandono – una volta in Argentina ho visto una città abbandonata – sommersione da liane o da over turismo, tipo Venezia. Poi quel pensiero: a cosa serve? Cosa fare di un cimitero abbandonato? Cosa può fare lui per noi? Chiedo a chiunque mi capiti a tiro. Un giardino di rose? Un campo di lavanda? Una macchina da soldi: lo affitti per le notti di Halloween. La gente impazzisce per Halloween. Su dalla Romagna verranno a centinaia, son gente che per divertirsi fa qualsiasi cosa, pensaci. Metti musica da paura, candele e torce con luce sinistra e a mezzanotte irrompi vestito da zombie con la motosega ruggente in mano.

Poi mi è venuta in mente mia mamma. Lei non avrebbe detto «cimitero» ma «camposanto». Un lembo di terra uguale ma diverso dai prati che lo circondano: più santo, appunto, più buono, più giusto, più in equilibrio e più denso. E più sacro, anche se non si è credenti. Perché il camposanto custodisce la memoria e accoglie i ricordi.

Un amico del paese, Iacopo Menghetti, lo aveva fotografato 40-45 anni fa. Ha ritrovato le immagini e sono bellissime. In una, in bianco e nero, lui, il camposanto, è lì in mezzo ai prati coperti di neve. Le mura disegnano il terreno. C’è un’armonia, un abbraccio. Non ci sono arbusti, liane rampicanti e sottobosco, perché tutto è cresciuto dopo l’abbandono. Solo castagni secolari, nel monte alla sua destra.

Poi, era novembre, ci ho portato un amico, Mirko Artuso, attore e regista. A cosa serve un luogo così? Cosa ce ne facciamo di un cimitero che non è più un cimitero – non ospita più i corpi – ma continua a esserlo? Come, in cosa può aiutarci? Lui ha detto: «Teatro, è chiaro». A me non sembra così chiaro. Ma tant’è. L’anno passato, a Ferragosto, abbiamo provato a fare qualcosa nel prato a fianco del camposanto che è della Curia fiorentina da mille secoli almeno e lo ha in affitto, ci sfalcia l’erba, Franco Calmetti. Che ha ascoltato questa strana richiesta di usare il suo prato per farci uno spettacolo teatrale. Senza ridere, grazie Franco. È venuto El Bechin, ci pareva giusto cominciare così, con un uomo del mestiere, che fa claunerie a tema un po’ macabro. Poi uno spettacolo teatrale, ma nella piazza del paese. La notte, al camposanto, ci pareva troppo. Arianna Porcelli Safonov ci ha ricordato che si torna sempre alla terra. Un piccolo contributo del comune, tanto lavoro dell’associazione Genti di Montagna, che si occupa del museo etnografico del paese, un modesto biglietto d’ingresso e ce l’abbiamo quasi fatta ad andare in pari. Io ci ho rimesso solo 130 euro, un successo.

Quest’anno lo abbiamo rifatto. Spettacolo di Rita Pelusio, La felicità di Emma, da Claudia Schreiber, con gli alberi a far da sfondo. Una cena di cose buone, perché una grande società che si chiama Rekeep e si prende cura di edifici, ospedali, treni e metropolitane in giro per il mondo con Lisa Cacciari ha deciso di prendersi cura di un gruppo di deliranti che vuol prendersi cura di un cimitero abbandonato. Poi abbiamo trovato il coraggio di entrare proprio dentro il camposanto. Il gruppo di lettura del Teatro del Pane, made in Treviso e sempre Mirko Artuso, hanno letto storie di vita e morte, intrecci e sconfinamenti. Paasilinna, Ugo Cornia, Woody Allen, Umberto Eco. Ognuno ha scelto il suo. Ci siamo definiti Comuni Mortali. Poi siamo tornati a casa.

Spettacolo teatrale sul prato di fianco al cimitero abbandonato di Salecchio, Firenze, 15 agosto 2022 (foto Fabio Fantuzzi)

Un signore di Marradi, il paese vicino, quello di Dino Campana, mi ha detto che c’è una cripta sotto il pavimento della cappelletta crollata. Lo sa perché da ragazzo ci si nascondeva dentro dopo aver dato appuntamento, di notte, a qualcun altro del gruppo di amici, una sfida per vedere chi aveva il coraggio di entrare nel cimitero tutto buio. Poi, dalla cripta, emetteva rumori sinistri, gemiti, grattate sulla roccia. Prima lievi, poi più decise. Infine usciva urlando dalle viscere della terra. Un cimitero, ne ho dedotto, fa pedagogia delle paure.

Oscar, quello che va con il trattore al castagneto, conferma l’esistenza della cripta: ci giocavano i suoi bambini. Adesso hanno più di 40 anni. Ha anche visto, Oscar, quelli che una sera si rubavano le pietre. Non gli ho chiesto i nomi. Ho pensato alla porosità della pietra: metti che resti qualcosa dentro di tutta quell’essere soglia tra vita e morte, campo e camposanto e fuoriesca, prima o poi. E come si fa costruire un muretto con le pietre rubate in un camposanto? E ci avrà mica poi messo sopra i puttini in gesso che fanno pipì, drammaticamente endemici davanti alle villette a schiera della Toscana.

Mentre ripuliamo il camposanto, senza tagliare nessun albero grande e neppure troppi arbusti anche se sono tutti stortignaccoli perché i Carabinieri Forestali vigilano, si è fermato un signore per dare un’occhiata. «Cosa state facendo?» Abita, ma da turista, solo d’estate, in una casa sul monte. Gli ho raccontato del teatro e dell’idea di comprarlo, il cimitero. Dice che è buona, ci aveva pensato anche lui. «Ma va bene così», mi ha detto passando subito al tu come si fa dalla parte romagnola di questa terra di confine, «prendilo pur te». Mi ha fatto capire che la cappelletta, quando la ricostruisci, è chiaro che la puoi fare un po’ più grande e poi, un po’ di tempo dopo, ti allarghi ancora.

Ci penso, ho detto io, intanto partecipo all’asta.

Massimo Cirri
Massimo Cirri

Da decenni conduce Caterpillar su Rai Radio 2. Con Chiara D'Ambros ha scritto Quello che Serve. Un racconto tra malattia, cura e Servizio Sanitario Nazionale (Manni Editori) che è anche un documentario disponibile su RaiPlay. Ma il libro è meglio.

STORIE/IDEE

Da leggere con calma, e da pensarci su