• di Ilaria Maria Sala
  • Storie/Idee
  • Mercoledì 26 luglio 2023

Il cinese non esiste

«L’altro giorno in autobus a Hong Kong ho ascoltato due ragazzini in divisa da scolaretti parlarsi in mandarino, per quanto con un accento terribile che mi sembrava molto cantonese. Mi sono chiesta perché non si parlassero in cantonese direttamente. Anche a Shanghai la lingua legata al maggior prestigio e potere sociale sta smettendo di essere lo shangaiese, per diventare il mandarino. I bambini che aspirano a essere cool e a beneficiare del potere della lingua dominante si parlano in mandarino in autobus»

Una scuola di Hong Kong festeggia la giornata dell'istruzione istituita per insegnare la legge sulla sicurezza nazionale del 2020, 15 aprile 2023 (Anthony Kwan/Getty Images)
Una scuola di Hong Kong festeggia la giornata dell'istruzione istituita per insegnare la legge sulla sicurezza nazionale del 2020, 15 aprile 2023 (Anthony Kwan/Getty Images)
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Quando ero studentessa di cinese il mio libro di grammatica riportava frasi che, seppur traducibili parola per parola, mi parevano incomprensibili. Si sono rese più chiare dopo un po’ di tempo, solo con una maggiore conoscenza della Repubblica Popolare Cinese e della sua ideologia. Alcune le ricordo ancora: una recitava «i cinesi parlano cinese, mangiano cibo cinese. Gli stranieri parlano straniero, mangiano cibo straniero». I miei ripetuti «Ma! Ma! Ma!» all’insegnante non scalfirono la serafica sicurezza con cui rispose che la frase era corretta e che io dovevo limitarmi a imparare vocabolario, pronuncia esatta e grammatica. «Ma che lingua sarebbe lo straniero?», chiesi senza aver risposta.

Una volta trasferitami in Cina capii meglio quello che le persone intendono con certe parole: ma dire “il cinese”, intendendo la lingua, resta una forzatura recente, per quanto accettata dai più. “Cinese” significa lingua mandarina, ovvero quella ufficiale, quella che si studia quando ci si iscrive, per l’appunto, a un corso di cinese. E se si studia senza farsi domande si può restare convinti che il mandarino sia una lingua miracolosa, parlata da un miliardo e mezzo di felici cinesi che parlano cinese, pensano cinese e mangiano cinese. Ci sono giorni in cui un mondo così semplice potrebbe sembrare desiderabile, ma è cullante propaganda – ovvero, violenza uniformatrice.

L’altro giorno in autobus a Hong Kong ho ascoltato due ragazzini in divisa da scolaretti parlarsi in mandarino, per quanto con un accento terribile che mi sembrava molto cantonese. Mi sono chiesta perché non si parlassero in cantonese direttamente (come hanno fatto entrambi poco più tardi con le loro mamme, sedute non lontano). Anche a Shanghai – fra il martellare della propaganda e la massiccia immigrazione di persone dalla Cina continentale abituate a parlare mandarino – la lingua legata al maggior prestigio e potere sociale sta smettendo di essere lo shangaiese, per diventare il mandarino. E ormai da tempo anche i bambini che aspirano a essere cool e a beneficiare del potere della lingua dominante si parlano in mandarino in autobus.

In Cina hanno a lungo convissuto mille lingue diverse (non potrebbe essere altrimenti su una superficie così vasta). Che la lingua nazionale sia divenuta il mandarino è stato un po’ un caso. I “padri della patria” rivoluzionari, sia in epoca Repubblicana (1912-1949, ovvero dalla fine dell’era imperiale fino alla vittoria comunista in seguito alla guerra civile) che nell’attuale era del Partito Comunista, decisero per votazione se usare il cantonese (la lingua parlata da circa 100 milioni di persone, in particolare nel Guangdong, a Hong Kong e fra le persone della diaspora cinese d’oltremare), il fujianese (anche detto hokkien o minanhua, parlato da circa 100 milioni di persone nel Fujian, a Taiwan, in parte dell’isola di Hainan e fra alcune comunità d’oltremare), oppure il mandarino: una lingua sviluppata dal dialetto di Pechino e dalla lingua utilizzata dalla burocrazia imperiale, adottata in parte anche dalla letteratura “vernacolare”, ovvero, non nel cinese classico (che sta all’italiano come il latino).

Dal 1950 cominciò una politica di promozione del mandarino, tradottasi in una soppressione delle altre lingue: sminuite perché apostrofate come “dialetti”, non possono essere trasmesse per radio e per televisione, o utilizzate come lingua di istruzione a scuola. In alcuni casi quest’operazione pluridecennale di appiattimento linguistico ha anche sovvertito la regola del sociologo francese Pierre Bourdieu sul linguaggio e il potere simbolico – in cui una lingua legata a una cultura prestigiosa, come sarebbe quella di Shanghai nel nostro caso, ha un inerente potere simbolico. Lo shanghaiese era parlato da circa 15 milioni di persone prima della riforma urbana degli anni ’90, che avrebbe portato Shanghai ad avere più di 25 milioni di abitanti (immigrati interni). Da lingua di grande prestigio sociale, economico e culturale è diventato una lingua in via di estinzione, dopo che il monoteismo linguistico del governo centrale lo ha reso inutile e anche un po’ sospetto (come se chi parlasse shanghaiese covasse slealtà nei confronti della lingua promossa dal governo centrale). Come fa notare la sociologa Fang Xu nel suo volume Silencing Shanghai (Lexington Books, 2021) sono state tre le politiche di stato che hanno contribuito a rendere moribondo lo shanghaiese in trent’anni: la politica nazionale legata all’utilizzo della lingua, la riqualificazione urbana di Shanghai e la migrazione interna. Shanghai, come altre città che hanno perso la loro lingua, non solo ha subito le politiche linguistiche unificatrici cinesi, ma ha anche visto la distruzione quasi totale della sua architettura storica e la dispersione e atomizzazione nelle periferie delle comunità che parlavano shanghaiese.

Le campagne per “parlare mandarino” sono annuali e intense: funzionari in borghese vanno nei teatri e nei cinema, nei negozi e in ogni luogo pubblico, e se vengono apostrofati in shanghaiese (o in altri “dialetti”) riportano il misfatto alle autorità, che penalizzano diminuendo fondi o togliendo le placche di “Unità di lavoro modello” distribuite agli esercizi più prestigiosi. Gli stessi zeloti correggono i caratteri scritti “male”, cioè in modo più simile alla pronuncia locale.

Hong Kong, dove si parla cantonese, sta subendo metamorfosi simili. Il timore della perdita del cantonese non è recente: già nel 2010 a Guangzhou la pressione per accantonare la lingua aveva portato a una mobilitazione di piazza, a cui avevano partecipato anche diversi hongkonghesi, uniti dalla minaccia alla loro lingua comune.

Chi difende il cantonese sottolinea quanto questa lingua sia ricca: è tonale, come tante altre lingue della regione (l’intonazione che viene data a una sillaba, lunga, corta, ascendente o discendente, per esempio, ne modifica interamente il significato). Ha una storia antica: il cantonese si presta meglio del mandarino sia a capire i prestiti dal cinese arcaico di lingue quali il giapponese o il coreano, sia per la poesia antica, che rima in cantonese più spesso che non in mandarino. Ha una sua scrittura: non solo perché in Cina continentale si usano i caratteri semplificati (introdotti per lo più in era maoista e con meno tratti, contrariamente a quanto avviene a Taiwan e Hong Kong, dove vengono ancora usati caratteri “tradizionali” o a forma completa) ma anche perché per trascrivere parole che in mandarino non ci sono sono stati sviluppati caratteri nuovi, che seguono regole di scrittura e pronuncia cantonesi.

Questa della scrittura “uguale per tutti” è l’altro grande mito dell’educazione cinese, in patria, con le sue spinte nazionaliste e uniformizzanti, e degli Istituti Confucio, all’estero: le diverse lingue hanno sintassi diverse, parole diverse, e non potrebbero essere scritte nello stesso modo. Il fatto che ciò sia imposto dall’alto porta a grosse difficoltà di apprendimento: abitando a Hong Kong, ho visto anno dopo anno statistiche secondo cui gli studenti locali hanno crescenti difficoltà a scrivere “il cinese”, e anche l’inglese. All’inizio mi chiedevo come si esprimessero, poi ho capito che per questi sondaggi “il cinese” è la dimestichezza con il vocabolario e la sintassi mandarine, imposte nella lingua scritta, di studenti cresciuti parlando cantonese.

Per tutte queste ragioni, dunque, insieme alla crescente disaffezione dei giovani nei confronti delle politiche del governo centrale imposte a Hong Kong, il cantonese stava cominciando a essere un forte simbolo identitario, cioè, per un governo che richiede prove di fedeltà assolute, un potenziale veicolo di “separatismo” diverso dal monomandarino per tutti. La legge sulla sicurezza nazionale del 2020 – imposta da Pechino senza consultare il Consiglio legislativo di Hong Kong in risposta alle manifestazioni del 2019 – ha introdotto nuovi crimini, fra cui quello di “collusione con forze straniere”, e portato a un’ampia campagna politica per integrare maggiormente Hong Kong al resto della Cina. Anche linguisticamente.

Oggi a Hong Kong si scrive poco in cantonese: i giornali che lo utilizzavano erano quelli del campo pro-democrazia, quasi tutti costretti alla chiusura. I caratteri cantonesi esistono ancora, sono usati nelle chat, e sono in bella vista sulle fiancate degli autobus o all’interno della metropolitana, dato che le pubblicità sono ancora scritte in cantonese, ma a scuola hanno sempre meno spazio. La martellante promozione del mandarino, come dimostrano i due ragazzini in autobus che per essere cool si parlavano nella lingua nazionale, comincia a ottenere l’effetto desiderato perché si collega a un desiderabile potere sociale.

E dire che lo studio del cantonese, oltre a stimolare la mente con i suoi nove toni (per fortuna se ne usano solo sei), la sua sintassi unica (a volte il verbo è alla fine; a volte no) e il suo costante rinnovarsi (in alcuni film di Hong Kong l’effetto comico nasce da slang vecchi di qualche decade), avvicina ai fondamenti della linguistica.

Verso la fine del 2020, quando Hong Kong si proteggeva dal Covid tenendo chiuse le porte al mondo intero senza dare indicazioni su quanto a lungo sarebbe durata la clausura, mi ritrovai a girare per la cucina di casa, ansiosa e infelice. Indossavo gli auricolari e ascoltavo la lezione n. 20 del mio corso di Complete Swedish (di Anneli Haake, pubblicato dalla Teach Yourself) ripetendo a voce altissima le espressioni e i vocaboli da pronunciare esattamente come nella registrazione.
Mi aggrappavo a ogni nuova parola:
– “Utmaningar!” (sfide)
–  “Lyckas!” (successo)
– “Mislyckas!” (fallimento)
–  “Försöka!” (cercare)
–  “Klara!” (cavarsela)

Mi accorgo solo oggi quanto quei vocaboli si prestassero a paralleli sugli ultimi mesi, sia dal punto di vista collettivo che personale, visto che in quel periodo molte certezze, anche mie individuali, avevano cominciato a sgretolarsi. A forza di lyckas e mislyckas a squarciagola, però, mi sentii un po’ più serena. In quel periodo stavo perdendo molto più di una lingua, e quindi mi rifugiavo in un’altra, nuova e piena di promesse.
Perdere una lingua può avvenire con terribile facilità.
Io stavo perdendo quel lessico famigliare narrato da Natalia Ginzburg, lingua a tutti gli effetti, dopo una malattia diagnosticata a mia madre, che me l’avrebbe sottratta.
Un secondo lessico affettivo era diventato un terreno minato e sanguinoso, dopo la fine di una lunga e difficile relazione che scoprivo, a colpi violenti, diversa da quanto avevo creduto.
In più, anni di sforzi per imparare il cantonese – una delle lingue più difficili con le quali mi sia mai cimentata – e a scoprire di amarne la plasticità e le sonorità stavano diventando improvvisamente vani: fin dalle prime ore dopo il passaggio della legge sulla sicurezza nazionale liberticida, decine di amici coinvolti nel movimento pro-democrazia avevano cominciato a lasciare la loro amatissima città.

La perdita di una lingua porta a mettere in discussione la propria identità, la propria storia e, a volte, la propria esistenza stessa. La perdita di un lessico personale, costruito attraverso anni di intimità con una madre, o quella che si compone con un affetto profondo, scuote in tutti questi modi, cauterizzando un tessuto vivo e gioioso che diventa solo dolore. Ma la cancellazione di una lingua collettiva è un’ablazione che lascia sgomento e smarrito chi si riconosceva nei suoi suoni e nella sua sintassi, e nelle strade, pietra per pietra, edificio per edificio, dove questa risuonava. Era come se d’un tratto milioni di battute e di capacità di capirsi e definirsi all’interno di un largo gruppo di persone venissero spazzate via e sostituite da una sovrastruttura funzionale, ma che avrebbe necessitato di anni per non risultare sterile e fredda. Certo, le lingue si ricompongono: giochiamo con sillabe e parole, e siamo noi a rendere viva una lingua anche nel caso ci sia stata imposta. Ma essere privati di una o più lingue, a forza, da eventi personali o collettivi, per un certo periodo almeno fa sentire la gola chiusa, bloccata, come se dovesse filtrare tutte le parole che non ha più modo di dire.

Tuttora non posso certo dire di padroneggiare il cantonese, ma man mano che la mia autostima si nutriva di conversazioni più lunghe in cui vivevo la delizia di essere compresa, ecco che andavano in frantumi due lessici affettivi intimi insieme alla certezza della resistenza linguistica cantonese.

Per una strana coincidenza, è proprio in quel momento che mi sono avvicinata allo svedese: non so se una lingua possa sostituirne altre. Forse si affianca soltanto, senza sovrapporsi, ai lessici affettivi persi per strada, e che si stemperano lentamente dentro di noi. Nel chiedermelo, continuo a studiare: – “Utmaningar!” (sfide) – “Lyckas!” (successo) – “Mislyckas!” (fallimento) – “Försöka!” (cercare) – “Klara!” (cavarsela).

Ilaria Maria Sala
Ilaria Maria Sala

Vive dal 1988 in Asia – dopo Pechino, si è spostata a Tokyo, poi Hong Kong, Shanghai, Hong Kong e Kathmandu, e ora di nuovo a Hong Kong. È autrice di diversi libri, l'ultimo, L'Eclissi di Hong Kong, Topografia di una città in tumulto, è stato pubblicato da Add Editore nel 2022. Fa parte di Lettera 22. Scrive in italiano e inglese, parla una decina di lingue (più o meno bene a seconda della lingua) ed è poetessa e ceramista.

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