Quanto costa fare un figlio

In media diverse centinaia di euro al mese, senza contare le rinunce che soprattutto le madri affrontano in termini di carriera

Un momento del matrimonio di Pippa Middleton e James Matthews (AP Photo/Kirsty Wigglesworth, Pool)
Un momento del matrimonio di Pippa Middleton e James Matthews (AP Photo/Kirsty Wigglesworth, Pool)
Caricamento player

Tra le varie valutazioni di carattere pratico che si fanno quando si pensa di fare un figlio c’è anche la questione economica. Il costo di crescere un figlio è molto variabile e dipende da tantissime cose: ci sono i costi legati alla gravidanza e al parto, poi il costo effettivo legato all’accudimento, che cambia a seconda dell’età, a seconda dell’area geografica in cui si vive e anche a seconda del reddito familiare.

Ci sono poi una serie di costi che non prevedono un esborso reale ma sono relativi ai rischi di perdere opportunità di carriera, soprattutto per le madri: per le donne disoccupate con figli è più probabile non riuscire a trovare un lavoro e se lo hanno è probabile che inizino gradualmente a lavorare sempre meno ore, che guadagnino sempre di meno e che perdano tutta una serie di opportunità di carriera. Con il risultato di guadagnare non solo meno degli uomini, ma anche meno delle donne senza figli.

I primi costi da sostenere sono quelli legati alla gravidanza: visite ginecologiche, esami del sangue, ecografie, esami diagnostici particolari, come amniocentesi e villocentesi, e poi quelli per il parto. I costi dipendono da tante cose: dalle eventuali difficoltà di concepimento, dalla scelta di affidarsi alle strutture pubbliche o a quelle private; cambiano anche a seconda del tipo di gravidanza che si ha, se problematica o tutto sommato tranquilla, dagli esami raccomandati e anche dall’assicurazione sanitaria che si ha. Per esempio, amniocentesi e villocentesi, che sono test prenatali per rilevare eventuali presenze di anomalie cromosomiche nel feto, sono gratuiti per le donne sopra i 35 anni e in presenza di fattori di rischio, ma non è detto che si riesca sempre a farli nelle strutture pubbliche a causa delle liste d’attesa: nel privato costano svariate centinaia di euro. Lo stesso vale per il parto: è gratuito nelle strutture pubbliche e si può richiedere a pagamento con servizi aggiuntivi, come una stanza privata; il parto nelle strutture private costa svariate migliaia di euro.

Le variabili in gravidanza sono moltissime e non è quindi possibile fare una stima più o meno affidabile sui costi di questa fase. Esistono invece alcuni studi che stimano le spese da sostenere per l’accudimento di un figlio una volta nato. La relazione annuale di Banca d’Italia riporta i risultati di uno studio condotto da suoi ricercatori, che hanno cercato di stimare il costo mensile di avere un figlio usando i dati dell’indagine dell’ISTAT sulle spese dei consumatori italiani. Si tratta appunto di stime, che per loro natura sono fatte di ipotesi, semplificazioni e medie, e che non hanno per questo la pretesa di essere esaustive. Nel periodo 2017-2020 le famiglie composte da due genitori e uno o più minori hanno speso mediamente 645 euro al mese per mantenere ogni figlio, circa un quarto della spesa media di una famiglia italiana.

Questo importo comprende tutti i beni e servizi destinati esclusivamente ai figli, come le rette scolastiche, il cibo per bambini, i pannolini e via così, ma anche una quota delle spese familiari comuni, come l’affitto, il mutuo o il costo della macchina.

La spesa può variare a seconda dell’area geografica, sulla base del diverso costo della vita: il costo mensile è più alto al Nord, mentre è più basso al Sud e nelle isole. La differenza si vede soprattutto nel costo della casa; nonostante questo la quota del reddito familiare destinata ai figli è la stessa ovunque.

Per quanto nello studio si usino dei dati ISTAT piuttosto affidabili, queste stime presentano comunque dei limiti e vanno quindi prese con dovute cautele. Un limite è rappresentato dal fatto che il calcolo è fatto a parità di tutti gli altri consumi, senza contare le rinunce che i genitori potrebbero decidere di fare per soddisfare quelli dei figli. In questo caso la spesa per i figli è sottostimata.

Il limite più evidente è dato anche dal fatto che questi valori rappresentano una media, perché è vero che nel campione ci sono solo famiglie con almeno un minore (e senza figli maggiorenni che distorcerebbero i risultati), ma queste famiglie sono tutte diverse. Per esempio ci sono famiglie che pagano centinaia di euro al mese di asilo nido e famiglie che invece non usufruiscono del servizio.

In più all’interno del campione ci sono minori di ogni età, quando si sa che le componenti di spesa variano tantissimo nel corso della vita. Per esempio, nei primi anni di vita saranno più rilevanti le spese mediche e per l’accudimento, come appunto le rette dell’asilo nido o il pagamento del servizio di baby-sitter, mentre poi diventeranno più rilevanti quelle per il tempo libero.

Il modo corretto di interpretare il valore di 645 euro dello studio di Banca d’Italia è di considerarlo proprio una media mensile delle spese di crescere un figlio dalla nascita alla maggiore età, un valore che sarà superiore o inferiore a seconda delle fasi della vita. Potrebbe essere quindi interpretato in altro modo come la media di un costo complessivo di circa 140 mila euro (645 per 12 mesi, moltiplicato poi per 18 anni).

Effettivamente nei primi anni di vita questo valore sottostima di molto il costo per l’asilo nido, perché prende in considerazione anche chi non ne usufruisce (e che quindi non spende nulla, abbassando la media). In realtà sappiamo che il costo dell’asilo nido è una delle componenti più alte nei primi anni. Non esiste una stima univoca delle rette, che variano molto anche a seconda dell’area geografica, se Nord o Sud e se grande città o provincia, e del tipo di struttura, se pubblica o privata.

Il problema degli asili nido nasce dal fatto che ce ne sono molto pochi rispetto alla necessità. Secondo gli ultimi dati dell’ISTAT, in Italia al 31 dicembre 2020 erano attivi 350.670 posti, di cui circa la metà (49%) all’interno di strutture pubbliche. Rispetto all’anno precedente c’è stato un calo di 10.600 posti, il 2,9 per cento in meno.

Ma il dato più importante riguarda la disponibilità dei posti rispetto al totale dei bambini sotto i tre anni: in Italia è al 27,2 per cento, che significa che negli asili nido italiani ci sono 27,2 posti ogni 100 bambini sotto i tre anni. Questo numero è più basso della soglia del 33 per cento che era stata fissata dal 2002 nel Consiglio Europeo di Barcellona con l’obiettivo di raggiungerla entro il 2010. A dieci anni dalla scadenza, l’Italia è ancora lontana.

Ci sono molte differenze tra le diverse aree del paese, nelle regioni e anche nelle singole province: sia il Nord-est che il Centro sono oltre gli obiettivi europei (rispettivamente 34,5 per cento e 35,3 per cento); il Nord-ovest è molto vicino alla soglia (31,4 per cento) mentre il Sud (14,5 per cento) e le Isole (15,7 per cento), pur in miglioramento, risultano ancora distanti. Ci sono differenze anche all’interno delle città, per esempio tra l’offerta garantita nei quartieri del centro rispetto a quelli periferici. Alcuni dei motivi che incidono sono la storica attenzione al tema da parte dei diversi territori, la capacità di spesa dei comuni e lo sviluppo delle reti sociali.

Oltre alla mancanza di posti disponibili, un altro problema legato all’accessibilità degli asili nido sono i costi delle rette: spesso costano centinaia di euro al mese, rispetto alle poche decine di euro della scuola dell’infanzia. L’ISTAT spiega che il «reddito netto annuo delle famiglie con bambini che usufruiscono del nido è mediamente più alto (37.699 euro) di quello delle famiglie che non ne usufruiscono (31.563 euro)».

– Leggi anche: I ritardi del PNRR con gli asili nido non sono stati recuperati

I costi di fare un figlio non si limitano a quelli più direttamente osservabili, ma comprendono anche tutta una serie di conseguenze sui redditi familiari, soprattutto su quello delle madri.

La nascita di un figlio ha conseguenze rilevanti per le prospettive di carriera delle donne che continuano a svolgere un’attività lavorativa. Secondo uno studio riportato nella relazione annuale di Banca d’Italia a parità di età, competenze e reddito da lavoro iniziale, la retribuzione annua delle madri a quindici anni dalla nascita del primogenito è in media circa la metà di quella delle donne senza figli.

Lo svantaggio delle madri dunque non è solo associato al periodo della maternità. Gli autori dello studio hanno spiegato in un articolo su lavoce.info che la maggior parte del divario è dovuta al fatto che le donne con figli finiscono per lavorare meno ore: sia perché alcune sono passate strutturalmente a contratti part time sia perché sfruttano strumenti legati all’accudimento dei figli come congedi, ferie, malattia, permessi e aspettative, che riducono il numero di settimane retribuite ogni anno anche in caso di contratti a tempo pieno. C’è poi una componente residuale del divario legata alla minore crescita delle retribuzioni delle madri, determinata da progressioni di carriera più lente rispetto alle donne senza figli.

Le donne con figli scontano una penalità sul mercato del lavoro, che invece non si osserva per gli uomini con figli.

Gli autori dello studio ipotizzano che questo svantaggio rifletta alcune tendenze di natura culturale, come le preferenze delle mamme che desiderano trascorrere del tempo con i figli (e quindi riducono il tempo dedicato al lavoro). Può essere anche indicativo di stereotipi e norme sociali che vogliono le mamme come principali o esclusive responsabili della cura dei figli. Mostra inoltre le difficoltà di conciliazione e anche il comportamento delle aziende, che non riservano alle mamme le stesse opportunità di lavoro e carriera disponibili per i papà.

– Ascolta anche: La puntata di “Politics” sulle politiche della natalità