• di Giuseppe Notarbartolo di Sciara
  • Storie/Idee
  • Martedì 4 luglio 2023

Come ho scoperto le mante di Munk

«La Baja California a quei tempi era una regione ancora molto selvaggia, desertica e spopolata, ma dalla natura prepotentemente fascinosa. Avevo divorato “The Log from the Sea of Cortez” di John Steinbeck, racconto di un viaggio compiuto quarant’anni prima del mio al seguito del biologo Ed Ricketts. Anche loro erano scesi in barca dalla California al Mare di Cortez alla ricerca di animali marini. Il Mare di Cortez pullulava di vita. Il cielo della sera era costantemente solcato da teorie di grandi uccelli marini in movimento da un lato all’altro dell’orizzonte, e ovunque ponessi lo sguardo vedevo la calma superficie del mare fremere per la presenza di esseri misteriosi che, nascosti nel profondo, la facevano increspare»

«Negli anni ’80 per fortuna le mante giganti venivano pescate molto raramente. Tuttavia era proprio il fatto che venissero pescate ad aver a che fare con la loro rarità. Oggi, protette dal governo messicano, i loro numeri sembrano essere in ripresa malgrado qualche manta continui a essere catturata illegalmente» (Foto Jeff Schweitzer)
«Negli anni ’80 per fortuna le mante giganti venivano pescate molto raramente. Tuttavia era proprio il fatto che venissero pescate ad aver a che fare con la loro rarità. Oggi, protette dal governo messicano, i loro numeri sembrano essere in ripresa malgrado qualche manta continui a essere catturata illegalmente» (Foto Jeff Schweitzer)

Eravamo all’inizio degli anni ’80, avevo poco più di trent’anni, e mi trovavo in Messico, in Baja California, per raccogliere i dati per la mia tesi di biologia marina. Ero iscritto a un corso di dottorato alla Scripps Institution of Oceanography di San Diego in California e avevo deciso che avrei fatto una tesi sulle mante. Per essere precisi, la tesi l’avrei fatta sull’intera famiglia delle mobule, a cui le mante appartengono e di cui sono i rappresentanti colossali (una manta può raggiungere la larghezza di sette metri e il peso di tre tonnellate). Si tratta di una famiglia di razze molto particolari non solo per le grandi dimensioni che possono raggiungere, ma anche perché vivono lontano dal fondo e nei pressi della superficie del mare, mangiano plancton e piccoli pesci che catturano con la loro grande bocca e mediante speciali strutture filtranti pre-branchiali, e hanno due appendici ai lati del capo che hanno valso loro l’appellativo poco lusinghiero di “diavoli di mare”. Delle mobule a quel tempo si sapeva poco o niente, e i mari della Baja California erano noti per ospitarne alcune specie.

Era gennaio quando lasciai San Diego a bordo del Fling, una barca a vela un po’ scassata che mi era stata data in uso come mezzo di trasporto, alloggio e base operativa, e nel corso di un paio di settimane ero sceso verso sud lungo la costa desertica della Baja fino a doppiare Cabo San Lucas all’estremità della penisola. Di lì ero risalito dentro al Mare di Cortez fino alle acque turchesi dell’Ensenada de los Muertos – nome un po’ macabro ma posto meraviglioso – che sarebbe stata la base del mio lavoro di campo.

La Baja California a quei tempi era una regione ancora molto selvaggia, desertica e spopolata, ma dalla natura prepotentemente fascinosa. In precedenza avevo divorato The Log from the Sea of Cortez di John Steinbeck, racconto di un viaggio compiuto quarant’anni prima del mio dallo scrittore al seguito del biologo Ed Ricketts. Anche loro erano scesi in barca dalla California al Mare di Cortez alla ricerca di animali marini. Quella lettura aveva contribuito a ispirare la mia scelta del luogo in cui raccogliere i dati della mia tesi, anche se poi la realtà si rivelò ancora più entusiasmante della descrizione. Il Mare di Cortez pullulava di vita. Il cielo della sera era costantemente solcato da teorie di grandi uccelli marini in movimento da un lato all’altro dell’orizzonte, e ovunque ponessi lo sguardo vedevo la calma superficie del mare fremere per la presenza di esseri misteriosi che, nascosti nel profondo, la facevano increspare.

Il mio obiettivo era raccogliere i dati sulle mobule catturate dai pescatori. Dovevo identificare le varie specie, misurarle, esaminarne gli stomaci per capire cosa mangiavano, e ispezionare gli organi della riproduzione per descriverne la biologia. La costa della penisola della Baja California è disseminata di piccole comunità di pescatori che funzionano un po’ come separate tribù, ognuna delle quali costituita da nuclei famigliari imparentati tra loro e con speciali abilità nella cattura di prede particolari. Per i miei scopi avevo individuato la comunità di Punta Arena de la Ventana, formata da grandi pescatori di squali e razze, che pertanto facevano al mio caso.

Venni subito accettato come un elemento comparso dal nulla che si era inserito nel loro paesaggio quotidiano, animato da motivazioni assolutamente incomprensibili. Ma nella mia (da loro percepita) follia ero considerato del tutto innocuo, anzi addirittura accattivante per l’assenza del mio accento gringo, e non mancarono opportunità di passare con Marcelo, Fernando e Juanillo momenti di simpatica convivialità nell’ora del tramonto, lubrificati da copiose libagioni di birra. Ci sarebbe da aggiungere che lo stupore per la mia passione verso le mobule non si limitò ai miei rapporti con i pescatori messicani ma continuò nei decenni a venire, ovunque mi spostassi, compresi gli iper-acculturati ambienti milanesi nei quali mi trovo a vivere ora.

In febbraio le mobule ancora scarseggiavano, ma con il riscaldarsi delle acque cominciarono a finire nelle reti dei pescatori, e presto mi trovai bello indaffarato. Loro uscivano all’alba con le loro barche di vetroresina chiamate pangas a controllare le reti, e quando tornavano a terra trovavano l’amico “calzoncillo” (cioè io – l’unico essere umano in shorts nei paraggi) armato di stecca centimetrata e bilancino per iniziare i suoi rilevamenti sulle sventurate mobule che nella notte erano finite nelle reti. I pescatori mi lasciavano misurare gli esemplari prima che li filettassero; poi, una volta processate, le carcasse ritornavano a mia disposizione per tutti gli altri rilevamenti che facevano parte del mio protocollo.

«Prima di filettare le loro catture i pescatori me le lasciavano misurare. Qualche volta per l’impresa avevo bisogno di aiuto, come in questo caso con un esemplare adulto di Mobula mobular» (Foto Fay Wolfson)

Alla fine di aprile la sorte impose un cambiamento radicale della mia organizzazione. Ero in rotta dall’Ensenada de los Muertos alla cittadina di La Paz, dove andavo periodicamente per i rifornimenti. Il trasferimento comportava una traversata di sette ore che preferivo compiere nottetempo perché di notte si calmava una fastidiosa brezza termica da nord, che mi rallentava il cammino e inzuppava la barca di spruzzi. Verso le tre del mattino decisi di farmi un caffè, ma nell’azionare la pompa dell’acqua una scintilla fece scoppiare un incendio. Verificata l’inefficacia degli estintori che avevo a bordo, ebbi giusto il tempo di raccattare documenti, soldi e i preziosi dati, e di rifugiarmi sul dinghy che avevo al traino prima che le fiamme raggiungessero la bombola del gas della cucina e mandassero il povero Fling in mille pezzi in una nuvola di fuoco. La Playa del Coyote era a cinque miglia nautiche di distanza: la raggiunsi a remi in un paio d’ore, poco prima dell’alba. Per fortuna le mie attività di ricerca non vennero ostacolate dal malaugurato evento. Mi sistemai in un locale a San Juan de los Planes, il posto più vicino possibile alla spiaggia di Punta Arena. Di lì in avanti mi recavo alla spiaggia dei pescatori pedalando lungo 18 km di strada in terra battuta su una bicicletta che mi aveva prestato l’amico Marcelo.

Giorno dopo giorno i pescatori catturavano sempre più mobule. Prima di partire da San Diego mi ero documentato su quali specie avrei potuto trovare nel Mare di Cortez, e risultò che avrei potuto trovarne due: la manta gigante, Mobula birostris, e la più piccola, Mobula lucasana, così chiamata perché era stata osservata nei pressi di Cabo San Lucas. Gli amici pescatori non erano d’accordo; secondo loro di specie ce n’erano addirittura cinque, e non avendo mai sentito parlare di Linneo e della sua nomenclatura binomiale con cui la scienza ha classificato l’intero mondo dei viventi, le conoscevano come: manta, cubana de lomo azul, cubana de lomo blanco, vaquetilla e tortilla. A quel punto avevo sviluppato in loro fiducia maggiore di quanta ne avessi nelle pubblicazioni scientifiche, e fu un’ottima idea perché con il passare del tempo tutta questa varietà di mobule mi venne scodellata davanti agli occhi sulla sabbia della spiaggia. Ricordo bene quei momenti di scoperta perché l’eccitazione provata allora mi fa venire i brividi ancora adesso, che sono passati quarant’anni.

«Malgrado la necessità di lavorare sulle mobule pescate, e l’interesse generato dal loro studio, questa attività era per me costante fonte di conflitto interiore, perché non riuscivo a essere insensibile di fronte all’annientamento di esseri così speciali, così grandi e così belli: come nel caso di questa manta gigante» (Foto Jeff Schweitzer)

Una sola delle specie di cui mi avevano parlato i pescatori – la tortilla – mancava all’appello. Il nome che le avevano dato derivava dal fatto che era la specie più piccola, poco più di un metro di larghezza, molto gregaria, che saltando frequentemente fuori dall’acqua atterrava sulla superficie con una spanciata che faceva un “ciack” molto simile al suono che fanno le donne messicane quando preparano le tortillas. Ma dunque dov’erano queste tortillas, chiedevo in giro. I pescatori alzavano gli occhi verso l’alto: «Ancora non sono arrivate», dicevano. Niente, non ce n’era traccia. Un giorno però, tornato sulla spiaggia dell’Ensenada de los Muertos, vi trovai una quantità di carcasse di mobula che erano state abbandonate lì da qualche pescatore dopo essere state filettate. Erano molto diverse dalle specie che avevo documentato fino ad allora: per quanto di età adulta, erano molto più piccole delle altre, e avevano conservato, pur nella morte, un colore marroncino del dorso che non corrispondeva a nessuna delle precedenti. Finalmente avevo fatto conoscenza con la tortilla, anche se gli esemplari a disposizione erano troppo malconci per farci un granché di scientificamente valido.

Qualche mese dopo, ormai di ritorno a San Diego, riuscii a procurarmi un paio di esemplari in perfette condizioni tramite i pescatori di Punta Arena, e potei cominciare ad analizzare quanto avevo raccolto in Baja, per cercare di produrre un inventario corretto delle specie di mobula a livello globale. Non era una cosa semplice per tanti motivi. Dai tempi della nascita della zoologia moderna, verso la fine del Settecento, ogni volta che uno zoologo si imbatteva in un esemplare di mobula, lo descriveva in una pubblicazione dandogli un nome di propria iniziativa. Il risultato fu che nei tempi si formò un accumulo di oltre sessanta denominazioni senza una sufficiente verifica che quella particolare specie fosse già stata descritta da qualcun altro. Ad aumentare la confusione si aggiunsero altri fattori. Il primo era che le differenti mobule, con l’eccezione della manta gigante, erano a prima vista molto simili e bisognava sapere su quali dettagli concentrare la descrizione per evidenziarne le differenze, spesso sottili. L’altro elemento che rese la confusione quasi indecifrabile era la scarsa qualità di gran parte di queste antiche descrizioni, da cui non si riusciva a capire bene a quale specie si riferissero. Strumenti preziosi che avrebbero potuto dirimere molti dubbi, come la documentazione fotografica (per non parlare dell’analisi del DNA, immensamente utile ma praticata solo negli anni più recenti), sopraggiunsero molto più tardi e non erano comunque disponibili nella prima “buona” descrizione di ogni specie, che è quella che fa testo.

A rendere le cose ancora più complicate si aggiungevano le difficoltà e la lentezza delle comunicazioni tra colleghi, che potevano avvenire soltanto per via epistolare. Era la condizione in cui mi trovavo anch’io, malgrado fossero soli quarant’anni fa. A quei tempi si era giusto agli albori dell’uso del fax mentre la posta elettronica era ancora di là da venire – per non parlare di Internet. Dunque gli zoologi erano costretti a lavorare in una condizione di solitudine, colmabile solo con la lentissima corrispondenza per posta, oppure durante rare occasioni congressuali. Oggi diamo per scontato di collegarci in videochiamata con chiunque a costo zero in qualsiasi posto del pianeta ci troviamo; e scambiarci fotografie, filmati, analisi genetiche e qualsiasi altra cosa possa aiutare nel fare ordine nella classificazione delle specie. Sembra impossibile che solo quarant’anni fa tutto ciò fosse pura fantascienza.

La lentezza delle comunicazioni diminuiva il tempo a mia disposizione, che già non era molto perché mi dovevo laureare. Per questo fui costretto a lanciarmi in una forma di “turismo museale” recandomi di persona nelle sedi delle principali collezioni ittiologiche dei cinque continenti, a cominciare da quelle di San Francisco, Los Angeles, Harvard, New York, continuando poi a Londra, Parigi, Leiden, e infine a Hurghada in Egitto, Chennai (allora si chiamava ancora Madras) in India, Perth e Sydney. L’obiettivo era esaminare le caratteristiche morfologiche degli esemplari di mobula conservati in quei musei, e verificare che queste corrispondessero con lo schema che andava formandosi nella mia mente della composizione della famiglia dei Mobulidi. Al termine di tutte le ispezioni, corroborate dalla consultazione di tutti i possibili testi fisicamente conservati nelle biblioteche scientifiche più improbabili, fui in grado di ridurre l’elenco di una sessantina di diverse descrizioni a nove “buone” specie.

Solo al termine di questa revisione potei rivisitare le mie esperienze di campo messicane per attribuire agli esemplari catturati dai pescatori dei nomi di valenza globale.

Dunque:
• La manta fu la più facile di tutte: grande com’era, non vi fu mai dubbio che fosse la manta gigante, Mobula birostris, diffusa nelle acque tropicali di tutto il mondo.
• La cubana de lomo azùl risultò essere Mobula thurstoni, a distribuzione circumtropicale. Di questa specie, Mobula lucasana risultò essere un sinonimo più recente.
• La cubana de lomo blanco era la Mobula mobular, anch’essa cosmopolita, e l’unica specie che si trova anche da noi in Mediterraneo.
• La vaquetilla era invece la Mobula tarapacana: un’altra specie diffusa in tutte le acque tropicali.

Rimaneva la tortilla. Cerca e ricerca, arrivai alla conclusione che una specie piccola e gregaria come quella nel Pacifico orientale non fosse mai stata descritta. Era superficialmente simile ad altre specie piccole, limitate alle acque tropicali degli oceani Atlantico e Indiano, ma con evidenti differenze. Fatte tutte le possibili verifiche, la tortilla era una specie nuova, nel senso che nessun occidentale l’aveva ancora formalmente classificata. Toccava a me descriverla nel lavoro complessivo che avevo in preparazione sul Zoological Journal of the Linnean Society, e darle un nome scientifico.

Sulle prime ero tentato di chiamare la nuova specie Mobula tortilla in un gesto di riconoscimento del sapere tradizionale della gente che aveva avuto a che fare con lei tanto tempo prima di me. Alla fine però decisi di chiamarla Mobula munkiana in omaggio al mio maestro, l’oceanografo Walter Munk, alla cui memoria sono legato da riconoscenza imperitura perché fu grazie al suo aiuto, al suo consiglio e al suo affetto paterno se riuscii ad affermarmi nella professione di ecologo marino.

So bene che la pratica di dare a una nuova specie il nome di una persona è oggi spesso considerata sconsigliabile, come discusso in un recente articolo del Post da cui questo mio intervento è originato. Ma decisi ugualmente di legare il nome della tortilla a un personaggio che era stato così importante per me. Negli ultimi anni della sua lunghissima vita organizzammo insieme un viaggio in Baja California alla ricerca delle mobule che portano il suo nome, e non posso dimenticare l’espressione di gioia che si formò sul suo volto di vecchio scienziato quando ne vide una saltare fuori dall’acqua con grandi spruzzi, a pochi metri di distanza.

«Walter Munk aveva 98 anni quando ci recammo insieme nel Mare di Cortez in visita alle mobule che portavano il suo nome. Questo viaggio fu per entrambi motivo di gioia indescrivibile» (Foto Octavio Aburto)

Negli anni successivi la Mobula di Munk è diventata una celebrità. Spesso si aggrega in gruppi colossali, talvolta di decine di migliaia di individui, molti dei quali intenti a compiere salti acrobatici fuori dall’acqua con effetto spettacolare, oggi ampiamente illustrati in alcuni tra i più noti documentari naturalistici. Il “mobula-watching” nel Mare di Cortez è oggi una crescente industria turistica nell’area intorno a La Paz, con risvolti interessanti per le economie locali. Sembra difficile credere che solo pochi anni fa gli unici a sapere della loro esistenza erano gruppi isolati di pescatori artigianali, che le chiamavano tortillas.

Oggi la conoscenza scientifica delle mobule è cresciuta significativamente rispetto a quanto si sapeva di queste specie quando cominciai a occuparmene quarant’anni fa. Una nuova generazione di ricercatori si sta dedicando in questi anni a progetti di conservazione in varie parti del mondo con competenza e passione, arricchendo la conoscenza di nuovi elementi sulle basi da me costruite. Ce n’è un urgente bisogno. Con la generazione di un solo piccolo per volta, e nemmeno ogni anno, la biologia delle mobule le rende particolarmente vulnerabili, e le varie specie sono tutte minacciate dalle attività umane, soprattutto la pesca. Recentemente il governo del Messico le ha dichiarate sotto “protezione speciale”. Soprattutto, l’aver fatto ordine nella tassonomia della famiglia ha consentito a strumenti internazionali di conservazione, quali la Convenzione di Washington sul commercio internazionale delle specie di fauna e flora selvatica minacciate di estinzione (CITES) e la Convenzione di Bonn sulle specie migratrici (CMS), la possibilità di elencarle come specie protette, con la positiva ricaduta dell’obbligo di conservazione nei singoli paesi membri di tali convenzioni.

Giuseppe Notarbartolo di Sciara
Giuseppe Notarbartolo di Sciara

È un ecologo marino che ha dedicato la vita ad attività di ricerca e conservazione di balene, delfini, foche, squali e razze. Ha fondato nel 1986 l’Istituto Tethys di Milano, e ha proposto l’istituzione del Santuario Pelagos per i mammiferi marini del Mediterraneo, la prima area marina protetta istituita fuori dalle giurisdizioni nazionali.

STORIE/IDEE

Da leggere con calma, e da pensarci su