La fine delle parole

«Per i primi mesi io e mio marito ci sentivamo tre volte al giorno. Poi cominciarono a morire le parole. Ma il luogo, la casa, la vita che condividevo con lui mi rimasero attaccati come un arto fantasma. Per un po’ si tennero nascosti, soffocati dalle altre urgenze, ancora inconsapevoli di non esistere più. Oggi che sanno di essere morti, non ne vogliono sapere di arrendersi. A volte mi entrano nella testa come lampi di immagini. Pop.»

Scarlett Johansson e Bill Murray in una scena del film Lost in translation di Sofia Coppola, 2003
Scarlett Johansson e Bill Murray in una scena del film Lost in translation di Sofia Coppola, 2003
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Tutte le sere, prima di dormire, io e mio marito ci raccontavamo una storia. Due scrittori figli unici senza figli, che altro potevamo fare? Lui aveva inventato un bestiario nel suo italiano testardamente fittizio. C’era Renardo la volpe, c’era lo Scuerpio, c’era lo spagnoleggiante Marmocito che era poi la scimmia marmoset, c’erano l’oritteropo Aardvarko e il polipo Ottopiedi. Gli altri non me li ricordo. Potrei chiederli a lui, ma lui non è più la stessa persona che li ha inventati. Quella persona non c’è più.

È un’esperienza comune a tutti, ma forse chi lavora con le parole la vive in maniera più intensa. La morte di una relazione è anche la morte di una lingua, quella lingua unica e speciale parlata da due persone che si amano, creata nel tempo passato insieme, fatta di ricordi, di ammiccamenti, di ironie e carezze verbali. Se la morte della lingua di un popolo è una catastrofe sociale, una tragedia che priva l’umanità di un tesoro di esperienze e di pensieri, la morte della lingua di una coppia, di un minuscolo idioletto a due, è lo specchio del lento e doloroso declino di una relazione.

Per me la perdita delle parole è avvenuta piano piano, e dopo la perdita dei gesti. È stata l’ultima, e la più definitiva. Sarà che sono una creatura di parole, ma per qualche motivo la perdita dei gesti mi sembrava recuperabile, o comunque nell’ordine delle cose. Qualcosa su cui riuscivo a scherzare. «Se all’inizio della storia venivi sempre a prendermi all’aeroporto, adesso non puoi smettere, perché altrimenti lo prendo come un segno che non mi ami più.» Ma anch’io avevo smesso di andare a prenderlo all’aeroporto (costava fatica, i taxi erano comodi), anch’io a volte mi dimenticavo di mettergli il bigliettino tenero nella valigia (poteva capitare che si pensasse ad altro). Erano cose normali, cose che succedono alle coppie quando tolgono la maiuscola dalla parola amore. Ma le parole condivise, quelle restavano. Perché le parole erano facili, non costavano fatica, venivano automatiche, e la loro bellezza stava proprio nel loro automatismo, in quella facile ripetizione che serviva da costante conferma.

Le parole sono morte per telefono. Nella lunga separazione transcontinentale imposta dalla pandemia. E lì cosa puoi dire, come puoi ironizzare? «Perché non mi dici più quella parola lì con quell’accento americano che mi diverte tanto?» Che domanda è? Una cosa o c’è o non c’è, una parola o la dici o non la dici. «Non vi siete mai chiariti», mi dicevano le amiche. Cosa c’è da chiarire, davanti a qualcuno che prima non ti chiamava mai per nome perché ti chiamava sempre “amore” e ora non ti chiama più né per nome né amore? Che non pronuncia più il tuo nome? Se ne andavano una dopo l’altra, pezzi della nostra storia che si staccavano e cadevano giù, nell’oceano che ci separava. Io le sentivo cadere e non potevo far niente per raccoglierle. Sono rimasta muta, senza parole. E sono rimasta muta anche davanti a lui, quando finalmente l’ho rivisto. Entrambi abbiamo taciuto.

Insieme alla perdita della lingua è venuta anche quella di un luogo, di una casa, della metà di una vita. Per dodici anni ho vissuto per metà a San Francisco e per metà in Italia. Quando approdai laggiù, nel 2008, vissi un breve periodo dove ogni cosa mi sembrava illuminata. Vivevo nel paese dei miei sogni, dove si parlava la lingua del mio amato lavoro, dove la cultura era rispettata e dove i paesaggi immensi erano un presagio di libertà. Le ultime due erano balle, ma per un po’ non me ne resi conto. Poi cominciai a odiare quel paese con la stessa forza con cui lo avevo amato, con la forza della delusione. Ma ogni tanto succedeva qualcosa che mi spingeva ad amarlo di nuovo. La sua bellezza. La sua imprevedibilità, nonostante tutto.

Poi arrivò il grande imprevedibile: la pandemia. E quel luogo, quella vita, li persi di colpo. A differenza della perdita della lingua, la perdita del luogo è stata brusca, un colpo d’accetta. Tornai in Italia per ritirare un premio. Negli ultimi giorni ero indecisa se partire o no, in Italia si stava diffondendo un virus mortale. Scrissi agli amici, mi rassicurarono, vai tranquilla, non è niente, parti pure. Partii. Atterrai a Zurigo, dove avevo la coincidenza per Milano. Accesi il telefono. C’era un’email degli organizzatori del premio. «La cerimonia è annullata». Era cominciato il lockdown.

Per i primi mesi io e mio marito ci sentivamo tre volte al giorno. Poi cominciarono a morire le parole. Ma il luogo, la casa, la vita che condividevo con lui mi rimasero attaccati come un arto fantasma. Per un po’ si tennero nascosti, soffocati dalle altre urgenze, ma soprattutto ancora inconsapevoli di non esistere più. Oggi che sanno di essere morti, non ne vogliono sapere di arrendersi. A volte mi entrano nella testa come lampi di immagini. Pop. La tazza della colazione comprata nel megadiscount di Japantown pieno di imperdibili oggetti di plastica coloratissima. Pop. La borsa ordinata online prima di partire per l’ultima volta, che è arrivata quando non c’ero già più. Pop. La faccia di mio marito mentre mi salutava per l’ultima volta davanti al portone del palazzo. Pop. La nebbia sulle colline di Jenner. Pop. Le lunghe passeggiate per fotografare le ville vittoriane. Pop. Il sentiero sulla scogliera a Mendocino, che chiamavo il mio posto più bello del mondo. Pop. L’odore dell’appartamento dei miei suoceri a New York. Pop. I miei quattro suoceri. Tutte cose e persone che non rivedrò mai, o se le rivedrò non saranno più quelle che erano prima, avranno assunto un altro significato, saranno diventate fantasmi di una vita ormai morta insieme alla lingua che le descriveva.

Gli amici me lo chiedono: «Torna, vieni a trovarci, ti ospitiamo noi», e io rispondo: «Ma con tutti i posti che ci sono al mondo, dovrei proprio tornare a San Francisco?» Eppure non sono sicura che in futuro non risponderò in un altro modo. Non si può riattaccare un arto fantasma, ma la vita è un posto imprevedibile.

Silvia Pareschi
Silvia Pareschi

Traduttrice di numerosi autori di lingua inglese, fra cui Jonathan Franzen e Ernest Hemingway, del quale ha ritradotto Il vecchio e il mare e a breve ritradurrà Addio alle armi. Tiene corsi di traduzione ed è autrice del libro I jeans di Bruce Springsteen e altri sogni americani (Giunti). Vive sul lago Maggiore ma preferisce viaggiare.

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