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  • Giovedì 4 maggio 2023

In Corea del Sud ci sono ancora le favelas

In alcuni casi sono state riqualificate e sono attrazioni turistiche, in altri la popolazione vive in condizioni molto precarie

di Guido Alberto Casanova

Il quartiere di Gamcheon, nella periferia della città di Busan (foto Guido Alberto Casanova)
Il quartiere di Gamcheon, nella periferia della città di Busan (foto Guido Alberto Casanova)
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Secondo le statistiche internazionali la Corea del Sud è un paese ricco e agiato, in cui la povertà dovrebbe essere un fenomeno molto ridotto. Anche camminando per le strade del centro di Seul, la capitale, si ha l’impressione che la popolazione goda di un diffuso benessere. Eppure, come ha ricordato il regista Bong Joon-ho qualche anno fa con il suo film Parasite, le disuguaglianze sociali che dividono il paese sono profonde. Alle periferie più remote delle principali città sudcoreane si possono trovare ancora oggi alcune “favelas”, cioè quartieri dove la popolazione vive in condizioni di povertà e relativo degrado (il termine “favelas”, che è latinoamericano, non è probabilmente il più adatto a descrivere la situazione, ma consente di capire di cosa si parla).

Le “favelas” sudcoreane sono di solito piccoli quartieri periferici risalenti al secolo scorso, quando la Corea del Sud era un paese che lottava per uscire dalla povertà. Sopravvissute alla loro epoca, queste zone sono chiamate in coreano dal ìdongnae, un termine edulcorato che si traduce con “villaggi luna”. Alcuni oggi sono diventati attrazioni turistiche molto apprezzate, ma in molti casi le condizioni di disagio e povertà sono ancora oggi notevoli.

I “villaggi luna”
Dopo la fine della Guerra di Corea, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, un rapido sviluppo economico e di innovazione tecnologica ha enormemente ridotto la povertà diffusa che caratterizzava il paese negli anni 50 e 60. In quel periodo, il profilo urbano delle città sudcoreane fu radicalmente stravolto dall’eccezionale urbanizzazione della popolazione.

Ad esempio l’area di Seul che costeggia il torrente Cheonggyecheon, oggi una delle più centrali e produttive di tutta la Corea, nel secolo scorso quei terreni era occupata da una distesa di baraccopoli. La stessa cosa vale per Gangnam, il quartiere scintillante e benestante che è stato parodiato dal cantante PSY nella celebre canzone Gangnam Style. Ancora negli anni 80 questa zona oggi al centro del mondo affaristico sudcoreano era l’estrema periferia meridionale di Seul e, prima del boom edilizio, anche una delle più economicamente sottosviluppate di tutta la capitale.

Benché siano in gran parte sparite, queste favelas sono state un elemento fondamentale nello sviluppo urbano della Corea del Sud. I “villaggi luna” sono quartieri sorti spontaneamente dal consistente e disorganizzato afflusso di migranti nelle metropoli. Oggi le baraccopoli che si trovavano alle periferie delle grandi città sudcoreane sono state in molti casi abbattute e sostituite da quartieri più tradizionali e benestanti. Alcune, però, sono sopravvissute e sono ancora densamente abitate come per esempio Ami e Gamcheon, nella città meridionale di Busan, o Gaemi, Guryong, Baeksa, e Bukjeong, collocate tutte entro i confini della capitale. Anche una parte di Itaewon, il quartiere notturno di Seul, mantiene i caratteri tipici del “villaggio luna”.

Rispetto alle baraccopoli che si trovano in molti paesi in via di sviluppo, i daldongnae ancora oggi esistenti sono molto meno precari e più organizzati: gran parte delle strutture originarie in materiali di riutilizzo sono state sostituite da edifici in muratura, l’allacciamento alle utenze pubbliche è stato condotto più o meno ovunque, e le autorità municipali hanno provvisto a integrarne la cittadinanza nel tessuto urbano. L’impianto urbanistico fortemente labirintico e impervio però rimane una caratteristica di questi quartieri, spesso collocati sui pendii scoscesi delle colline che circondano le principali città sudcoreane e quindi ottimi luoghi da cui osservare la luna. Il loro nome coreano deriverebbe proprio da qui.

Queste caratteristiche fanno dei daldongnae delle realtà ibride dai contrasti molto marcati. Strade e vicoli sono quasi tutti cementati e per le strade principali di questi quartieri si può fare affidamento sul trasporto pubblico, ma sui marciapiedi non è infrequente trovare mucchi di mattoncini di carbone consumati per il riscaldamento interno delle abitazioni. Alcune case hanno ancora i servizi igienici separati dal resto della struttura.

Oggi in Corea del Sud meno del 2 per cento della popolazione vive in condizioni di povertà assoluta, ma il paese ha un serio problema di povertà tra la parte più anziana della popolazione. Circa il 40 per cento delle persone con più di 65 anni vive in stato di povertà relativa, cioè gode di un reddito che è meno della metà del reddito medio della popolazione del paese. E non è un caso che la gran parte delle persone che vivono nei daldongnae siano persone anziane.

Una storia di improvvisazione urbana
Il motivo per cui nelle grandi città sudcoreane si possono trovare ovunque le tracce dei daldongnae deriva dal fatto che fin dalla sua fondazione nel 1948 la Corea del Sud è stata un paese dove la popolazione ha continuato a riversarsi nelle città senza che queste avessero capacità abitative sufficienti a integrarli tutti. La prima grossa ondata migratoria fu quella che si è verificata dopo l’armistizio che pose fine alle ostilità della Guerra di Corea, nel 1953. Migliaia di profughi scappati dal Nord si riversarono a Sud per sfuggire alla dittatura comunista instaurata da Kim Il Sung.

A quell’epoca la Corea del Sud era un paese devastato, ridotto alla fame e poverissimo, in cui il governo di Seul non aveva i mezzi materiali per accogliere gli sfollati dal Nord. In mancanza di provvedimenti statali, i rifugiati giunti a Sud cominciarono ad aggregarsi spontaneamente attorno alle città, lì dove la conformazione del terreno lo permetteva. È così che a Busan, sulla costa meridionale, si è espanso il daldongnae di Gamcheon sfruttando i campi terrazzati che scendevano dalle alture verso il porto.

A questa ondata ne seguì un’altra nei decenni successivi, quando lo sviluppo economico del paese cominciò a prendere velocità. Centinaia di migliaia di sudcoreani migrarono dalle campagne per cercare lavoro nelle fabbriche delle principali città del paese, dove l’industrializzazione prometteva agli operai salari migliori. La giunta militare al governo della Corea del Sud in quegli anni, anche in questo caso, non ebbe né le risorse né l’intenzione di gestire il fenomeno migratorio in modo adeguato. Di conseguenza i migranti rurali andarono a unirsi agli esuli dal Nord, nelle baraccopoli.

Tra strutture improvvisate, strade di fango e generale noncuranza per i regolamenti edilizi, nel clima precario dei daldongnae sono prosperate spesso le attività illegali. In alcuni casi, intere zone (in particolare quelle adiacenti alle caserme delle forze armate statunitensi) si sono convertite in quartieri a luci rosse, come a Itaewon. Qui, per tacito accordo con le autorità militari statunitensi, le autorità sudcoreane tolleravano che si praticasse la prostituzione come strumento di svago per mantenere alto il morale delle truppe, impegnate a garantire la protezione della Corea del Sud dalla minaccia comunista.

Sul finire degli anni 80, i daldongnae entrarono nel declino irreversibile a cui sono destinati questi quartieri quando lo sviluppo economico e sociale di un paese oltrepassa una certa soglia. In occasione delle Olimpiadi del 1988 il governo sudcoreano intraprese una intensa campagna per “ripulire” la zona di Gangnam (nei cui pressi avrebbe dovuto aver luogo la cerimonia di apertura dei giochi) da povertà e illegalità. Molti quartieri furono ristrutturati oppure semplicemente rasi al suolo e ricostruiti, sostituendo un’edilizia sostanzialmente improvvisata con edifici a norma di legge. Oggi, di tutti i daldongnae originari, solo il villaggio di Guryong potrebbe essere descritto come ancora relativamente intatto nelle sue condizioni di baraccopoli.

Turismo e riqualificazione
Negli ultimi decenni, coscienti del ruolo fondamentale svolto dai daldongnae nello sviluppo del tessuto urbano della Corea, gli amministratori locali delle grandi città hanno fatto alcuni sforzi per preservarne l’atmosfera caratteristica e allo stesso tempo rivitalizzarne l’economia. Negli anni 2000 Gaemi, alla periferia ovest di Seul, si è riempita di murales colorati che hanno attratto l’attenzione di turisti e residenti, mentre le autorità della capitale le conferivano lo status di “patrimonio futuro”.

Oggi è soprattutto il “villaggio luna” di Gamcheon, alla periferia della città di Busan, ad attrarre grandi numeri di turisti. Le case del quartiere negli anni si sono infatti dipinte di tutti i colori, creando così un notevole impatto visivo. Nei punti panoramici bisogna addirittura fare la fila per poter scattare una foto. Questo investimento d’immagine ha avuto ovviamente un suo ritorno economico e oggi nelle stradine di Gamcheon si trovano una quantità di negozi, bar, e altre attività commerciali che semplicemente non ci sono a Gaemi o Guryong. Tra l’altro, se Busan dovesse aggiudicarsi l’Expo del 2030 (in gara tra le altre contro Roma), è probabile che a Gamcheon arrivino ulteriori risorse per promuoversi come quartiere della rigenerazione sostenibile.

Ci sono tuttavia numerosi problemi. Per quanto rilevanti per la storia urbanistica della Corea, i daldongnae sono il lascito di un’era di povertà e marginalizzazione. Nonostante la nostalgia di alcuni, la scarsità di servizi e le criticità di un tessuto urbano improvvisato fanno di questi quartieri delle realtà spesso non facili da vivere. La gran parte degli abitanti che si incontrano nei vicoli ha oltre 60 anni e vive in condizioni difficili.

Anche dal punto di vista dei benefici portati dal turismo non è difficile notare che il benessere portato dai visitatori in queste comunità rimane superficialmente legato alle sole attività collocate nelle vicinanze della stazione degli autobus, mentre nelle zone più distanti e meno turistiche difficilmente il turismo riesce ad arrivare. Oltretutto, giusto sull’altro versante della collina su cui sorge Gamcheon si trova un Ami, un quartiere simile forse meno colorato ma altrettanto panoramico. Il confronto tra i due non potrebbe essere più sbilanciato: tanto è piena la strada principale di Gamcheon quanto è vuota quella di Ami, i cui anziani seduti tutti assieme sulle panchine guardano con una certa rassegnazione gli autobus carichi di turisti attraversare il loro quartiere in direzione di Gamcheon.