• Mondo
  • Martedì 21 febbraio 2023

Tantissimi russi se ne vanno dalla Russia in guerra

Per il Washington Post è una migrazione di proporzioni storiche: ecco dove vanno e perché

di Francesca Ebel e Mary Ilyushina - The Washington Post

Giovani davanti a un monumento dell'era sovietica a Yerevan, in Armenia, il 2 febbraio.(Tako Robakidze per The Washington Post)
Giovani davanti a un monumento dell'era sovietica a Yerevan, in Armenia, il 2 febbraio (Tako Robakidze / The Washington Post)

Quando le armate russe invasero l’Ucraina lo scorso febbraio, costringendo milioni di cittadini ucraini a fuggire per mettersi in salvo, anche migliaia di russi si affrettarono a lasciare il paese, nel timore che il Cremlino chiudesse i confini e imponesse la legge marziale. Alcuni erano contrari da tempo al crescente autoritarismo, e per loro l’invasione fu l’ultima goccia. Altri furono spinti da ragioni economiche, col fine di conservare il loro tenore di vita o di sottrarsi ai danni delle sanzioni. Infine, la chiamata di leva dello scorso autunno ha spinto centinaia di migliaia di uomini alla fuga.

La guerra del presidente russo Vladimir Putin ha provocato un esodo storico dei suoi stessi connazionali. I primi dati mostrano che le persone scappate dall’avvio del conflitto in un anno sono almeno 500 mila, forse quasi un milione: una marea umana paragonabile a quelle delle migrazioni successive alla rivoluzione bolscevica del 1917 e al collasso dell’Unione Sovietica nel 1991.

Ora come allora questi abbandoni sono destinati a ridisegnare il paese per generazioni. È un flusso che potrebbe essere ancora solo agli inizi: la fine della guerra sembra lontana. Ogni nuovo reclutamento ad opera del Cremlino stimolerà nuove partenze, così come avrà un ruolo importante il peggioramento delle condizioni economiche atteso con il proseguire del conflitto.

L’enorme flusso migratorio ha accresciuto le comunità di espatriati russi già esistenti nel mondo, e ne ha create di nuove. Certi hanno scelto paesi vicini come l’Armenia e il Kazakistan, dove i confini restano aperti ai russi. Altri che sono in possesso di un visto si sono rifugiati in Finlandia, nei paesi baltici o altrove in Europa. C’è poi chi si è spinto più lontano, fino a raggiungere gli Emirati Arabi Uniti, Israele, la Thailandia o l’Argentina. Due uomini si sono addirittura spinti dalla Russia orientale fino all’Alaska, a bordo di una piccola barca.

La perdita in termini economici è enorme, ma impossibile da calcolare. A fine dicembre, il ministero russo delle Comunicazioni ha riferito che il dieci per cento degli operatori del settore informatico aveva lasciato il paese nel 2022, e non aveva fatto ritorno. Il parlamento sta attualmente discutendo un pacchetto di incentivi per convincerli a rimpatriare.

In parlamento si discute anche la proposta di punire coloro che sono fuggiti con la confisca dei beni che hanno lasciato in Russia. Putin li ha definiti «feccia» e ha detto che la loro fuga è stata una «purificazione» per la nazione, nonostante tra gli emigrati non ci siano solo suoi oppositori o persone contrarie alla guerra. A causa della rigida repressione del dissenso ad opera del governo, che punisce chi critica la guerra, quest’anno anche i pochi rimasti tra le file dell’opposizione politica hanno dovuto fare una scelta: carcere o esilio. La maggior parte ha scelto l’esilio. Attivisti e giornalisti si sono ritrovati a Berlino, o nelle capitali di Lituania, Lettonia o Georgia.

«Questo esodo rappresenta un colpo tremendo per la Russia», racconta Tamara Eidelman, una storica di nazionalità russa che si è trasferita in Portogallo in seguito all’invasione. «Il gruppo sociale che avrebbe potuto portare un cambiamento nel paese è stato spazzato via».

Mentre i rifugiati ucraini sono stati accolti a braccia aperte in Occidente, molti paesi hanno rifiutato i cittadini russi, indecisi se considerarli amici o nemici, e se ritenere che in un modo o nell’altro l’intera nazione fosse colpevole. Alcuni stati hanno messo un blocco agli arrivi e negato la concessione di visti, creando il panico tra i russi già presenti all’estero, in particolare tra gli studenti. Nel frattempo l’ingresso di cittadini russi in stati come il Kazakistan e il Kirghizistan, paesi che storicamente hanno fornito immigrati alla Russia, ha generato qualche sussulto politico e creato tensioni tra la Russia e le altre ex repubbliche sovietiche. I prezzi delle case in questi paesi sono cresciuti esageratamente, generando scontento tra gli abitanti.

A circa un anno dall’inizio dell’invasione e dell’esodo di migranti provenienti dalla Russia, i giornalisti del Washington Post sono andati a Yerevan e a Dubai per constatare di persona come se la stanno cavando gli emigrati, e per capire se pensino di fare ritorno in patria. Yerevan, capitale dell’Armenia – un’ex repubblica sovietica a maggioranza cristiana in cui il russo è la seconda lingua più diffusa – è una delle destinazioni scelte dai cittadini russi con minore disponibilità economica. All’opposto, la costosa Dubai – situata nel Golfo Persico, di lingua araba e a maggioranza musulmana – attrae i russi più benestanti, in cerca di lusso o di opportunità economiche.

Bambini russi si dirigono verso il parco giochi della “Scuola Libera” durante la ricreazione il 2 febbraio a Yerevan, in Armenia (Tako Robakidze per il Washington Post)

Yerevan
Per molti russi che hanno deciso di scappare, l’Armenia è stata una scelta quasi ovvia. È infatti uno dei cinque stati postsovietici che consentono ai russi di valicare il confine con la sola carta di identità: questo ha reso l’Armenia la meta preferita per ex militari, attivisti politici e altri in cerca di una fuga rapida. Grazie alla comune fede religiosa e alla diffusione della lingua, in Armenia i russi non incontrano particolari ostilità o pregiudizi. Inoltre, ottenere il permesso di soggiorno è una procedura molto semplice, e il costo della vita è inferiore rispetto ai paesi dell’Unione Europea. Yerevan ha attirato migliaia di informatici, giovani creativi e altri lavoratori, comprese molte famiglie con bambini, da ogni angolo della Russia. I nuovi arrivati hanno creato scuole, locali, bar e solide reti di supporto.

Nel cortile della “Scuola Libera” per bambini russi inaugurata ad aprile Maxim, dirigente di un’impresa edile, aspetta il figlio Timofey di 8 anni. All’inizio la scuola aveva 40 alunni, e le lezioni si svolgevano in un appartamento. Ora sono circa 200, e la scuola si è spostata in un palazzo a più piani del centro città. Maxim, di cui citiamo solo il nome per ragioni di sicurezza, è emigrato da Volgograd a Yerevan per sfuggire al reclutamento annunciato a settembre: «Siamo partiti per lo stesso motivo di tutti gli altri: restare in Russia era diventato d’un tratto pericoloso per me e soprattutto per la mia famiglia». La famiglia si è rapidamente adattata a Yerevan. Tutti lì parlano russo. Maxim lavora da remoto su progetti in Russia. A Timofey piace la scuola e sta imparando l’armeno. Maxim si dice certo che non riporterà la famiglia in Russia: «Può darsi che ci trasferiremo altrove, magari persino in Europa se le cose torneranno alla normalità».

Ekaterina, 19 anni, e Yaroslav, 21 anni, fumano vicino a un rifugio fornito da Kovcheg, un gruppo di sostegno agli immigrati russi, a Yerevan (Tako Robakidze per il Washington Post)

I residenti di un rifugio a Yerevan fornito da Kovcheg, un gruppo di sostegno agli immigrati russi, si riuniscono in cucina (Tako Robakidze per The Washington Post)

In primo piano, Ivan Lyubimov scrive una lettera a un prigioniero politico in Russia, durante un recente evento organizzato da Kovcheg (Tako Robakidze per il Washington Post)

In un centro di accoglienza nella periferia di Yerevan, Andrei, ex ufficiale di 25 anni proveniente dalla regione russa di Rostov, racconta una storia simile: dopo essere sfuggito alla chiamata alle armi, si sta ora adattando alla nuova vita. «Non volevo diventare un assassino in questa guerra criminale». Andrei ha trovato lavoro come fattorino e divide la stanza con altri due uomini in un centro di accoglienza allestito da Kovcheg, un’organizzazione che offre aiuto agli emigrati russi: «Prima della guerra non seguivo la politica, ma dopo l’invasione ho iniziato a informarmi su tutto», dice. «Mi vergogno profondamente di ciò che ha fatto la Russia».

Nel frattempo, in uno spazio di coworking nel centro della città, gruppi di attivisti russi organizzano dibattiti, incontri a tema politico e sedute di terapia. Messaggi di solidarietà per l’Ucraina sono appesi alle pareti, accanto alla bandiera bianca e blu divenuta il simbolo dell’opposizione interna alla Russia. In uno degli incontri di fine gennaio, decine di russi si sono seduti intorno a un tavolo per scrivere delle lettere ai prigionieri politici detenuti in Russia.

«Cerchiamo di mandare quante più lettere riusciamo», spiega Ivan Lyubimov, attivista di 37 anni proveniente da Ekaterinburg. «È importante che non si sentano lasciati soli», aggiunge mostrando il fumetto di un panda sorridente. Per aggirare la censura delle carceri bisogna evitare di inserire qualunque riferimento politico, ma i disegni arrivano senz’altro a destinazione.

1° febbraio. Clienti giocano a ping-pong nel cortile del Tuf, un bar fondato da espatriati russi a Yerevan (Tako Robakidze per il Washington Post)

Tanya Raspopova aiuta una cliente al Tuf, diventato famoso a Yerevan. Il bar ospita festival jazz e rock (Tako Robakidze per il Washington Post)

Tanya Raspopova ha 26 anni ed è arrivata a Yerevan lo scorso marzo insieme al marito, senza progetti per il futuro, ancora scossa e impaurita. Quando ha sentito che un connazionale stava cercando dei partner con cui aprire un locale e farne un punto di ritrovo per gli espatriati russi, ha deciso di aiutare. Il Tuf, che deve il suo nome alla roccia vulcanica di colore rosa tipica della zona di Yerevan, ha aperto da meno di un mese.

Per prima cosa è stato allestito un bar con tavola calda illuminato da luci al neon al pian terreno, che si è poi esteso al piccolo cortile esterno. È stato poi inaugurato il secondo piano, e il terzo a seguire. Ai piani superiori si trovano uno studio di registrazione, un negozio di abiti e uno studio di tatuaggi. In un mercoledì di gennaio il locale era pieno di giovani russi e armeni intenti a cantare al karaoke, bere cocktail e giocare a ping pong. «Abbiamo creato una gran comunità, siamo come una grande famiglia», racconta Raspopova. «Il Tuf è diventato la nostra nuova casa».

Anastasia Smernova, fitness trainer e influencer russa, sul suo balcone il mese scorso in uno spazio di coabitazione a Dubai occupato principalmente da russi di classe media (Natalie Naccache per il Washington Post)

Dubai
I russi sono ovunque, a Dubai: li si può trovare in aeroporto, con in mano borse di Dior e valigie di Louis Vuitton; li si vede passeggiare in tuta nei centri commerciali; o al Burj Khalifa a filmare video da postare su Instagram e TikTok. I russi più ricchi e influenti hanno sempre viaggiato a Dubai, ma era solo una tra le tante destinazioni preferite. Le cose sono cambiate quando la guerra li ha esclusi dall’Occidente. In migliaia hanno scelto come nuova residenza gli Emirati Arabi Uniti (UAE), che non hanno aderito alle sanzioni imposte dai paesi occidentali e da cui è ancora possibile prendere un volo diretto per Mosca. Per i primi 90 giorni di permanenza non è richiesto il visto ai cittadini russi, e ottenere un permesso di soggiorno per lavoro o affari è una procedura abbastanza semplice.

L’alto costo della vita rende Dubai una destinazione proibitiva per molti attivisti e giornalisti. È invece un’oasi di pace, e un grande parco divertimenti, per fondatori di start-up tecnologiche, miliardari sanzionati, milionari impuniti, personaggi famosi e influencer. Poco dopo l’invasione, nel lussuoso quartiere degli stagni del Patriarca di Mosca, non si parlava d’altro che delle migliori offerte immobiliari a Dubai, come racconta Natalia Arkhangelskaya, collaboratrice di Antiglyanets, un blog irriverente e molto in vista su Telegram che si occupa di élite russe. Dopo un solo anno i russi hanno scalzato inglesi e indiani nella classifica degli acquirenti di immobili di maggior prestigio, sempre più yacht di proprietà russa attraccano al porto, e i jet privati vanno avanti e indietro tra Dubai e Mosca.

Artem Babinov, fondatore di uno spazio in coabitazione chiamato Colife, è affiancato da Alexey, un residente, e Smernova, l’istruttrice di fitness, in uno degli appartamenti che Babinov affitta a Dubai (Natalie Naccache per il Washington Post)

I russi possono comprare appartamenti, aprire conti in banca e rifornirsi di pelletteria firmata che un tempo avrebbero acquistato in Francia. «Dubai è fondata sull’idea che ci vengano i ricchi», spiega Arkhangelskaya.

L’accoglienza rivolta alle aziende straniere da parte degli Emirati ha richiamato un flusso di informatici russi che da un lato cercavano di tagliare i legami con la Russia, dall’altro desideravano restare connessi al mercato globale. Le start-up vanno alla ricerca di finanziamenti tramite incubatori sostenuti dal governo. Le grandi imprese puntano ad acquisire nuovi clienti per rimpiazzare quelli persi a causa delle sanzioni.

Un appartamento dalla vista spettacolare situato al quarantesimo piano di una delle torri del Jumeirah Beach Residence è divenuto la sede di incontri settimanali aperti ai nuovi arrivati nel settore tecnologico. In una ventosa sera di gennaio, il promotore dell’evento, Ivan Fediakov, direttore di una società di consulenze, accoglie gli ospiti indossando una felpa nera con la scritta “Everyone understands everything”, un’espressione resa popolare da Alexey Pivovarov, giornalista russo accusato da Mosca di essere una spia straniera e il cui canale su YouTube ha 3,5 milioni di follower. Una dozzina di persone discute di opportunità in India, un paese che ha mantenuto relazioni solide con la Russia nonostante la guerra. Molti esprimono amarezza per le politiche del Cremlino, e una certa nostalgia per i tempi in cui Mosca ambiva a divenire un epicentro globale.

Alexandra Dorf in un bar che usa come spazio di lavoro a Dubai, dove si è trasferita dalla Russia lo scorso aprile con i suoi due figli (Natalie Naccache per il Washington Post)

Alexandra Dorf, imprenditrice nel settore tecnologico, si è trasferita a Dubai con i suoi due figli ad aprile. «Nessuno capiva cosa sarebbe successo. I confini potevano venire chiusi in un attimo, e andava presa una decisione: restare, o andarsene in fretta». Nel 2022 Dorf ha tagliato tutti i legami con la Russia: ha venduto il suo appartamento e la sua auto, e ha trovato lavoro a Dubai come responsabile dello sviluppo aziendale di una società che si occupa di intelligenza artificiale. «I primi due mesi sono stati molto stressanti. I bambini sono stati strappati dalla loro routine, e non è stato possibile iscriverli a scuola a metà anno», dice. «Ma Dubai è un centro fiorente. La cosa che più mi interessa è riuscire a sviluppare progetti internazionali e integrare i miei figli in una comunità globale, così da farli crescere in un ambiente libero».

Oltre ai professionisti del settore tecnologico, molti russi appartenenti alla classe media hanno scelto di muoversi verso i soldi di Dubai per approfittare di opportunità lavorative nel turismo, aprire saloni di bellezza o semplicemente per lavorare da remoto, rimanendo ben distanti dalla madrepatria guerrafondaia. Artem Babinov, fondatore di uno spazio co-abitativo a Mosca chiamato “Colife”, aveva aperto un ufficio a Dubai qualche giorno prima dell’inizio della guerra, nella speranza di attirare una clientela di esperti di finanza britannici. Con la guerra i suoi piani sono cambiati: ora Babinov affitta decine di case con contratti a breve termine, perlopiù a trentenni russi. «Fare comunità qui a Dubai è fondamentale», aggiunge. «Abbiamo tutti bisogno di avere attorno altre persone».

Alcune ragazze parlano davanti alla scuola di musica Sayat-Nova di Yerevan, il 2 febbraio (Tako Robakidze per il Washington Post)

Il terzo esodo
Al pari dei “rifugiati bianchi” dell’era bolscevica e dei migranti postsovietici degli anni Novanta, è molto probabile che anche i cittadini che hanno lasciato il paese in seguito all’attacco all’Ucraina non faranno ritorno in Russia.

Tamara Eidelman, la storica russa, ha fatto notare come il trascorrere del tempo renda più difficile la possibilità di un ritorno a casa. «A ogni mese che passa, le persone si abituano sempre di più al nuovo contesto: trovano un lavoro, mandano i bambini a scuola, cominciano a parlare una nuova lingua». E ha aggiunto: «Più lungo sarà il conflitto – e più estesa la durata della dittatura in Russia – meno gente deciderà di tornare».

La tecnologia rende questo esodo diverso dai precedenti, poiché consente agli emigrati russi di rimanere connessi al loro passato. Matthew Rojansky, presidente della U.S. Russia Foundation con sede a Washington, è convinto che gli espatriati potrebbero diventare «un deposito di competenze importanti per una Russia migliore, più libera e moderna». Per il momento, ha aggiunto Rojansky, la migrazione manda all’esterno un messaggio inequivocabile. «È un evento di portata storica», spiega. «Queste persone stanno “votando con i propri piedi”: lasciano il paese a causa delle azioni compiute dal regime di Putin».

© 2023, The Washington Post
Subscribe to The Washington Post
(traduzione di Laura Mangano)