Lo chef indigeno che vuole “decolonizzare” la cucina degli Stati Uniti

Sean Sherman gestisce uno dei pochi ristoranti del paese che non usano ingredienti importati, come burro e farina di grano

(Great Big Story, YouTube)
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Quando si pensa alla cucina statunitense solitamente vengono in mente hamburger, hotdog o le tipiche torte di mele, e più in generale cibi molto lavorati e fatti con zucchero, burro e latticini. C’è invece molta meno attenzione sulla cucina dei nativi americani, la più antica degli Stati Uniti, che si basava su ingredienti disponibili sul territorio fra cui mais, fagioli e zucca.

C’è uno chef che da qualche anno sta cercando per così dire di “decolonizzare” la cucina statunitense per far conoscere gli ingredienti e i metodi usati nelle ricette dei popoli indigeni e valorizzarli: si chiama Sean Sherman, è un membro della tribù degli Oglala Lakota (una sottocultura dei Sioux) e nel suo ristorante di Minneapolis serve solo piatti preparati senza ingredienti importati dai coloni europei, come appunto zucchero di canna, farina di grano e carne di manzo, maiale o pollo.

In varie interviste e programmi televisivi di cui è stato ospite, Sherman ha spiegato che nel tempo molte pratiche culinarie dei popoli nativi americani sono state abbandonate a causa di politiche governative che ha definito discriminatorie. Nella seconda metà dell’Ottocento gli indigeni vennero progressivamente allontanati dalle loro terre ancestrali, confinati in riserve e costretti ad adattarsi alla lingua, alla religione e alla cultura degli europei, sacrificando le proprie. Il risultato, secondo Sherman, è che «si cominciarono a cancellare anche secoli di sapori e tradizioni». Oggi inoltre negli Stati Uniti esistono più di 550 tribù di nativi americani riconosciute a livello federale e 325 riserve, quindi è molto difficile stabilire quali ricette siano quelle più antiche o quelle più diffuse.

Sherman comunque dice di non voler necessariamente cercare di imitare i piatti europei rifacendoli con altri ingredienti, né d’altra parte di voler cucinare «come se fosse il 1491», cioè come nell’anno precedente alla scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo. Punta però a sfruttare ingredienti autoctoni e possibilmente di produzione locale per creare piatti moderni e trasmettere la cultura del cibo indigeno a un pubblico più ampio. Tra questi ci sono appunto mais, fagioli e zucca cucurbita, ma anche carne di bisonte e alce, salmone e ostriche autoctone, frutti selvatici, girasole, erbe e semi vari.

 

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Uno stufato del ristorante di Sherman a base di carne di bisonte con zucca, fagioli, granella di mais bollita (nixtamal) e cipolle caramellate

Il ristorante si chiama Owamni: Sherman lo gestisce assieme alla compagna, Dana Thompson, ed è uno dei pochissimi negli Stati Uniti che servono cibo indigeno. Tra i piatti proposti ci sono per esempio tacchino affumicato alla salvia, riso selvatico con cottura pilaf accompagnato da un budino di mais blu (una varietà antica di mais coltivata in Messico e nel sud degli Stati Uniti) e tartare di bisonte con salsa a base di uova d’anatra, carote in salamoia, sommacco e aronia, due piante autoctone.

– Leggi anche: La pasta che mangiano gli americani

Lo stile di Sherman fa parte di un movimento che sia lui sia altri chef nativi americani chiamano “la nuova cucina dei nativi”, che ha l’obiettivo di rivitalizzare la cultura alimentare tradizionale delle popolazioni indigene e adattarla al mondo contemporaneo.

 

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Un piatto del ristorante a base di carne di bisonte servita con purè di patate, salsa di pomodoro arrostito e tarassaco grigliato

Secondo l’ultimo censimento governativo, negli Stati Uniti nel 2021 circa 8,75 milioni di persone si identificavano come native americane o native dell’Alaska, oppure discendenti da almeno un genitore di popolazioni autoctone (circa il 2,6 per cento della popolazione, su un totale di circa 332 milioni di abitanti). Ancora oggi due terzi dei nativi americani ricevono prodotti alimentari tramite il cosiddetto Food Distribution Program on Indian Reservations (FDPIR), un piano del dipartimento dell’Agricoltura che dal 1977 fornisce cibo alle persone che vivono dentro o nei pressi delle riserve che hanno difficoltà economiche: le riserve indiane infatti sono tra le comunità più povere degli Stati Uniti.

Di recente la qualità dei prodotti è molto migliorata, ma Sherman ricorda che nella riserva in cui è cresciuto – quella di Pine Ridge, nel South Dakota, una delle più grandi del paese – era abituato a mangiare cereali e carne in scatola, latte in polvere e altri prodotti industriali con alto contenuto di grassi e zuccheri: cibi a cui è stato collegato l’aumento dell’obesità nelle riserve e, di conseguenza, un rischio maggiore di sviluppare malattie cardiovascolari o il diabete rispetto al resto della popolazione.

I piatti tipici della sua tribù, fra cui la taniga (una specie di trippa) e la wojape (una salsa dolce fatta con vari tipi di bacche, come fragole, mirtilli, lamponi e altri piccoli frutti autoctoni), venivano invece mangiati solo durante i tradizionali raduni di nativi del Nord America (powwow) o in occasioni speciali.

Sherman cominciò a cucinare a 13 anni e poi continuò a fare esperienza, rendendosi conto di sapere molto dei piatti della cucina italiana o francese ma di non conoscere nemmeno 10 ricette della tribù degli Oglala Lakota. Così decise di studiare e viaggiare in giro per gli Stati Uniti per approfondire la conoscenza della cucina tradizionale incontrando altre persone indigene e collaborando con loro. Nel 2014 aprì una società di catering che preparava cibo tipico delle popolazioni indigene (The Sioux Chef) e tre anni dopo ci scrisse anche un libro. Ha aperto Owamni nel 2021.

«A noi nativi americani è servito davvero tanto tempo per affrontare il trauma che ci siamo ritrovati a vivere, ma adesso siamo in un periodo di riconciliazione e riappropriazione», ha detto in un’intervista a NPR. «Oggi però c’è tutta una generazione di persone indigene molto competenti che si stanno davvero impegnando per ricostruire la cultura indigena, e il cibo è proprio un ottimo punto da cui cominciare».

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