È morto il fotografo Adolfo Kaminsky, famoso per la sua attività di falsario iniziata durante la Resistenza francese

Adolfo Kaminsky in posa con una macchina fotografica “Lorillon” nella sua casa di Parigi, novembre 2012 (JOEL SAGET/AFP/Getty Images)
Adolfo Kaminsky in posa con una macchina fotografica “Lorillon” nella sua casa di Parigi, novembre 2012 (JOEL SAGET/AFP/Getty Images)

È morto il fotografo franco-argentino Adolfo Kaminsky: viveva a Parigi e aveva 97 anni. Kaminsky partecipò alla Resistenza francese specializzandosi nella falsificazione di documenti di identità. Fu soprannominato “il falsario di Parigi” e salvò dalla deportazione migliaia di bambini ebrei.

Adolfo Kaminsky era nato l’1 ottobre del 1925 a Buenos Aires da una famiglia di ebrei provenienti dalla Russia. Seguì i genitori a Parigi nel 1932 dove iniziò a lavorare in una tipografia e poi in una tintoria. Venne arrestato con la famiglia dai nazisti il 22 ottobre del 1943: fu internato nel carcere di Caen e poi trasferito al campo di Drancy, vicino a Parigi, punto di partenza dei treni per Auschwitz. Fu rilasciato nel gennaio 1944 grazie all’intervento del consolato argentino.

Entrato in contatto con un gruppo di combattenti della Resistenza francese, venne subito reclutato per le sue abilità con colori e inchiostri. Con lo pseudonimo Julien Keller lavorò in un laboratorio clandestino che fabbricava falsi documenti d’identità: «In un’ora, potevo fare trenta documenti falsi. Se avessi dormito un’ora, sarebbero morte trenta persone», ha raccontato in un documentario del 2016 del New York Times, intitolato “The Forger”.

In un’intervista del 2014 al Manifesto ha raccontato di essere diventato un falsario dopo aver lasciato il campo di Drancy, nel 1944: «Eravamo vivi, ma non lo saremmo rimasti a lungo se non avessimo avuto nuovi documenti per sfuggire alle retate dei nazisti. Così, per procurarmi carte d’identità false, sono entrato in contatto con la Resistenza. A quel punto mi sono accorto, per caso, che le mie conoscenze di chimica, all’epoca lavoravo in una tintoria e studiavo come mescolare gli inchiostri, potevano essere utili a qualcuno. Avevo rischiato di essere ucciso e sapevo che poter contare su documenti ben fatti poteva fare la differenza. Così mi sono impegnato in quel lavoro notte e giorno».

Dopo la Liberazione aiutò i sopravvissuti dell’Olocausto che volevano raggiungere la Palestina. Lavorò per i servizi segreti militari francesi, ma lasciò l’incarico all’inizio della guerra d’Indocina, combattuta fra il novembre del 1946 e il luglio del 1954 fra l’esercito coloniale francese e il movimento guidato da Ho Chi Minh, che voleva l’indipendenza del Vietnam. Kaminsky si rifiutò di prendere parte a una guerra coloniale.

Entrò in contatto con le reti francesi solidali con il Fronte di liberazione nazionale in Algeria e poi con gli esponenti di molti altri movimenti di liberazione dell’Africa e dell’America Latina. Da lì in poi, e per quasi trent’anni, continuò a lavorare come falsario al servizio di numerose cause politiche fornendo documenti falsi ai perseguitati dei regimi argentino, greco, nicaraguense, spagnolo, portoghese, e anche per i disertori americani che non volevano combattere in Vietnam: «Dal 1967 ho lavorato per ribelli e combattenti di più di quindici paesi diversi, dall’Angola al Cile, passando per i giovani americani che si volevano dare alla macchia per non andare a combattere in Vietnam. E senza dimenticare gli antifascisti di Grecia, Spagna e Portogallo che ancora vivevano sotto la dittatura», ha raccontato al Manifesto.

Kaminsky rifiutò sempre di farsi pagare per falsificare documenti e si guadagnò da vivere come fotografo. Ha raccontato di aver deciso di sospendere la sua attività politica quando ebbe la sensazione di non sapere più per chi stava lavorando: «È accaduto all’inizio degli anni Settanta. All’epoca stavo lavorando a dei passaporti per dei militanti neri del Sudafrica che dovevano rientrare nel paese ma che erano su una lista di oppositori ricercati dalle autorità dell’apartheid. Nel giro di una settimana, i rappresentanti di tre diverse organizzazioni si presentarono per chiedermi documenti per le stesse persone, tutte dirette a Pretoria. Inoltre, alcuni di loro mi proposero di pagarmi quando era noto a tutti che consideravo quel lavoro come parte di un battaglia per la libertà. Sentivo che c’era qualcosa che non andava. O quei gruppi stavano conducendo una qualche guerra tra loro a cui non avevo alcuna voglia di partecipare, o dietro a tutto c’era la polizia. Volevano incastrarmi. A quel punto decisi di mollare. Tre giorni dopo ero su un aereo diretto ad Algeri, dove sono rimasto per più di dieci anni».

Ad Algeri conobbe la sua futura moglie da cui ebbe cinque figli. Una delle figlie, Sarah Kaminsky, ha raccontato la vita del padre in una biografia pubblicata nel 2009: “Adolfo Kaminsky. Une vie de faussaire” uscita in Italia nel 2011 per Angelo Colla Editore.