Chi era Antonio Pallante e cosa accadde il 14 luglio 1948

Sparò al segretario del Partito comunista Palmiro Togliatti, rischiando di provocare una guerra civile: la sua morte è stata annunciata ieri

Antonio Pallante mentre viene condotto in aula per il processo, nel giugno del 1949
(ANSA/WIKIPEDIA)
Antonio Pallante mentre viene condotto in aula per il processo, nel giugno del 1949 (ANSA/WIKIPEDIA)
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Il nome di Antonio Pallante, di cui ieri è stata comunicata dalla famiglia la morte avvenuta il 6 luglio scorso, è legato indissolubilmente a un momento preciso della storia d’Italia. Erano le 11 e 30 del mattino del 14 luglio 1948 quando in via della Missione, a Roma, poco lontano da Montecitorio, Pallante sparò quattro colpi di pistola contro Palmiro Togliatti, allora segretario del Partito comunista italiano.

Quell’attentato innescò rivolte e scontri di piazza. Furono recuperate le armi che i gruppi partigiani avevano nascosto dopo la liberazione dell’aprile 1945 e si rischiò una guerra civile in un paese, l’Italia, strategico per come il mondo si era diviso dopo la Seconda guerra mondiale: da una parte il blocco occidentale, guidato dagli Stati Uniti, dall’altra quello comunista guidato dall’Unione Sovietica, allora ancora governata da Iosif Stalin. Le rivolte poi si placarono, anche per l’intervento dello stesso Togliatti che era sopravvissuto all’attentato. Ma gli avvenimenti di quel giorno ebbero molte conseguenze.

Il 18 e il 19 aprile 1948 si erano svolte le elezioni politiche: la Democrazia Cristiana, fortemente sostenuta dal Vaticano, aveva vinto con più di 12 milioni di voti (il 48,51%) sconfiggendo il Fronte popolare, costituito da Partito comunista italiano e Partito socialista italiano, che ottenne poco più di 8 milioni di voti: il 30,98 per cento. La Democrazia Cristiana era allora sostenuta e finanziata dagli Stati Uniti mentre il Fronte popolare era appoggiato, anche economicamente, dall’Unione Sovietica.

Le sorti di quelle elezioni furono determinate anche dalla paura che una vittoria del Fronte popolare avrebbe portato l’Italia sotto il controllo sovietico. Inoltre, la sconfitta della Democrazia Cristiana avrebbe comportato la rinuncia di fatto ai finanziamenti dello European Recovery Program, conosciuto come piano Marshall (il nome dell’allora segretario di stato americano che annunciò il piano in un discorso del 5 giugno 1947), che prevedeva uno stanziamento di 14 miliardi di dollari per la ricostruzione dei paesi europei dopo la guerra.

La vittoria della Democrazia Cristiana portò a una stabilizzazione del quadro politico e a un allentamento delle tensioni. Togliatti, che aveva allora 55 anni ed era stato segretario del Pci dal 1926 al 1934 e dal 1938 lo sarebbe rimasto fino al 1964, aveva trascorso negli anni del fascismo un lungo periodo in Unione Sovietica e anche dopo essere tornato in Italia non aveva mai preso le distanze dalle politiche di Stalin. Parlò di quel risultato elettorale come del «migliore possibile»: evitava infatti il rischio di una guerra tra i due blocchi contrapposti e il Fronte popolare era comunque molto forte sia in parlamento sia nel paese. Inoltre con una vittoria Togliatti sarebbe difficilmente riuscito a sottrarsi a un controllo diretto di Stalin.

L’altro protagonista di questa storia, Antonio Pallante, aveva allora 25 anni. Era nato in provincia di Avellino ma si era trasferito presto con la famiglia a Randazzo, in provincia di Catania. Aveva frequentato il seminario ma ne era uscito dopo una lite furibonda con il rettore. Era appassionato di politica: nel 1944 si iscrisse al Partito liberale italiano ma poi, dopo la guerra, si avvicinò al Movimento sociale italiano (Msi), il partito neofascista fondato da reduci della Repubblica sociale italiana (Rsi), il regime collaborazionista con la Germania nazista fondato da Benito Mussolini dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943. In seguito Pallante espresse simpatie per il Fronte dell’Uomo Qualunque, un movimento che oggi verrebbe definito populista di destra e che ebbe un discreto successo dal 1946 al 1949. 

Pallante era soprattutto un convinto anticomunista. Disse, anni dopo l’attentato, che aveva giurato di «sopprimere l’elemento più pericoloso per la vita politica italiana, in quanto agente di una potenza straniera».

Era anche, e forse soprattutto, un mitomane: in un’intervista a Stefano Zurlo contenuta nel libro Quattro colpi per Togliatti si paragonava agli eroi risorgimentali.

Palmiro Togliatti in ospedale (Ansa)

Pallante partì da Randazzo il 10 luglio 1948. Aveva acquistato una pistola revolver a cinque colpi Hopkins & Allen, sistema Smith & Wesson, calibro 38, al mercato nero a Catania. Aveva anche comprato cinque pallottole in un’armeria. Pallante ottenne un pass per entrare alla Camera, grazie al parlamentare democristiano Francesco Turnaturi. Dalla tribuna osservò Togliatti, con cui chiese un appuntamento che non ottenne. Quindi lo attese fuori da Montecitorio. Togliatti uscì in compagnia di Nilde Iotti, deputata del Partito comunista italiano e allora segretamente sua compagna (Togliatti era sposato con Rita Montagnana). La stessa Iotti raccontò: 

Vidi come un’ombra che si muoveva sugli scalini del palazzo di fronte. Avevamo appena superato l’ingresso di via della Missione e Antonio Pallante sparò. Il primo colpo si conficcò nel muro di una casa di via Uffici del Vicario. Il secondo proiettile colpì Togliatti al centro della testa. Togliatti cadde in ginocchio e si rovesciò all’indietro. Il terzo proiettile fu il più grave. Penetrò nella cavità toracica e perforò il polmone di Togliatti procurandogli un’emorragia interna. Tre colpi ravvicinati, esplosi a ripetizione. Fu solo a quel punto che mi resi pienamente conto della situazione. Gridai ad un carabiniere che avevo visto di postazione davanti al portone di Montecitorio: «Arrestatelo!». Subito dopo seguì il momento più drammatico. Vidi Pallante avvicinarsi a Togliatti caduto. Istintivamente mi gettai sul corpo di Togliatti per proteggerlo. In quel momento Pallante sparò il quarto colpo. La pallottola entrò sotto la pelle (di Togliatti, ndr) senza penetrare però nella cavità toracica.

Pallante venne fermato dai carabinieri, la notizia arrivò in parlamento, due dirigenti comunisti, Pietro Secchia e Luigi Longo, andarono in ospedale con Togliatti. Nelle ore successive arrivarono Pietro Nenni, segretario del Partito socialista, giunto da Trento dove si trovava perché la figlia stava partorendo, e Alcide De Gasperi, segretario della Democrazia Cristiana.

Le condizioni di Togliatti apparvero gravi ma una serie di circostanze fortunate gli salvarono la vita. La pistola non era vecchia ed era perfettamente funzionante. La seconda pallottola sparata da Pallante l’aveva colpito in pieno alla nuca: come appurò la perizia balistica però non aveva sfondato la calotta cranica e si era schiacciata aprendosi, centrando l’apofisi occipitale, la crosta ossea alla base del cranio. La pallottola non era incamiciata, cioè non era rivestita di rame e zinco e soprattutto non aveva antimonio, il metallo utilizzato per indurire il piombo: apertasi, aveva ridotto la sua capacità di penetrazione. Gli altri due proiettili colpirono l’emitorace sinistro provocando solo lacerazioni non gravi nei polmoni.

Appena si diffuse la notizia, in Italia iniziarono ovunque scioperi spontanei. Lo storico Sergio Turone lo definì «lo sciopero generale più completo e più esteso che si sia mai avuto nella storia d’Italia». Giuseppe Di Vittorio, segretario del sindacato Cgil, fondato nel 1944, era in volo dagli Stati Uniti nel momento dell’attentato: fu informato appena sbarcato all’aeroporto di Ciampino, a Roma, quando ormai lo sciopero era iniziato ovunque spontaneamente.

Come detto ci furono scontri e sparatorie in varie parti d’Italia: alla Fiat di Torino operai armati sequestrarono l’amministratore delegato Vittorio Valletta nel suo ufficio. Scontri a fuoco avvennero ovunque: ci furono morti a Genova, Napoli, Livorno, Torino. In alcuni comuni della Toscana, sul monte Amiata, i rivoltosi assunsero il controllo. La repressione delle forze dell’ordine fu durissima.

La circolazione ferroviaria fu interrotta dai manifestanti, il governo mobilitò l’esercito. Il Consiglio dei ministri si riunì d’urgenza: i dirigenti democristiani chiesero a quelli comunisti di far cessare la rivolta. In ospedale, lo stesso Togliatti, cosciente, disse a Longo e a Secchia: «State calmi, non perdete la testa». 

Nilde Iotti, in ospedale, venne isolata. Raccontò dopo: 

Attorno a me sentii crescere un muro di incomprensione. Il più duro fu il compagno Mauro Scoccimarro che fin dal primo momento chiese a Longo di allontanarmi da Roma. Ma Longo, che aveva capito quanto profondo fosse il rapporto che mi legava a Togliatti, rifiutò decisamente. Fu una saggia decisione poiché sicuramente Togliatti ad un mio allontanamento avrebbe reagito duramente.

Dall’Unione Sovietica giunse un telegramma molto duro:

Il Comitato Centrale del PCUS (partito comunista dell’Unione Sovietica, ndr) è indignato per il brigantesco attentato contro la vita del capo della classe operaia e di tutti i lavoratori d’Italia, il nostro amato compagno Togliatti. Il Comitato Centrale del PCUS è contristato dal fatto che gli amici del compagno Togliatti non siano riusciti a difenderlo dal vile attentato a tradimento.

Il capo dell’organizzazione del Pci, Pietro Secchia, e altri dirigenti si sentirono sotto accusa e riversarono a loro volta le accuse contro Nilde Iotti. Raccontò lei: «“È tua la colpa di tutto quello che è successo”, mi dissero brutalmente. E lo ripeterono in modo ufficiale anche in una riunione in direzione». 

Allora nel partito il rapporto tra Togliatti e Iotti non era ben visto e, anche se non ad alta voce, molti dirigenti sostenevano che il fatto che il segretario del partito avesse una relazione fuori dal matrimonio fosse del tutto inopportuno.

Intanto, nel paese gli scontri e le manifestazioni continuavano. La notte del 15 luglio Di Vittorio emise l’ordine di cessazione dello sciopero ma non tutti i lavoratori obbedirono. A Milano, le fabbriche continuarono a essere occupate e le strade percorse dai rivoltosi. La segreteria della Cgil scrisse un messaggio:

Lavoratori milanesi! La Cgil vi esprime la sua simpatia e la sua ammirazione per lo slancio unanime col quale voi avete scioperato, per manifestare il vostro sdegno contro il vile attentato compiuto a tradimento sulla persona dell’indomito combattente della libertà Palmiro Togliatti e contro la politica liberticida che ha armato la mano dell’infame sicario fascista (…). Lo sciopero è cessato, ma la nostra lotta per la libertà continua. Ciò che occorre ai lavoratori è la compattezza e la disciplina. E voi, lavoratori milanesi, che siete stati sempre all’avanguardia del movimento operaio e democratico italiano, dovete comprenderlo prima degli altri. Non prestatevi a nessuna manovra di divisione e di indebolimento della disciplina sindacale. Abbiate fiducia nella vostra grande Cgil e nella vostra forte ed indomita Camera del lavoro.

Dopo qualche giorno lo stesso Togliatti registrò un videomessaggio dall’ospedale.

Negli anni successivi si disse che un ruolo fondamentale nel fare cessare la rivolta fu la vittoria che il ciclista Gino Bartali conseguì il 15 luglio al Tour de France. All’arrivo della notizia, i manifestanti, invece di continuare con le proteste, avrebbero iniziato a festeggiare la vittoria di Bartali. In realtà, quell’avvenimento sportivo non ebbe nessuna influenza sugli eventi ma fu utilizzato dai giornali anticomunisti per sminuire la portata della rivolta.

Il 16 luglio, il ministro dell’Interno Mario Scelba comunicò il bilancio ufficiale degli incidenti seguiti all’attentato. Tra le forze di polizia ci furono sette morti e 120 feriti; tra i cittadini sette morti e 86 feriti.

Antonio Pallante fu condannato a 13 anni, poi ridotti a 10, poi, in Cassazione a 6: scontò effettivamente 5 anni e 5 mesi, al termine dei quali uscì grazie all’amnistia per i reati politici. Dopo la scarcerazione lavorò nel corpo forestale in Sicilia. Dopo l’attentato ci furono sospetti che Pallante fosse legato a movimenti fascisti e che avesse avuto dei complici. In realtà le indagini conclusero che aveva agito da solo.

Nilde Iotti e Palmiro Togliatti (ARCHIVIO / ANSA / PAL)

Palmiro Togliatti morì il 21 agosto 1964 a 71 anni mentre era in vacanza in Crimea, sul Mar Nero, in compagnia di Nilde Iotti. Il segretario del Pci si era separato dalla moglie alla fine del 1948. Nilde Iotti, che divenne nel 1979 la prima donna presidente della Camera dei deputati, morì il 4 dicembre 1999.

In seguito allo sciopero generale del 14 luglio 1948 e alle divisioni nate all’interno dei sindacati soprattutto a Milano, due componenti, quella cattolica e quella liberale repubblicana, lasciarono la Cgil dando vita alla Cisl, Confederazione italiana sindacati lavoratori, e alla Uil, Unione italiana del lavoro.