Quanto si risparmia con lo smart working

È vantaggioso soprattutto per le aziende, ma continuano a esserci grossi ostacoli culturali e di organizzazione del lavoro

(Leon Neal/Getty Images)
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Nell’ultimo anno, con l’allentamento delle misure pandemiche, le aziende hanno gradualmente ricominciato a far tornare i propri dipendenti in presenza. Ma l’esperienza dello smart working sta tornando utile anche in questo periodo di fortissimi rincari dell’energia: molte società ed enti pubblici hanno deciso, per risparmiare sulle bollette, di chiudere del tutto le proprie sedi in alcuni giorni specifici, in cui i dipendenti lavorano da remoto.

Secondo alcuni studi con questa pratica i risparmi possono essere rilevanti, anche se in gran parte a beneficio dell’azienda. Il rischio di questo punto di vista è di vedere lo smart working come un modo come un altro per risparmiare e ancora una volta uno strumento di emergenza. In realtà dovrebbe essere un modo alternativo di organizzare il lavoro dei dipendenti e di consentire un nuovo modo di bilanciare gli equilibri tra vita privata e lavoro.

Quanto si risparmia con lo smart working
Per esempio, tutti i venerdì fino al 4 aprile il Comune di Milano spegne luci e riscaldamenti dei suoi uffici: i 2 mila dipendenti delle quattro sedi lavoreranno da remoto, in ottica di risparmio sulle bollette. Lo stesso fa Tim, che prevede 2 giorni di lavoro in presenza e 3 giorni da remoto, di cui uno sarà sempre il venerdì, giorno in cui le sedi saranno chiuse per risparmiare energia.

È una pratica che viene messa in atto sia dalle aziende private che dalla pubblica amministrazione. Secondo uno studio dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, un’azienda che prevede due giorni in remoto alla settimana riesce a tagliare i costi annui di 500 euro a postazione, se riesce a chiudere le aree inutilizzate e a ridurre di conseguenza i consumi. Se a questo si associasse la decisione di ridurre proprio gli spazi della sede tale risparmio potrebbe aumentare fino a circa 2.500 euro l’anno per ogni lavoratore.

Anche i dipendenti avrebbero dei risparmi, anche se minori. Sempre ipotizzando due giorni di lavoro in remoto a settimana, si ridurrebbero i cosiddetti costi di commuting, ossia quelli legati agli spostamenti per andare al lavoro, come la benzina o l’abbonamento dei mezzi pubblici: il dipendente potrebbe risparmiare fino a mille euro l’anno, anche se questo risparmio sarebbe in parte compensato dall’aumento dei consumi domestici, che lo studio dell’Osservatorio stima in circa 400 euro l’anno.

Nel complesso, quindi, lo smart working consente una riduzione generale dei costi. Lo studio suggerisce che il risparmio delle aziende potrebbe essere impiegato per sostenere il potere d’acquisto dei lavoratori, per esempio con bonus o benefit. A oggi, tuttavia,
solo il 13 per cento delle aziende del campione dello studio prevede dei bonus o rimborsi (che non siano i buoni pasto) per i dipendenti che lavorano da remoto.

Quanti sono i lavoratori in smart working
A partire dal 31 marzo 2022, con il termine dello stato di emergenza, i lavoratori sono tornati a lavorare di più in presenza. Ma il lavoro da remoto continua a essere ancora molto utilizzato, anche se meno rispetto all’anno scorso. I lavoratori da remoto nel 2022 sono stati circa 3,6 milioni, quasi mezzo milione in meno rispetto allo scorso anno ma molti di più rispetto ai circa 500 mila di prima della pandemia.

La diminuzione si ha in particolare nelle piccole e medie imprese (PMI) e nella pubblica amministrazione, mentre aumenta nelle grandi imprese, che da sole hanno circa la metà dei lavoratori da remoto.

Questa tendenza è molto influenzata dalla cultura aziendale. Nelle piccole e medie imprese, e soprattutto nelle più piccole, l’organizzazione del lavoro si focalizza molto sul controllo della presenza, anche perché non è sempre semplice introdurre in queste realtà modelli di lavoro più flessibili, sia dal punto di vista organizzativo sia tecnologico.

Nella pubblica amministrazione la riduzione dei lavoratori da remoto è frutto soprattutto delle decisioni del governo, che di fatto hanno riportato prevalentemente in presenza i dipendenti pubblici.

Lo studio dell’Osservatorio prevede che il prossimo anno il lavoro da remoto aumenti ancora, spinto soprattutto da maggiore iniziativa delle grandi imprese e da un’ipotesi di aumento dei lavoratori pubblici in smart working.

– Leggi anche: Com’è andato lo smart working nella pubblica amministrazione

Smart working e lavoro da remoto
Benché molte aziende usino molto di più questo strumento rispetto al passato, in Italia è ancora molto presente un equivoco di fondo: il lavoro da remoto non è sinonimo di smart working. Lavorare da remoto, per un dipendente, significa spostare la propria attività fuori dall’ufficio, a casa o altrove, ma facendo esattamente le stesse cose e agli stessi orari. Lo smart working, definito nel linguaggio giuridico italiano “lavoro agile”, è un’altra cosa: significa che il lavoratore può gestire il proprio tempo come meglio ritiene e lavora principalmente per obiettivi.

Il lavoro da remoto non contempla cambiamenti organizzativi, mentre lo smart working implica una revisione dei processi aziendali e una responsabilizzazione del lavoratore, che deve sentirsi in grado di rispondere dei propri obiettivi e non più di rispettare semplicemente il canonico orario di lavoro.

Il lavoro da remoto è stato utile e indispensabile per gestire l’attività lavorativa durante la pandemia e anche per aiutare l’equilibrio tra vita privata e lavoro nel breve termine. Secondo l’Osservatorio sullo smart working, nel lungo periodo c’è però il rischio che il lavoratore semplicemente si distacchi dall’azienda e che, senza una maggior responsabilizzazione, si demotivi.

Lo smart working non è solo uno strumento per gestire le situazioni di emergenza o incrementare il benessere delle persone, ma può essere anche una leva di ripensamento organizzativo per migliorare i risultati aziendali e valorizzare i talenti degli individui, che vedono molto migliorato l’equilibrio tra vita privata e lavoro. Tra l’altro, esiste la pratica sempre più diffusa tra le grandi imprese che usano lo smart working come strumento per essere più attrattive verso nuovi dipendenti.

Per riuscire però a passare da semplice lavoro da remoto allo smart working servono cambiamenti radicali in azienda, che deve essere più flessibile e digitale, oltre che richiedere un lavoro per obiettivi. Tutto questo richiede volontà e investimenti, che però, secondo l’Osservatorio, sono ostacolati soprattutto da barriere di carattere culturale, come resistenze da parte dei vertici, che non si fidano delle capacità dei propri dipendenti e che quindi vogliono vederli sempre in presenza, e un’assenza generalizzata di un sistema basato sul raggiungimento degli obiettivi.