Una buona scuola è una scuola che cambia

«In superficie, nel triste dibattito pubblico, il fatto che alcune scuole secondarie di secondo grado sperimentino forme “senza voto” torna ad apparire, come nel 1978, un reato di lesa maestà: un regalo fatto ai fannulloni, un modo per deresponsabilizzare gli studenti»

(ANSA/ALESSANDRO DI MARCO)
(ANSA/ALESSANDRO DI MARCO)

Nella prefazione di Esperienza e valutazione, un libro uscito nel 1958, il pedagogista Aldo Visalberghi scriveva: «Chi si occupa di discipline che hanno l’uomo a loro oggetto immediato, chi studia per esempio i problemi educativi, si trova continuamente nella necessità di effettuare valutazioni che hanno per loro materia altre valutazioni. Ciò riesce specialmente evidente, in pedagogia, quando si affronta il problema delle valutazioni scolastiche. Ma anche chi voglia giudicare del valore dell’educazione umanistica, o di altri indirizzi o obiettivi educativi, si trova nella stessa situazione. Probabilmente ogni serio studioso di una qualsiasi di quelle discipline che si designano spesso con il nome di Scienze sociali si è trovato a dover riflettere sulla natura della sua propria e dell’altrui attività valutativa. Cosa significa essere “obiettivi” quando la materia della nostra indagine è permeata da quegli stessi sentimenti che agitano noi stessi? Una siffatta obiettività è possibile o è puramente illusoria? A quali condizioni può realizzarsi, se pur può realizzarsi?».

Occorre un metro per valutare l’apprendimento. Ma deve essere un metro chiaro e comprensibile sia da chi valuta che da chi è valutato. Per questo la valutazione descrittiva (quella dei giudizi per capirci) è stata sempre indicata come più efficace del voto numerico, perché spiega, consente di capire e di crescere imparando. Questa distinzione non è così evidente per tutti. Ancora oggi, come ha scritto il pedagogista Cristiano Corsini, troppo spesso agiscono dei “disturbi specifici dell’insegnamento” quando in ballo ci sono i voti e la valutazione: si valutano gli studenti (carattere, talento, ecc) e non i loro apprendimenti; si tende ad attribuire loro l’intera colpa del fallimento cognitivo, con una straordinaria operazione di ribaltamento di responsabilità che fa tornare alla mente, per contrasto, quanto il maestro Mario Lodi all’inizio dell’anno scolastico 1974 scriveva invece ai genitori: «I bambini, salvo imprevedibili fatti di eccezionale gravità, sono promossi sin da ora alla quinta elementare, con la garanzia del raggiungimento della preparazione minima richiesta dai programmi scolastici. Se questo non si verificherà, la responsabilità sarà del maestro e della scuola per non aver messo in atto le tecniche educative adatte per sviluppare al massimo le attitudini naturali e l’intelligenza del bambino».

La valutazione, anche quando è comunicata attraverso un voto numerico, è educativa a patto che sia un mezzo, non un fine. Ma un mezzo per cosa? La valutazione serve all’apprendimento, a verificarlo, o a creare gerarchie tra chi sa e chi non sa? Ovviamente nessuno si sognerebbe mai di rispondere che la valutazione a scuola serve a punire, a umiliare, a ridurre le persone al numero che viene loro attribuito. Eppure molto spesso non è usata se non così. E non a caso il dibattito sul valore formativo del voto e quello sull’umiliazione avvengono a pochi giorni di distanza, sintomo di mali antichi della scuola che non passano.

Clotilde Pontecorvo, pedagogista da poco scomparsa, ha passato tutta la sua vita professionale a ricordare che il problema in realtà non è il voto o il giudizio ma il fatto che in entrambi i casi quello che serve è dare delle informazioni agli studenti, alle famiglie, alla comunità educativa insomma. Avere elementi informativi per insegnare meglio e imparare meglio. Una necessità di chiarezza. La valutazione così intesa è una funzione interna al processo didattico, non una sanzione. Non si capisce perché non dovrebbe essere così. Anche alle scuole superiori, anche all’università. Ma se la programmazione didattica non è nota, se il piano di lavoro della classe non è chiaro come può esserlo il voto in qualunque modo esso venga attribuito? Per questo ogni qual volta si mette in discussione la forma con cui si valuta non si può farlo senza mettere in discussione il modo in cui si pensa e si insegna.

Ogni riflessione, proposta, progetto sperimentale messo in campo nel corso degli ultimi decenni per migliorare i livelli di apprendimento dovrebbe essere guardato (valutato) con attenzione e non con paura come invece accade. Perché ogni volta che in Italia si discute di voti e dell’opportunità di sostituirli con una valutazione formativa, c’è qualcuno che grida allo scandalo, si indigna, come se fosse la prima volta, come se la fine della scuola, il colpo di grazia, financo la crisi dell’intera civiltà, dipendesse dal voler sostituire il voto con una valutazione formativa e descrittiva (per esempio).

Quando nel 1977 la legge n. 517 abolì la pagella e i voti nella scuola dell’obbligo, in molti annunciarono che la fine del mondo era vicina. Come avrebbe potuto il povero scolaro capire se era stato bravo, più bravo del suo compagno di banco o meno bravo? In base a quale criterio non più scritto a numeri stampati col fuoco si sarebbe potuto misurare quel merito previsto peraltro dall’articolo 34 della Costituzione? Cosa avrebbero detto i genitori, infine, abituati al voto ormai quanto all’acqua calda e al bagno in casa?

Gianni Rodari, attento osservatore non solo di quanto animava la scuola ma la società in generale, scrisse qualche mese dopo la riforma su Paese Sera un importante articolo nel quale tentava una prima genealogia di alcune di quelle che sarebbero diventate le più longeve bufale sul Sessantotto: fra queste, quelle relative al voto che si erano rivelate da subito le più micidiali e difficili da contrastare. Dieci anni dopo il movimento degli studenti, infatti, qualcuno vedeva la riforma della valutazione come un regalo ai “fannulloni del 6 politico” e non come l’esito di un lungo percorso di riflessione che risaliva addirittura alle ricerche di John Dewey condotte fra Otto e Novecento.

Scriveva Rodari che ci saremmo ritrovati a rimpiangere i vecchi tempi, di prima del Sessantotto, quando la scuola e tutto ciò che conteneva, presidi, bidelli, programmi, metodi, era sacro e inviolabile. «Parallelamente, intanto, qualcuno si presterà a far risuonare amplificato il sospiro di dolore di tanti insegnanti delle elementari e della media inferiore che piangono desolati la scomparsa del voto, strumento comodo e collaudato, con il quale fingere di far scuola era semplicissimo: un quattro o un dieci, in ogni caso, documentavano una valutazione, preceduta da un’interrogazione, preceduta a sua volta da una lezione; il numerino era la prova dell’esistenza della pedagogia e della didattica. Perfino i bambini saranno chiamati a testimoniare che la scuola senza voti è triste come il focolare senza mamma, o per lo meno come il brodo senza tortellini».

Per circa un trentennio dopo di allora, invece, la scuola, senza grandi traumi, ha introdotto misure correttive, ha ragionato su come valutare, financo su eliminare il voto del tutto, affinché l’apprendimento fosse al centro dell’obbligo scolastico. Poi qualcosa è andato storto. Fra i primi provvedimenti dei governi di centrodestra, nel 2008, vi è stato il ripristino del voto numerico. Un provvedimento simbolico, dai forti contenuti ideologici: ribadire che la scuola del merito, quella che distribuisce premi e punizioni è il cardine del nostro sistema formativo. Insieme a un po’ di umiliazione che non guasta mai. Non prendi due, vali due. E se vali due molli. Così e non altrimenti si spiega la dispersione scolastica. Che non è solo lasciare la scuola ma anche detestarla, come ha scritto Olga Bombardelli: «c’è dispersione di talenti ogni volta che ci si trova di fronte ad un sentimento di grave malessere che impedisce all’alunno di vivere un’esperienza scolastica pienamente formativa. Si tratta di un problema individuale e sociale». «La scuola è così», ha scritto Domenico Starnone in una sua introduzione al libro Cuore di De Amicis «continuamente perde ragazzi. È il suo modo di affacciarsi sull’abisso della disuguaglianza e poi ritirarsi».

Nel 2020, di nuovo, il voto numerico alla primaria è stato abolito e sono state introdotte griglie di valutazione che hanno scontentato tutti: per il carico di lavoro che richiedono e per la mancanza di una formazione adeguata degli insegnanti da un lato, e dall’altro per l’impressione che danno di cambiare tutto perché non cambi niente: si pensa per voti numerici e si traducono i numeri in giudizi scritti. E ovviamente non si modifica di una virgola la didattica, e la riflessione sui processi di apprendimento. Eppure i tentativi pensosi e appassionati di cambiare l’ordine delle cose sono tanti e hanno iniziato a incontrarsi intorno ad alcuni gruppi che si autoconvocano per mettere in rete e relazione le esperienze, i dubbi, gli errori, le soluzioni.

Ma in superficie, nel triste dibattito pubblico, il fatto che alcune scuole secondarie di secondo grado sperimentino forme di valutazione in itinere “senza voto” torna ad apparire, come nel 1978, un reato di lesa maestà, un regalo fatto ai fannulloni, un modo per deresponsabilizzare gli studenti. Una docente di secondaria ricorda quanto sia sbagliata questa idea riportando l’eterna risposta al: perché hai preso 4? «Boh», dice lo studente che spesso davvero non lo capisce bene. «Da quando usiamo la valutazione descrittiva nessuno viene a contestare i voti, i genitori sono più collaborativi, si è attivato un percorso virtuoso di educazione anche delle famiglie».

Il liceo Morgagni di Roma, per esempio, da qualche anno ha dato vita a una sezione “senza voto”, nel senso che nel corso del biennio delle superiori (che per inciso ancora rientrano nell’obbligo scolastico visto che si chiude a 16 anni) si evita di dare voti numerici in itinere, cioè durante l’anno. Le valutazioni vengono discusse con gli studenti e le famiglie: non come forma di assemblearismo fuori tempo massimo ma come progetto educativo dell’intera comunità. Ci si lamenta spesso del ruolo negativo che i genitori hanno nella scuola: bene, questo è un modo serio per aggiustare il tiro, coinvolgendoli, responsabilizzandoli.

Ovviamente questo metodo richiede impegno da parte di tutti. Una volta al mese la comunità scolastica si riunisce per discutere dei problemi della classe e dell’avanzamento della didattica. Questo non ha eliminato le bocciature del tutto, né i debiti a settembre: ma ha, senza dubbio, fatto crescere le persone coinvolte in termini di autovalutazione, capacità di capire quanto accade, senza fatalismo, senza sentirsi predestinati e senza identificarsi con il voto. Valutazione per l’apprendimento e valutazione come apprendimento sono concetti che da anni ormai hanno assunto un ruolo centrale nella letteratura pedagogica internazionale. Come scrive Federico Batini, che da anni si occupa di questo tema, «ormai evidenze scientifiche decennali dimostrano che l’uso intenzionale della valutazione in classe per promuovere l’apprendimento abbia migliorato i risultati degli studenti. La valutazione così intesa può essere un potente catalizzatore per l’apprendimento».

Ma queste sperimentazioni, lo ripetiamo, ci sono sempre state. Il fatto che vengano portate avanti in istituti superiori sorprende chi non sa niente di storia della scuola, non chi questa storia la guarda da vicino, la studia, la vive ogni giorno, in classe. L’aula scolastica, del resto, come ha scritto bell hooks, intellettuale femminista scomparsa un anno fa, è lo spazio più radicale che abbiamo per cambiare il mondo, con la pratica. Non vederlo, non accettarlo, negarlo è di per sé quanto di più miope oltreché reazionario si possa fare quando in ballo c’è il sistema educativo.

Scriveva Rodari nel 1978, e le sue parole sono attuali anche oggi: «Il modo come gli avvenimenti scolastici giungono alla luce delle cronache giornalistiche e i commenti che suscitano spesso da parte di illustri scrittori facilitano il lavoro a chi per la scuola chiede nient’altro che la Restaurazione; mentre non bisognerebbe mai stancarsi di chiarire che la scuola è nel caos non perché ci siano state in essa troppe innovazioni rivoluzionarie, ma al contrario perché essa è rimasta vecchia, e da vecchia è diventata decrepita, e da decrepita sta diventando marcia. Cosa c’è da “restaurare”? Niente di niente. C’è invece, nella scuola dell’obbligo, da andare avanti con minore timidezza. E c’è, nella scuola secondaria, da cambiare ogni cosa, dalle fondamenta. I cadaveri vanno seppelliti, non rivivono a imbellettarli». Così guardiamo con interesse all’esperimento di tutti gli istituti che hanno avuto il coraggio di iniziare a seppellire quel cadavere che nel 2022 è, sotto ogni aspetto, il voto numerico, l’ultimo strumento di controllo rimasto a chi considera l’insegnamento un mero esercizio di potere. Quel voto che, ricordiamolo, è il principale strumento attraverso il quale si pratica quella pedagogia dell’umiliazione oggi tornata tristemente a essere rimpianta. Altro che brodo senza tortellini.

Vanessa Roghi
Vanessa Roghi

Vanessa Roghi è una storica. Si occupa di educazione, margini. Ha scritto saggi pubblicati in Italia da Laterza e Mondadori. È stata fellow dell'Italian Academy della Columbia University.

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