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  • Venerdì 26 agosto 2022

In Giappone gli obiettivi di sostenibilità dell’ONU vanno molto di moda

Il logo che rappresenta i 17 punti dell'“Agenda 2030” per rendere il mondo un posto migliore è ovunque, ma senza grossi effetti concreti

Il comico giapponese Pikotaro assieme all'attuale primo ministro Fumio Kishida, allora ministro degli Esteri, durante un evento per la sensibilizzazione verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile nel 2017 (AP Photo/ Eugene Hoshiko)
Il comico giapponese Pikotaro assieme all'attuale primo ministro Fumio Kishida, allora ministro degli Esteri, durante un evento per la sensibilizzazione verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile nel 2017 (AP Photo/ Eugene Hoshiko)
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Nel 2015 l’ONU ha presentato i propri Obiettivi per lo sviluppo sostenibile, una serie di propositi che hanno lo scopo di rendere il mondo un posto migliore entro il 2030 e dovrebbero riguardare tutti i paesi del mondo: in totale questi obiettivi sono 17 e prevedono per esempio di ridurre le disuguaglianze, raggiungere la parità di genere, tutelare la vita sul pianeta e assicurare energia pulita e accessibile a livello globale.

Questi obiettivi, che in inglese sono conosciuti come “Sustainable Development Goals” (o SDG), sono rappresentati da un simbolo particolare, una specie di piccola ruota suddivisa in 17 sezioni colorate che ricorda un po’ una roulette. Da qualche anno questo simbolo ha cominciato a comparire un po’ dappertutto – sotto forma di spille, loghi o illustrazioni – specialmente in Giappone, un paese molto orientato al bene comune della società, che si è impegnato moltissimo per diffondere l’iniziativa. Non sempre tuttavia alla popolarità del messaggio sembrano essere seguiti miglioramenti concreti.

Il Giappone ha introdotto ufficialmente gli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile come parte dell’agenda nazionale nel 2016, istituendo anche una speciale task force che si occupasse di seguire le iniziative per assicurarsi di farli conoscere. Fu però l’anno successivo, osserva il New York Times, che il tema cominciò ad attirare davvero interesse nel paese: l’adozione degli Obiettivi nello statuto della federazione di imprese più grossa del paese, Keidanren, contribuì a far diffondere moltissimo la campagna, facendo finire il suo simbolo sui siti delle aziende, nei negozi e anche nei parchi giochi.

Concretamente, per esempio, il ministero dell’Istruzione giapponese incoraggia a introdurre gli Obiettivi (che in Giappone vengono chiamati con la sigla inglese SDG) nei programmi scolastici, così come le aziende sono incoraggiate a mettere in atto strategie per raggiungerli. Ci sono giochi da tavolo sviluppati attorno ai 17 Obiettivi e agenzie viaggi che organizzano tour in cui si può scoprire come il paese si stia impegnando per fare in modo che diventino realtà. Il ministero degli Esteri ha anche istituito un premio dedicato alle organizzazioni che si distinguono per il loro impegno.

Un video animato promozionale trasmesso dalla televisione nazionale NHK a proposito dei SDG ha ottenuto 940mila visualizzazioni su YouTube. Quello in cui è il noto personaggio di Hello Kitty a pubblicizzare gli Obiettivi ne ha raccolte oltre 400mila.

Un sondaggio realizzato dalla società di pubblicità e marketing Dentsu, citato dal New York Times, ha evidenziato che 9 giapponesi su 10 sono al corrente dell’esistenza degli Obiettivi, anche se solo un terzo è in grado di descriverli. Un altro sondaggio di Teikoku Databank, società di ricerca specializzata in analisi finanziaria, dice che quasi il 40 per cento delle aziende giapponesi si è impegnato a raggiungerli con svariate iniziative. Come ha notato Rie Takeshima, responsabile di una divisione di Dentsu che offre consulenza su come introdurre gli Obiettivi nei programmi di sviluppo delle aziende, in Giappone «non c’è nessun settore, nessuna azienda in cui gli SDG non siano rilevanti».

Per quanto la campagna stia avendo molto impatto e il suo simbolo compaia un po’ ovunque, questo non significa necessariamente che il Giappone abbia fatto progressi nel raggiungimento degli Obiettivi.

Secondo il rapporto annuale sul programma realizzato alla fine del 2015, l’anno in cui furono presentati gli Obiettivi, il Giappone era al 13mo posto tra i 193 paesi membri dell’ONU, distinguendosi in particolare per i risultati raggiunti rispetto alla lotta alla fame, alle infrastrutture e al livello dell’istruzione, come gran parte dei paesi con economie forti. Attualmente invece è stato superato per esempio da Lituania e Polonia ed è finito al 19mo posto (al primo c’è la Finlandia, mentre l’Italia è al 25mo).

Lo stesso governo giapponese ha riconosciuto un buon impegno nel creare consapevolezza sugli Obiettivi, ma ha ammesso di essere ancora «indietro» nel sviluppare le strategie per mettere in pratica programmi concreti. Uno dei temi su cui sembra essere particolarmente carente è la parità di genere, come conferma peraltro lo studio annuale del World Economic Forum che quantifica le disparità di genere in 146 paesi del mondo (Global Gender Gap Report) in base a criteri come l’occupazione, la salute e la rappresentanza in politica: nel 2022 il Giappone era al 116mo posto.

Un’illustrazione degli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile, dal sito del ministero degli Esteri giapponese

Alcuni critici ritengono inoltre che aderire alla campagna sia solo un modo con cui le aziende si mostrano attente a rispettare gli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile, senza poi impegnarsi davvero con azioni concrete, oppure presentando programmi che sono solo in parte attinenti agli obiettivi che dicono di voler raggiungere. È un fenomeno che è stato chiamato “SDG-washing”, un’espressione che ricalca il più noto termine inglese “greenwashing”, che a sua volta indica una sorta di ambientalismo “di facciata” con cui spesso le imprese dipingono un’immagine di sé più virtuosa di quella che è la realtà.

In altri casi, sembra invece che aderire all’iniziativa sia solo un gesto simbolico, dettato più che altro da una sorta di senso di obbligo di dover seguire le indicazioni del governo. Masaru Ihara, un responsabile dell’azienda di servizi turistici Club Tourism International, ha detto al New York Times che molti alberghi o ristoranti con cui collabora espongono il simbolo dell’iniziativa non tanto perché si siano impegnati a raggiungere concretamente gli obiettivi, ma perché sentono la pressione di doverlo fare, anche se magari non sono molto sicuri di come farlo. Sempre secondo Ihara, comunque, la diffusione della campagna potrebbe avere un effetto positivo, visto che «crea un’atmosfera in cui tutte le persone si sentono di dover fare qualcosa».

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