Il criticato articolo del New York Times sulle cure alternative per le psicosi

Racconta l’approccio di un movimento contrario alle terapie farmacologiche, e non è piaciuto per niente agli psichiatri

A Beautiful Mind
Un fotogramma del film del 2001 “A Beautiful Mind”
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Il New York Times Magazine, il supplemento settimanale del New York Times, ha recentemente dedicato un lungo articolo a un controverso gruppo di individui e organizzazioni, presenti in diversi stati americani e anche in Europa, che prestano assistenza a soggetti affetti da psicosi. Il gruppo fa capo a un movimento chiamato Hearing Voices (“sentire voci”), che contesta l’approccio alla cura delle psicosi basato sull’assunzione di farmaci antipsicotici e promuove la condivisione delle esperienze allucinatorie in gruppi di ascolto «tra pari», perlopiù formati da soggetti psicotici e soggetti guariti, senza personale medico. Condivisione che i sostenitori del movimento ritengono abbia, entro certi limiti, significativi effetti terapeutici.

L’articolo è stato scritto dal giornalista e scrittore americano Daniel Bergner, da tempo collaboratore della rivista e autore di diverse inchieste e libri di successo (alcuni dei quali editi anche in Italia). È un adattamento del nuovo libro di Bergner, The Mind and the Moon: My Brother’s Story, the Science of Our Brains, and the Search for Our Psyches, dedicato al rapporto tra il cervello e la psiche, al dibattito sulle cure psichiatriche e all’esperienza di Bergner con la malattia mentale e il ricovero di suo fratello minore, affetto da disturbo bipolare negli anni Ottanta.

L’articolo di Bergner è stato duramente criticato a causa dei temi trattati, all’interno di un più ampio dibattito in cui da tempo si misurano negli Stati Uniti sensibilità e opinioni molto diverse riguardo ai benefici e ai limiti dell’approccio prevalente alla cura delle malattie mentali, e ai rischi legati ad approcci alternativi non avvalorati da una sufficiente quantità di studi scientifici. Opinioni ulteriormente condizionate da un altro dibattito che negli Stati Uniti, a fronte di un grave e irrisolto problema di abuso di farmaci, da anni pone la questione delle responsabilità dell’industria farmaceutica e delle politiche che regolano l’uso delle sostanze.

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L’articolo del New York Times Magazine ha descritto l’approccio del movimento Hearing Voices a partire dall’esperienza diretta di una donna, Caroline Mazel-Carlton, oggi una delle più importanti leader e coordinatrici del movimento. Mazel-Carlton è stata per anni sottoposta a una cura farmacologica – antipsicotici, antidepressivi, benzodiazepine e stimolanti per deficit dell’attenzione – per ridurre le proprie allucinazioni uditive, considerate uno dei sintomi comuni di malattie mentali come la schizofrenia o il disturbo bipolare. Una delle voci, ha raccontato a Bergner, la avvisava di calamità e catastrofi imminenti. Un’altra faceva una specie di cronaca di ogni suo movimento in giro per casa, e un’altra ancora la rimproverava a scuola, le diceva che puzzava e la scoraggiava anche quando pensava di sentirsi preparata.

La cura non aveva risolto il problema delle voci ma a volte riusciva a trasformarle in un muro di suoni indistinti, ha raccontato Mazel-Carlton. L’assunzione di antipsicotici le aveva tuttavia causato obesità e perdita del controllo degli arti superiori e del collo, favorendo un progressivo isolamento e l’insorgenza di una tricotillomania, un disturbo caratterizzato dal comportamento compulsivo di strapparsi ciocche di capelli. Durante gli anni del liceo e poi dell’università – a Bloomington, in Indiana – cominciò ad assumere in autonomia sostanze «da strada», tra cui marijuana ed eroina, e avere relazioni con uomini violenti.

In seguito a un aborto, cominciò a sentire una voce che la minacciava dicendole che le avrebbe staccato tutte le dita «una per una». Fu arrestata tre volte, una volta per aver rubato apparecchi elettronici da usare come moneta di scambio per ottenere stupefacenti. E finì in un centro di recupero, una fattoria vicino agli Appalachi, in cui cominciò di nascosto a non assumere più i farmaci a lei prescritti.

Fu all’epoca che, come ha raccontato a Bergner, Mazel-Carlton riuscì a perdere peso e a riprendersi, impegnandosi in altre attività nella fattoria e imparando a convivere con le proprie voci. In seguito riuscì a prendere un diploma a Asheville, in North Carolina, per lavorare come responsabile in strutture per giovani con problemi mentali o fisici che non possono vivere con le proprie famiglie. E diventò anche un’abile giocatrice di roller derby. In quel periodo, quando aveva circa vent’anni, alla fine degli anni Duemila, Mazel-Carlton si interessò alle teorie promosse dal movimento Hearing Voices.

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Cominciò quindi a coordinare alcuni incontri – qualcosa di simile alle riunioni degli Alcolisti Anonimi – a Holyoke, in Massachusetts, dove oggi lavora per un’organizzazione chiamata Wildflower Alliance. L’organizzazione gestisce strutture in cui persone con storie di problemi di salute mentale, anche senzatetto, si riuniscono e condividono le proprie esperienze, senza la presenza di medici, raggiungendo un livello di fiducia a loro avviso possibile soltanto negli incontri tra pari. E in cui lavorano insieme con l’obiettivo, ha scritto Bergner, «di trasformare il modo in cui la nostra società comprende e tratta l’estrema sofferenza mentale».

L’idea alla base dell’approccio promosso dal movimento, approccio descritto dal New York Times Magazine come marginale nella comunità scientifica, è che per i soggetti che soffrono di allucinazioni uditive parlare delle proprie «voci» possa allentare la «pressione della segretezza» e ridurre la «sensazione di devianza», indebolendo la presa delle allucinazioni sui soggetti stessi ed evitando il loro progressivo isolamento. E questo permetterebbe loro di vivere in termini diversi il proprio disagio. «Considera che le verità sono multiple. Ognuno ha la propria visione precisa di come stanno le cose», c’è scritto su uno dei tanti cartelli appesi sui muri delle stanze di una delle strutture gestite dall’organizzazione, Afiya, in cui sono consentiti soggiorni di una settimana al massimo e gli ospiti sono liberi di entrare e uscire a qualsiasi ora.

L’approccio convenzionale e prevalente alla cura dei soggetti psicotici, inclusi quelli con allucinazioni uditive, ha scritto il New York Times Magazine, si concentra prevalentemente sulla «gestione del rischio». E sostiene l’idea che, nonostante la presenza di rilevanti effetti indesiderati, i farmaci antipsicotici riducano le probabilità a lungo termine di crollo o peggioramento dello stato mentale, di manifestazioni violente e di suicidio.

Bergner ha tuttavia definito «confuse» le prove a sostegno del miglioramento delle condizioni nei pazienti in cura con farmaci antipsicotici e ha definito questo tipo di cure psichiatriche un’«area priva di scienza conclusiva». Citando uno studio pubblicato nel 2019 sul New England Journal of Medicine, ha poi associato i casi di fallimento dell’approccio tradizionale alla cura delle psicosi alla generale mancanza di una «completa comprensione biologica sia delle cause che delle cure delle malattie psichiatriche» e a una «mancanza di progressi nella cura delle condizioni gravi, o addirittura nella diagnosi di tali condizioni».

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Ha inoltre citato una guida (PDF) pubblicata nel 2021 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sui diritti umani dei pazienti con problemi di salute mentale, in cui si chiede di ridiscutere i trattamenti coercitivi e il predominio dell’approccio farmaceutico nell’assistenza sanitaria alle persone con malattie mentali. L’Afiya – la struttura gestita dalla Wildflower Alliance in cui lavora Mazel-Carlton, a Northampton, in Massachusetts – è una tra le 22 «strutture di ospitalità gestite da pari» citate all’interno della guida dell’OMS come esempi virtuosi di trattamento dei pazienti.

Anche trascurando tutta la questione relativa agli effetti collaterali, uno dei problemi causati dall’approccio dominante, ha scritto Bergner citando medici che hanno contribuito alla stesura del documento dell’OMS, è stata la diffusione tra gli specialisti di un’eccessiva attenzione alla riduzione dei sintomi: «una mentalità professionale che lascia alle persone la sensazione di essere viste come liste di controllo di criteri diagnostici, non come esseri umani». La convinzione ancora diffusa in psichiatria che le persone con un problema di salute mentale abbiano «un difetto cerebrale o un problema nel cervello», ha detto al New York Times Magazine la specialista Michelle Funk, che lavora per il Dipartimento di salute mentale e uso di sostanze dell’OMS, «porta molto facilmente a una schiacciante impotenza, perdita di identità, perdita di speranza, auto-stigma e isolamento».

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Le buone pratiche condivise tra le diverse strutture descritte dall’OMS, si legge nel documento, rendono «i diritti umani una preoccupazione centrale», contribuiscono a contrastare il rischio di alienazione tra le persone con malattie mentali e a superare il «linguaggio delle diagnosi» e il «modello biomedico» incentrato sui farmaci. E sono inoltre maggiormente compatibili con «il rispetto della differenza e l’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità», secondo i principi definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (PDF).

In un certo senso, ha scritto Bergner, l’OMS e Mazel-Carlton condividono un approccio non troppo diverso da quello sostenuto da un «movimento per la neurodiversità» che nel corso del tempo ha progressivamente cambiato la percezione dell’autismo nella società. Mazel-Carlton, che sostiene di essere interessata a un ampliamento delle «opzioni per la guarigione», ha accomunato gli obiettivi del movimento Hearing Voices anche a quelli da tempo al centro del dibattito sull’accettazione delle identità di genere. «La nostra società ha bisogno di ampliare la sua visione di cosa significhi essere umani», ha detto al New York Times Magazine.

Parlando con il responsabile dell’Afiya, Bergner ha appreso che i pensieri sul suicidio o su comportamenti violenti contro altre persone sono normalmente presenti sia tra gli ospiti che tra i membri dello staff della struttura. «Sono tutti pensieri normali, ma qui le persone si allenano a credere che non lo siano», ha detto a Bergner, sostenendo che poter esprimere questi pensieri e avere conversazioni a questo proposito abbia effetti curativi. «Quando non concediamo quello spazio, le cose si ingigantiscono», ha detto.

Le origini del movimento risalgono alla seconda metà degli anni Ottanta, quando lo psichiatra olandese Marius Romme pubblicò in uno studio intitolato appunto Hearing Voices dati tratti dalla sua esperienza con persone schizofreniche, alcune delle quali con allucinazioni e tendenze suicide, e dai risultati di alcuni suoi esperimenti. Suggerì agli psichiatri di prestare maggiore attenzione al contenuto delle voci sentite e riferite dai pazienti anziché respingerle come prive di significato. E aggiunse che gli operatori sanitari nel campo della salute mentale dovrebbero «stimolare il paziente a incontrare altre persone con esperienze simili», e che i pazienti beneficiavano del poter «attribuire un significato alle voci».

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L’articolo di Romme fu perlopiù ignorato ma ottenne nei decenni successivi una certa adesione da parte di gruppi di persone che soprattutto in Europa, prima che negli Stati Uniti, si unirono in organizzazioni più strutturate respingendo i metodi e le cure più diffuse nella psichiatria. Come sintetizzato da Mazel-Carlton, le strutture che fanno capo a Hearing Voices sono posti in cui «posso andare, se sono una persona classificata in termini psichiatrici, per parlare di spiritualità senza che la mia esperienza sia patologizzata».

Parlando con Bergner, Mazel-Carlton ha anche ribadito l’importanza della formazione dello staff delle strutture, che deve rimanere lontano dalla «modalità salvatore» e prestare soltanto ascolto, in modo da non impedire agli ospiti delle strutture di poter parlare liberamente – incluso, eventualmente, del desiderio di togliersi la vita – senza temere di essere segnalati alle autorità sanitarie. L’idea alla base del programma di recupero della Wildflower Alliance è che, finché possono parlare di suicidio sentendosi ascoltate e comprese, le persone con problemi mentali saranno meno inclini a uccidersi. Ma ci sono pochissimi studi che avvalorino questo tipo di affermazioni, data la sostanziale assenza di ricerche su questo tipo di approccio, ha aggiunto Bergner.

E non è detto che funzioni sempre, come ammesso dalla stessa Mazel-Carlton, che ha raccontato del suicidio, avvenuto un anno fa, di una sua cara amica ed ex ospite del centro Afiya. «Quando è morta, molte persone nella nostra comunità parlavano di cosa avrebbero potuto fare di più», ha detto Mazel-Carlton, attribuendo responsabilità alla «profonda emarginazione della neurodiversità» nel mondo.

Citando uno scambio di email avuto con Ashwin Vasan, commissario del Dipartimento della salute e dell’igiene mentale nella città di New York, Bergner ha scritto del bisogno di prevenire l’isolamento delle persone, in riferimento a un recente picco dei «casi di violenza e illegalità associati ai malati di mente e ai senzatetto». Dati citati da Bergner indicano che le persone a cui viene diagnosticata una psicosi abbiano meno probabilità di essere autori di violenze che di esserne vittime. E che fattori come povertà e abuso di sostanze abbiano una rilevanza nel fenomeno della violenza. Oltre a ribadire l’importanza delle cure, ha detto Vasan a Bergner, «dobbiamo anche combattere l’idea che le persone con malattie mentali debbano essere temute».

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L’articolo di Bergner ha prevedibilmente generato molte polemiche tra diversi lettori e commentatori che lo hanno interpretato come un tentativo di dare sostegno alle tesi di chi considera le psicosi un diverso modo di essere, paragonabile ad altre condizioni più o meno socialmente definite e accettate, anziché condizioni patologiche da curare attraverso appropriate terapie farmacologiche.

Una critica radicale all’articolo è arrivata dallo scrittore statunitense Fredrik deBoer, apprezzato commentatore della politica e della cultura americane e autore del libro The Cult of Smart. In un video in cui, commuovendosi, ha raccontato la sua esperienza di persona affetta da e in cura per un disturbo psicotico, deBoer ha definito l’articolo di Bergner irresponsabile e frustrante per chi, come lui, conosce perfettamente tutti gli effetti collaterali degli antipsicotici.

«L’implacabile insistenza sul fatto che dovrei amare la mia malattia, che dovrei comportarmi come se fosse qualcosa di positivo nella mia vita, per me è davvero estenuante», ha detto deBoer, che ha poi raccontato un suo episodio psicotico. Quando aveva 31 anni, si convinse che una sua ex ragazza che non vedeva da anni stesse cercando di ucciderlo mettendo di nascosto dei vetri rotti nel cibo. «Decisi di ucciderla, e se avessi saputo dove si trovava lo avrei fatto», ha detto deBoer.

Quando attraversi una cosa del genere, per cui segui poi delle cure e devi riordinare tutto quello che è successo, ecco… io non posso più guardare a me stesso e pensare di essere una persona amichevole, una che non farebbe mai male a nessuno. Perché se ne avessi avuto l’opportunità, io lo avrei fatto. E sono veramente stanco di sentirmi dire che c’è qualcosa di molto sbagliato nelle mie cure, che supera i benefici. Perché per me il beneficio è non uccidere qualcuno o non uccidere me stesso, che mi sembra un considerevole beneficio. E sono stanco di sentirmi dire che c’è una specie di vero me stesso di cui non mi sto preoccupando. Perché io continuo a prendere farmaci per poter condurre una specie di normale vita da adulto, e non mi servono prediche su quanto facciano male.

DeBoer ha accusato Bergner di aver scritto l’articolo basandosi soltanto sulle testimonianze di un gruppo di «attivisti» e non su quelle della grande maggioranza dei pazienti psicotici, e cioè persone che non pensano che «la loro cazzo di schizofrenia sia un superpotere». E ha detto che ciò di cui lui ha bisogno non è essere accettato dalla società in quanto persona affetta da psicosi: ha bisogno di qualcuno che gli impedisca – anche forzosamente, se necessario – di fare le cose che farebbe a causa della sua psicosi.

«Ho bisogno di qualcuno che mi costringa a ricevere cure per salvarmi la vita», ha detto deBoer, che ha infine criticato una certa tendenza della «cultura progressista moderna» a trattare ogni cosa in termini positivi. «Ci sono cose che sono brutte e basta, non sono una scelta e non si possono cambiare», ha concluso deBoer, descrivendo il suo disturbo bipolare come la parte peggiore di sé: «darei via tutto quello che ho per non essere più così».

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Nel dibattito sollevato dall’articolo del New York Times Magazine è intervenuto anche l’influente e seguito psichiatra e blogger statunitense Scott Alexander, autore della popolare newsletter Astral Codex Ten, con alcune considerazioni supportate dalla sua esperienza clinica e dalla conoscenza diretta di alcuni soggetti che, con buone intenzioni, fanno parte del movimento Hearing Voices. La premessa da cui parte Alexander è che un po’ tutti, sia queste persone sia molte altre che partecipano al dibattito ma con opinioni diverse, siano «brave persone che cercano di trarre il meglio da una brutta situazione».

Ha raccontato il caso di un suo ex paziente, un programmatore informatico di successo, a cui consigliò di rivolgersi al movimento Hearing Voices quando seppe, durante alcune sedute per curare una forma di depressione, che in passato quel paziente aveva sofferto di allucinazioni uditive. Dopo essersi reso conto che non erano reali, il paziente aveva fatto del suo meglio per ignorare le voci che sentiva, non ne aveva fatto parola con nessuno ed era andato avanti con la sua vita. Ma in generale, scrive Alexander, tenere nascosto un fatto su di sé di questo tipo non è un comportamento ideale.

«Sentiamo soltanto i casi di persone che non riescono a tenerlo nascosto [il fatto di sentire voci], che di solito sono i casi peggiori», ha scritto Alexander. E ha aggiunto che con quel suo paziente pensò che sarebbe stato utile per lui avere persone con cui parlare della propria situazione e che «non avrebbero pensato che fosse pazzo, né avrebbero tentato di rinchiuderlo».

È importante ricordare, ha scritto Alexander criticando il New York Times Magazine per non aver chiarito questo concetto, che esistono casi lievi e casi gravi. E ciononostante, quali che siano i criteri diagnostici di un caso lieve, ci sarà qualcuno che soddisfa quei criteri ma dirà che la sua condizione gli ha rovinato l’esistenza e che il suo dolore è perlopiù ignorato dai medici. Così come, quali che siano i criteri diagnostici di un caso grave, ci sarà qualcuno che soddisfa quei criteri ma dirà di stare bene e accuserà lo psichiatra di volerlo «imprigionare» in un ospedale. Ed è proprio il caso di questi attivisti, secondo Alexander.

«Noi psichiatri abbiamo lo stesso problema ma da una prospettiva diversa», ha scritto Alexander descrivendo una tendenza «istintiva» diffusa tra gli specialisti ad arrotondare per eccesso la gravità dei sintomi nella definizione di qualsiasi caso. Sostanzialmente perché è molto diffusa tra loro l’esperienza di casi che, per quanto lievi potessero apparire inizialmente i sintomi, sono poi lentamente diventati «la premessa di un film horror».

Fatto sta che esistono casi lievi e casi gravi, prosegue Alexander. Ed esistono quindi persone che – come il suo paziente programmatore – probabilmente hanno soltanto bisogno di sostegno e non di assumere farmaci molto potenti e con gravi effetti collaterali. Sostegno che in un mondo ideale dovrebbero ricevere da psichiatri esperti ma che «nel mondo reale» quei pazienti finiscono per cercare altrove perché pensano, in molti casi a ragione, «che il loro psichiatra andrebbe fuori di testa, eccederebbe con le cure e magari li farebbe ricoverare».

Dal momento che la maggior parte dei pazienti malati di mente cronici, scrive Alexander, in un modo o in un altro è già rimasta «traumatizzata» da precedenti esperienze con un sistema psichiatrico non sempre efficiente, per fornire assistenza ai malati spesso si finisce per avere a disposizione soltanto due vie alternative da percorrere. La prima è costringerli a ricevere assistenza anche contro la loro volontà, attraverso decisioni di un tribunale o altro. La seconda è provare a fornire assistenza ottenendo prima la loro fiducia, prendendo cioè il più possibile le distanze dai modi e dagli approcci tipici del sistema psichiatrico, in modo da far sentire i malati al sicuro.

Che è quello che fa Hearing Voices, fa notare Alexander: un’organizzazione che usa proprio come segno di riconoscimento tra i propri membri l’adesione a un modello che nessuno psichiatra che si rispetti approverebbe mai. E che può raccogliere una comunità intorno a questo elemento unificante: la condivisione di un senso di persecuzione tra persone che ritengono gli specialisti incapaci di fornire adeguato sostegno e di impedire che il paziente finisca su una barella per 12 ore al giorno.

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Esiste poi una questione teorica che riguarda quanta e che tipo di attenzione sia o non sia il caso di dare alle allucinazioni nel tentativo di migliorare le condizioni dei malati. «Come psichiatra, cerco di non relazionarmi con i pazienti in merito al significato delle loro allucinazioni, perché le mie parole trasmettono una sorta di autorità scientifica, e la scienza non ha un’opinione su questo fatto», ha scritto Alexander.

L’idea di Hearing Voices è che cercare di ragionare o addirittura di fare amicizia con le proprie voci «funzioni» meglio che cercare di reprimerle, ha scritto Alexander, obiettando che nella maggior parte dei casi psicotici a lui noti per via diretta dialogare con quelle voci non sia una cosa fattibile. Eppure, ha ricordato Alexander, in psicanalisi esistono approcci – come, per esempio, il modello dei Sistemi Familiari Interni – che invitano i pazienti affetti da determinate psicosi a comprendere e avere una specie di conversazione con le proprie sub-personalità, spesso animate da sentimenti come rabbia e vergogna, per raggiungere una riconciliazione con quelle parti e ripristinare un equilibrio psichico.

Un altro aspetto analizzato da Alexander riguardo all’approccio di Hearing Voices, peraltro l’aspetto più criticato da deBoer, è il tentativo del movimento di far sentire «speciali» i propri membri in un qualche senso positivo. Che, entro determinati limiti, è qualcosa che un po’ chiunque fa nella propria vita per rendere sopportabili i momenti meno piacevoli e più difficili, secondo Alexander. Condividendo le esperienze riguardo alle proprie voci, i membri di Hearing Voices si fanno forza e possono pensare di avere una comprensione diversa del mondo, magari più profonda, rispetto a molte altre persone che hanno vite apparentemente migliori delle loro: un pensiero migliore rispetto a pensare di essere dei buoni a nulla o dei malati e basta.

Il punto, aggiunge Alexander, è capire fino a che punto sia lecito sentirsi speciali: «La prudenza sta nel farlo in modi che non calpestino i piedi degli altri, non contraddicano selvaggiamente la realtà e non peggiorino la società». Questa spinta a sentirsi speciali, fa notare Alexander estendendo il discorso a casi normalmente ritenuti non patologici, potrebbe peraltro avere una qualche relazione anche con le crescenti pressioni, esercitate in generale da diverse parti della società, a essere speciali e ad avere qualcosa di distintivo ed eccentrico.

In un contesto del genere, secondo Alexander, non è sorprendente che ci siano persone malate di mente pronte a utilizzare la propria malattia come fattore di eccentricità e stravaganza. «Poniamo a tutti richieste di stranezza talmente irragionevoli che si finisce col cercare tutti di trarre ogni tipo di vantaggio che sia possibile ottenere», ha scritto Alexander, quando sarebbe probabilmente preferibile un contesto in cui non sia richiesta «ai nostri amici, ai nostri partner e persino ai nostri familiari» alcuna stranezza. In cui sia possibile ammettere che basta essere responsabili e compassionevoli, impegnarsi nel proprio lavoro e sostenere gli amici, e che non c’è per forza bisogno di avere una personalità unica.

Finché invece si insisterà sul considerare «le esperienze insolite una misura della validità di una persona, allora ci sarà sempre una pressione a esagerare su quanto sia insolita la propria esperienza». E ci saranno persone che continueranno a cercare di distinguersi attraverso comportamenti sempre più eccentrici e stravaganti, e altre che «alimenteranno un disturbo della personalità».

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L’opinione conclusiva di Alexander è che l’articolo sul New York Times Magazine finisca per fare un cattivo servizio sia a chi si occupa di psichiatria in ambito clinico sia alle tante persone che, senza avere titoli di studio, si occupano di assistenza ai soggetti con problemi mentali. Che è «un lavoro difficile e poco retribuito, svolto da persone che potrebbero essere in difficoltà eppure svolgono lavori straordinari e salvano probabilmente molte vite in situazioni in cui riesco a malapena a immaginare di dover operare», ha scritto Alexander.

Sono persone che lui descrive come «alcune tra le persone migliori e più compassionevoli» che conosca – anche membri di Hearing Voices – e che invece l’articolo di Bergner, secondo Alexander, cerca di mettere in contrapposizione con un sistema che considererebbe l’assunzione di farmaci come l’unica possibile soluzione ai problemi mentali. La stessa obiezione è mossa da Alexander anche verso l’OMS, che accusa di aver appositamente selezionato per la stesura del documento citato dal New York Times Magazine soltanto difensori dei diritti dei pazienti e attivisti convinti che «le sostanze fanno schifo e la psichiatria fa male». Documento che Bergner sembra usare per suggerire che medici ed esperti autorevoli stiano ammettendo che i farmaci non funzionano.

E questo non significa che il sostegno e ogni altra forma di assistenza non farmacologica siano meno rilevanti dei farmaci. Fanno anzi una grande differenza, conclude Alexander, «anche in cose come la psicosi, che ti aspetteresti essere una questione troppo biologica perché cose come quelle abbiano un’influenza». Esistono persone le cui psicosi, a seconda dell’ambiente e dell’assistenza psicosociale ricevuta, possono essere «benigne e compatibili con una vita felice, o violente e incontrollabili». E ci sono casi in cui è necessario assumere medicine, come anche casi in cui le medicine non funzionano tanto bene ma rappresentano un compromesso, per quanto difficile ed eticamente discutibile, tra il comfort del paziente e quello delle persone intorno al paziente.

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Se sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico Italia allo 02 2327 2327 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.

Puoi anche chiamare i Samaritans al numero verde gratuito 800 86 00 22 da telefono fisso o al numero 06 77208977 da cellulare, tutti i giorni dalle 13 alle 22.