Nostalgia di Allegri

«Era attore ammirevole, maestro amato e persona che passava sulla terra leggero, spesso con l’aria di scusarsene. Se n’è andato d’improvviso, senza avvertire nessuno, probabilmente neanche se stesso. Sapiente della commedia dell’arte, ne insegnava lo spirito e la prassi. Sapiente della scena, vi stava con immensa leggerezza: era uno di quegli attori, rarissimi, che sanno trovare l’alba dentro l’imbrunire».

(ANSA/Teatro Stabile di Torino)
(ANSA/Teatro Stabile di Torino)
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Venerdì sera se n’è andato Eugenio Allegri, che era attore ammirevole, maestro amato e persona che passava sulla terra leggero, spesso con l’aria di scusarsene. Se n’è andato d’improvviso, senza avvertire nessuno, probabilmente neanche se stesso. Sapiente della commedia dell’arte, ne insegnava lo spirito e la prassi. Sapiente della scena, vi stava con immensa leggerezza: era uno di quegli attori, rarissimi, che sanno trovare l’alba dentro l’imbrunire.

Scrivo queste righe con un’immensa fatica perché, tra le tante altre cose, Eugenio era anche l’attore per cui ho scritto Novecento. L’avevo visto in una cosetta video, poi in uno spettacolo di Vacis, e avevo finito per cadere incantato. Io gli attori non li sopportavo tanto, mi sembravano sempre troppo, invadevano la terra invece che camminarla, si sporgevano, dilagavano. Lui invece era lievissimo, più spariva più lo sentivi vicino, porgeva con una dolcezza e una forza che di solito non stavano insieme. Non aveva l’aria di fare qualcosa di importante, ma l’impressione era che se solo avesse smesso, così, all’improvviso, il mondo si sarebbe inceppato. Insomma, sembrava uno strumento irresistibile, per il quale valeva la pena di scrivere una musica. Così scrissi Novecento, per lui e Vacis, l’uomo che più di altri, quello strumento, riusciva a farlo suonare.
Era il 1994.
Ora, quello che vale la pena di raccontare è che Allegri tenne a battesimo Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento e poi non smise più di farlo. Sul serio. Forse c’è stato un breve giro di anni in cui lasciò perdere, ma una cosa breve. Ricominciò leggendolo: lui, la sua valigia, il cappotto di cammello e il pianofortino giocattolo, in una specie di reading-spettacolo. Poi i fogli scomparvero e da lì, che io sappia, non si è mai più fermato. Non so se ci sia qualcuno che conosce esattamente il numero di volte in cui s’è messo quel cappotto ed è esploso su una nave dopo aver mortificato Jelly Roll Morton, ma credetemi, è un numero letterario, splendente, poetico. L’allestimento, ci tengo a dire, era sempre lo stesso. La storia era quella, ma intanto Allegri, lui, stava scalando un’intera vita. Chissà com’è parlare di desideri e di paure e farlo a trent’anni, e poi trovarsi a parlarne a sessanta. Capace che le prime volte parlavi per sentito dire, le ultime riaprivi ferite, forse rimpianti. Chissà.
Ad ogni modo, fece così tante volte Novecento che alla fine non c’era nessuno che conoscesse quella storia come lui. Nemmeno io, mi sa. In qualche modo, ci sono pezzi di quel testo che quasi non esistono se non fatti da lui. Il chiodo e il quadro, fran, per dire, quella pagina lì: per me era giusto una scena di raccordo, una vite messa lì per far stare su il tavolo: fatta da lui era teatro, e un teatro destinato a durare. Per non parlare delle cose che io proprio non ho scritto e che con lui in scena si aggiungevano alla storia. Non che aggiungesse parole, questo no, non direi: ma faceva una faccia, accennava un gesto, staccava uno sguardo, e lì dentro si spalancavano mondi. C’è un tal Sam Stull, a un certo punto, e io so solo che faceva il cameriere, e che poi disse una frase, abbastanza insignificante: ma Allegri l’aveva probabilmente conosciuto perché tutte le volte che pronunciava il suo nome si prendeva due secondi per sghembare uno sguardo in cui c’era scritto che quello di cameriere era solo un mestiere di copertura, il mestiere vero era un altro che però adesso qui non è elegante raccontare anche se indubbiamente sarebbe bello farlo e forse un giorno lo farò ma non in questo momento in cui piuttosto è importante raccontare com’è che Novecento avesse un nome così lungo e assurdo. Io ne ho visti di Novecento, in giro per il mondo, e fatti anche da attori formidabili: tutte le volte che passavano su Sam Stull mi veniva nostalgia di Allegri.
Adesso mi verrà anche un sacco di altre volte, e non c’è nulla che si possa più fare a riguardo. Che peccato. Ci ho fatto anche una tournée di Totem, con Eugenio. Leggeva Cyrano, da dio, e qualcos’altro che non ricordo. Ci portavamo sempre un pallone, dietro, e il gioco era riuscire a palleggiare di nascosto, sul palco, un momento che nessuno ci guardava. Lui toccava bene il pallone, aveva l’aria di un dieci un po’ disincantato, o di un’ala destra con il vizio delle carte. Aspettavamo una pausa delle prove, tiravamo fuori il pallone e palleggiavamo con una certa classe. Ci siamo riusciti perfino all’Olimpico di Vicenza, che non è un teatro ma una delicatissima opera d’arte, non puoi neanche starnutire, su quel palco. Noi stoppavamo di petto. In culo il regolamento.
Cavoli, abbiamo smesso di giocare, Alègher. Chi l’avrebbe mai detto, allora?

Alessandro Baricco
Alessandro Baricco

Alessandro Baricco è scrittore e fondatore della Scuola Holden di Torino.

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