Cosa significa il 29 aprile per i neofascisti

Ogni anno a Milano ricordano l'omicidio del giovane Sergio Ramelli, con un rito preciso accompagnato dai saluti romani

Commemorazione in memoria di Sergio Ramelli (Ansa/Matteo Corner)
Commemorazione in memoria di Sergio Ramelli (Ansa/Matteo Corner)
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Ogni anno, il 29 aprile, le organizzazioni della destra neofascista celebrano a Milano il ricordo di Sergio Ramelli, militante del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano, ucciso nella primavera del 1975 da militanti di sinistra. Anche quest’anno CasaPound, Lealtà Azione, Forza Nuova e altri gruppi di estrema destra hanno annunciato un corteo nella zona Città Studi, a est del centro, con partenza alle 19. Prima, di mattina, è prevista una cerimonia a cui partecipa invece la destra istituzionale: quest’anno ci sarà anche Giorgia Meloni, che è a Milano per la conferenza di Fratelli d’Italia al Mico (Milano Convention Centre) in via Gattamelata. La cerimonia a cui partecipano Meloni e il sindaco di Milano Giuseppe Sala si svolge ai giardini intitolati a Sergio Ramelli, tra via Pinturicchio e via Bronzino.

Il vero appuntamento per l’estrema destra però è quello serale. Dopo gli anni delle restrizioni per il coronavirus, i militanti – che nei manifesti in cui viene annunciato il corteo si firmano “i camerati” – tornano a riunirsi. La Questura ha accolto «con riserva» il preavviso della manifestazione, che secondo le indicazioni dovrà svolgersi senza che i partecipanti marcino in modo inquadrato e militare, accompagnati dal suono dei tamburi. Non dovranno essere presenti vessilli fascisti e neonazisti. Sarà vietato, secondo la Questura, anche il saluto romano: ma come avviene ogni anno sotto casa di Sergio Ramelli, in via Amadeo, uno dei leader neofascisti milanesi chiamerà “Attenti!”, e poi scandirà per tre volte il nome “Camerata Sergio Ramelli”, seguito altrettante volte dal grido “Presente” e dal saluto fascista dei partecipanti.

Nel 2019 ci furono tafferugli tra polizia e neofascisti in viale Romagna, lì vicino, guidati dai leader di CasaPound.

In altre occasioni i neofascisti avevano sfilato per le vie di Milano preceduti da croci celtiche e tamburi.

Quando fu aggredito, Sergio Ramelli aveva 19 anni ed era stato iscritto fino a poco tempo prima all’Istituto tecnico Ettore Molinari. La sua appartenenza al Fronte della Gioventù era nota, più volte era stato minacciato e aveva già subito due aggressioni. Si era così iscritto a un istituto privato. Il 13 marzo 1975 attorno alle 13, mentre stava legando il motorino in via Paladini, vicino a dove abitava in via Amadeo, venne aggredito con chiavi inglesi e colpito più volte alla testa. Fu portato all’ospedale Maggiore dove venne sottoposto a un lungo intervento chirurgico.

Poche settimane dopo l’aggressione, il 16 aprile in piazza Cavour, un gruppo di ragazzi di sinistra che tornava da una manifestazione incrociò tre militanti fascisti che stavano facendo volantinaggio. Uno dei tre, Antonio Braggion, militante di Avanguardia Nazionale, entrò nella sua auto Mini Cooper, prese una pistola e sparò. Claudio Varalli, 18 anni, studente dell’Istituto tecnico per il turismo, morì per un colpo di pistola alla testa. Il giorno dopo un grande corteo dei militanti di sinistra si diresse verso via Mancini, dove si trovava allora una sede del Movimento sociale italiano. In corso XXII Marzo, nel corso di violenti scontri, un mezzo dei carabinieri salì sul marciapiede e investì Giannino Zibecchi, insegnante di 28 anni, uccidendolo. Le tensioni e le violenze continuarono per giorni.

Ramelli morì il 29 aprile per le ferite riportate durante l’aggressione. Le indagini appurarono che l’agguato era stato effettuato da due persone sui 18-20 anni. Del gruppo facevano parte anche altri che però non avevano colpito Ramelli. Le indagini si concentrarono sugli studenti del Molinari e più in generale sui militanti di gruppi giovanili di sinistra milanesi.

Sergio Ramelli (Ansa)

L’anno dopo, il 29 aprile 1976, un avvocato e militante del Movimento sociale italiano, Enrico Pedenovi, fu ucciso a colpi di pistola alle 7.45 del mattino in viale Lombardia. Quel pomeriggio doveva essere presente alla commemorazione in onore di Sergio Ramelli. A sparare furono tre esponenti del gruppo terroristico di estrema sinistra Prima Linea. Secondo Sergio Segio, ex militante dell’organizzazione, l’agguato fu deciso come rappresaglia per l’aggressione al giovane di sinistra Gaetano Amoroso, accoltellato il 27 aprile (morì il 30) da un gruppo di neofascisti. L’aggressione avvenne in via Goldoni. A colpirlo fu tra gli altri Gilberto Cavallini, poi entrato nei Nuclei armati rivoluzionari di Valerio Fioravanti e condannato a nove ergastoli, tra cui uno comminato il 9 gennaio 2020 per la strage alla stazione di Bologna.

Per la morte di Enrico Pedenovi furono condannati all’ergastolo Bruno La Ronga e Giovanni Stefan, ritenuti esecutori materiali. Enrico Galmozzi, un terzo membro di Prima Linea che faceva parte del commando, fu condannato a 27 anni di carcere.

Gli autori dell’agguato a Ramelli vennero individuati solo nel 1985 quando alcuni pentiti di Prima Linea dissero ai giudici istruttori Maurizio Grigo e Guido Salvini di aver saputo che l’aggressione al giovane di destra era stata decisa ed eseguita dal servizio d’ordine di Avanguardia Operaia, organizzazione di sinistra, e in particolare dalla struttura di militanti della facoltà di Medicina dell’Università Statale.

Un pentito di Prima Linea disse che del gruppo faceva parte una ragazza di cui conosceva solo il nome, Brunella, che nel 1985 viveva in Svizzera. La donna venne identificata in Brunella Colombelli, che dopo la laurea era andata a lavorare come ricercatrice a Ginevra. Il 14 settembre 1985 quando Colombelli, come faceva spesso, venne in Italia, fu fermata su ordine del giudice Salvini. Dopo una serie di interrogatori, grazie alle sue deposizioni, furono arrestati Claudio Colosio, Franco Castelli, Giuseppe Ferrari Bravo, Luigi Montinari, Walter Cavallari, Claudio Scazza, Marco Costa, Giovanni Di Domenico, Antonio Belpiede, quasi tutti studenti dell’Università Statale nel 1975. Al processo gli imputati affermarono che l’aggressione doveva comportare solo il pestaggio di Ramelli. Disse Marco Costa:

«Prima i fascisti erano un simbolo odiato, ma lì davanti non avevo più un fascista. C’era Ramelli, che era un uomo. E io avvertii anche il peso di quanto stavo facendo, lo avevo provato anche io in precedenza questo sentimento e già intuivo la sofferenza che lui avrebbe provato e che stava già provando. Ma qui comincia la mia colpa, la mia colpa che io ritengo la più grave… perché anche se io a quel punto volevo emotivamente dire “Basta andiamocene via, non ne facciamo niente” e non potevo andare avanti, nonostante questo c’era però questo senso del dovere, di rispetto verso le decisioni prese con gli altri di andare avanti. E andai avanti. Io ho nascosto la mia coscienza in quel momento e ho affidato alla mia ideologia il compito da svolgere».

Disse l’altro aggressore Giuseppe Ferrari Bravo:

«Ricordo che ci fermammo ad aspettare, a me sembrò un’eternità ma forse furono solo attimi. Ricordo un ragazzo che stava posteggiando il motorino e Marco che disse “Andiamo”. Ricordo le grida di Ramelli: “No, no…” mentre mi avvicinavo. Poi la moto cadde, io inciampai. Credo di aver colpito una volta, al massimo due, non so. Poi ricordo le urla di una donna al balcone. Noi fuggimmo e mi accorsi di avere in mano la chiave inglese: avevo paura, la nascosi, ed ebbi la sensazione di non esser riuscito a portare a termine il mio compito.
È difficile descrivere cosa successe poi, quando seppi, ascoltando la radio, che Ramelli era in coma e quando, un mese e mezzo dopo, Montinari mi disse che era morto. Smisi di studiare. Passai un mese e mezzo chiuso in casa senza vedere nessuno. Rimasi a letto per una settimana senza mangiare. Comprai un’infinità di libri di storia del socialismo e di filosofia in cerca di una risposta, ma non la trovai. Vidi forse Costa un paio di volte poi ripresi gli studi e nel giro di un anno recuperai il tempo perso, riuscendo a laurearmi (…). Allora avevamo la presunzione di avere la verità».

Il 16 maggio 1987 Marco Costa fu condannato a 15 anni e sei mesi, Giuseppe Ferrari Bravo a 15 anni, Claudio Colosio a 15 anni; Antonio Belpiede a 13; Brunella Colombelli a 12; Franco Castelli, Claudio Scazza e Luigi Montinari furono condannati a 11 anni. Giovanni Di Domenico fu assolto per insufficienza di prove, Walter Cavallari per non aver commesso il fatto.

In secondo grado le pene furono ridotte perché furono riconosciute le attenuanti di “concorso anomalo” (l’articolo 116 del codice penale dice che «Qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione. Se il reato commesso è più grave di quello voluto, la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave»). Per i due esecutori materiali la pena divenne di undici anni e quattro mesi per Costa e dieci anni e dieci mesi per Ferrari Bravo. La Cassazione confermò poi le condanne.

Il corteo del 29 aprile 2019 (Ansa)

Nelle commemorazioni del 29 aprile, i movimenti neofascisti ricordano anche Carlo Borsani, figura di spicco della Repubblica sociale italiana, rimasto cieco dopo una ferita di guerra in Albania nel 1940. Ebbe ruoli importanti vicino a Mussolini durante i mesi della Repubblica di Salò. Catturato a Milano, fu fucilato dai partigiani il 29 aprile 1945.