I punti fedeltà servono davvero alle aziende?

Un guaio capitato all'imprenditrice nota come Estetista Cinica ha aperto un dibattito su uno dei più antichi e diffusi strumenti del marketing

Piergiorgio Pirrone/LaPresse
Piergiorgio Pirrone/LaPresse

Negli ultimi giorni sui giornali e sui social network si è parlato molto di punti fedeltà per via di una storia che riguarda l’Estetista Cinica, cioè la nota imprenditrice e influencer Cristina Fogazzi. Ultimamente, infatti, per chi faceva acquisti sul sito del suo marchio di cosmetici VeraLab era previsto un accumulo di punti fedeltà (“punti fagiana”, nel suo caso): se ne guadagnava uno ogni 10 euro di spesa e volendo potevano essere convertiti in uno sconto su acquisti successivi. Fino a venerdì i punti accumulati avevano un valore di 50 centesimi l’uno, che è stato poi improvvisamente abbassato a 10: lasciando quindi le acquirenti che non li avevano ancora usati con uno sconto ridotto a un quinto.

Fogazzi ha fatto delle storie su Instagram e ha mandato una newsletter alle sue clienti per spiegare che la modifica era diventata necessaria perché altrimenti le finanze dell’azienda «non avrebbero retto il colpo» e che tutto era nato da un errore. «Qualcuno a un certo punto si è perso uno zero e la valorizzazione è stata fatta a 50 centesimi (anziché a 5, ndr)». Come spesso succede con personaggi e aziende così visibili, è nata una conversazione pubblica sui possibili risvolti e retroscena della vicenda. Estetista Cinica a parte, la storia spiega alcune cose su cosa siano oggi i punti fedeltà e sulla loro utilità per le aziende.

La prima importante distinzione che va fatta è quella tra i punti fedeltà della grande distribuzione e dei negozi fisici e quella degli e-commerce. Per i primi infatti la carta fedeltà ha l’importante funzione di permettere il tracciamento del comportamento degli acquirenti. «Si chiamano ancora carte fedeltà ma sono più legate all’uso dei dati: sono un modo per spingere le persone a usare una carta che permetta di identificarli quando fanno acquisti nei negozi. Per le catene di supermercati per esempio è un grande vantaggio poter tracciare gli acquisti fisici dei singoli clienti» spiega l’esperto di marketing Gianluca Diegoli. Senza la promessa dei punti, i clienti non avrebbero nessun motivo per usare una carta e rendersi riconoscibili ogni volta che fanno la spesa.

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Per gli e-commerce invece questo problema non c’è, perché nel momento in cui ci si registra su un sito per fare un primo acquisto e poi si torna per altri ordini, tutto è già tracciato in modo automatico. Quando un e-commerce decide di adottare come forma di promozione la raccolta punti (che si convertano in denaro o che servano per ottenere dei premi), lo fa solitamente per incentivare chi ha già fatto uno o più acquisti a tornare sul sito per farne altri, approfittando dei vantaggi dati dai punti.

Nel marketing il dibattito sull’efficacia dei punti fedeltà è in corso da anni: ci si chiede se servono davvero a far tornare ad acquistare su un sito persone che altrimenti non sarebbero tornate o se vengano usati per lo più dagli stessi che sarebbero tornati comunque. «Ci sono vari studi che smentiscono la potenza di queste operazioni» dice Diegoli, «e la tendenza nel marketing contemporaneo è quella di usare gli strumenti che ora esistono per incentivare l’acquisto in maniera personalizzata e non dando premi a tutti indistintamente: per esempio dando uno sconto a un utente che non fa acquisti da un po’, ma non a quelli che comprano tutte le settimane».

Nel libro How Brands Grow di Byron Sharp, che è considerato uno dei più importanti sul marketing contemporaneo, l’autore sostiene che i programmi fedeltà siano un esempio di strategia sbilanciata a favore degli acquirenti più fedeli a un marchio. E dice che, pur essendo molto popolari e utilizzati dalle aziende, è difficile trovare casi di grande successo o studi accademici che documentino grandi guadagni in termini di mercato.

Dovendo spiegare il motivo per cui la promozione era stata cambiata improvvisamente e con effetto retroattivo per chi non aveva ancora usato i punti, Estetista Cinica ha parlato delle perdite che “punti fagiana” così generosi avrebbero portato al fatturato dell’azienda. Ha spiegato che essendo i punti in possesso delle acquirenti 10 milioni e valendo ciascuno 50 centesimi (fino a venerdì), l’azienda avrebbe avuto un debito totale di 5 milioni di sconti da erogare. L’azienda di Fogazzi ha un fatturato di circa 50 milioni di euro all’anno ed è stato valutato che quella cifra avrebbe avuto un impatto insostenibile sull’azienda.

Alcuni hanno ipotizzato che l’Estetista Cinica possa aver causato alla sua azienda un guaio ancora maggiore correggendo l’errore, soprattutto per via del danno di immagine che tutto questo le potrebbe procurare. Il primo motivo è che questo tipo di promozioni vengono raramente usate dal 100 per cento dei clienti di un marchio e quindi quei 5 milioni non sarebbero stati effettivamente 5 milioni, ma probabilmente meno della metà. Soprattutto perché per legge questo tipo di raccolte punti deve avere una durata e una scadenza entro cui chi non ha usato i punti perde il diritto allo sconto. La seconda cosa da considerare è che si tratta di sconti che possono essere usati solo nel momento in cui si fanno ulteriori acquisti: per ogni sconto fatto da VeraLab, quindi, ci sono utenti che spendono altri soldi per approfittarne.

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Un’operazione che molte aziende fanno in questi casi per essere sicure di non avere perdite eccessive è impostare un minimo di spesa obbligatorio per chi vuole usare i punti: in questo modo si è certi che a ogni sconto usato corrisponda una spesa sufficiente a compensarlo e far comunque guadagnare qualcosa all’azienda. Nel caso di Fogazzi forse questa soluzione sarebbe stata meno drastica e meglio vista rispetto alla soluzione di ridurre retroattivamente il valore di uno sconto già accordato. Da parte sua Fogazzi ha detto di aver ricevuto solo 15 reclami e per il resto di aver visto molto supporto da parte delle sue follower (più di 900mila su Instagram).

Volendo fare un paragone con altri casi, Diegoli fa notare che i grandi e-commerce non hanno quasi mai programmi fedeltà. «Amazon per esempio funziona al contrario: fa pagare prima l’abbonamento a Prime, che costringe poi a comprare sul sito per rientrare dell’investimento», spiega. «Booking ha un programma fedeltà che si chiama “Genius Level”, ma non è pubblico e viene personalizzato sull’utente».