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  • Domenica 30 gennaio 2022

Il delitto di Cogne, vent’anni fa

La morte di Samuele Lorenzi e le indagini sulla madre, Annamaria Franzoni, rimangono impresse nella storia recente d'Italia e cambiarono il modo in cui la televisione tratta i casi di cronaca

di Stefano Nazzi

La casa della famiglia Lorenzi a Cogne presidiata dai carabinieri (Foto Lapresse)
La casa della famiglia Lorenzi a Cogne presidiata dai carabinieri (Foto Lapresse)

Il 30 gennaio di vent’anni fa, alle 8.37, giunse una telefonata alla centrale del 118 della Valle d’Aosta. Al telefono c’era una donna, chiamava da Cogne, un paese di meno di 1400 abitanti lontano 26 chilometri dal capoluogo. Disse che suo figlio di tre anni stava vomitando sangue, che aveva bisogno d’aiuto.

Il bambino si chiamava Samuele Lorenzi: fu dichiarato morto all’ospedale di Aosta alle 9.55 della stessa mattina. Il medico legale scrisse, come causa della morte: «Grave trauma cranico della regione temporo-parietale dell’ovoide cranico; diciassette ferite lacerocontuse al capo (…) ferite di natura da punta e taglio in regione frontale destra e regione frontale sinistra e regione parietale destra e sinistra con sottostanti sfondamenti ossei».

La madre di quel bambino, Annamaria Franzoni, che aveva chiamato il 118 quella mattina, fu arrestata un mese e mezzo dopo. Fu processata, giudicata colpevole dell’omicidio del figlio e condannata a 16 anni di carcere. Nel settembre del 2018 ha finito di scontare la pena: i 16 anni sono diventati meno di 11 grazie a un indulto e ai benefici accumulati durante il periodo di detenzione.

La vicenda giudiziaria del delitto di Cogne è definitivamente conclusa.

Ciò che accadde quel giorno, nelle settimane e nei mesi successivi, resta però impresso nella storia recente d’Italia. Il “caso Cogne” occupò quasi interamente lo spazio delle trasmissioni televisive pomeridiane e serali per settimane. Da allora in poi è cambiato il modo in cui i media trattano i grandi casi di cronaca nera, e lo schema si è ripetuto in moltissime altre occasioni: basta pensare ai casi di Garlasco, Perugia, Avetrana, Brembate.

Criminologi, psicologi, personaggi televisivi, avvocati si sono alternati di trasmissione in trasmissione, a volte sapendo poco del caso di cui si parlava, spesso con tesi strampalate e senza riscontri.

Una puntata di Porta a Porta dedicata al caso di Cogne (©Cosima Scavolini/Lapresse)

La puntata di Porta a Porta del 14 marzo 2002, giorno dell’arresto di Annamaria Franzoni, fu vista da otto milioni e mezzo di persone con picchi vicini agli 11 milioni. Solo la puntata dell’11 settembre con l’attacco alle Torri Gemelle nel 2001 ebbe più spettatori. Divenne una celebrità anche il Giudice per le indagini preliminari, Fabrizio Gandini, che indagò sul caso. Carlo Federico Grosso, primo avvocato di Franzoni, intervistato dal Corriere della Sera disse: «Il caso di Cogne ci ha insegnato come i media facciano parte della strategia difensiva. Di quella tragedia conosciamo tutto: luoghi, protagonisti, emozioni».

Con l’avvocato Carlo Taormina, che dopo qualche mese sostituì Grosso, la strategia di spettacolarizzazione divenne ancora più evidente e la televisione venne usata ancora più smaccatamente. Annamaria Franzoni fu intervistata a Porta a Porta, su RaiUno e al Maurizio Costanzo show, su Canale 5. Si proclamò sempre innocente. Davanti al pubblico televisivo pianse più volte e il 16 luglio 2002 rivelò di aspettare un figlio. L’annuncio fu fatto durante una puntata speciale del Maurizio Costanzo show.

Il caso divise giornalisti, sociologi, psichiatri. I medici che svolsero la perizia psichiatrica per il processo d’appello formularono l’ipotesi che Annamaria Franzoni avesse ucciso perché si trovava, quella mattina, in uno «stato crepuscolare orientato». In pratica, una sorta di trance transitoria, un disturbo conosciuto e citato dalla letteratura scientifica ma molto raro e, soprattutto, quasi impossibile da provare. Fu paragonato a uno stato di dormiveglia.

Secondo la perizia che portò alla condanna a 16 anni di reclusione, Annamaria Franzoni non ricordava assolutamente nulla di cosa avvenne nei minuti in cui colpì suo figlio. Uccise ma poi dimenticò tutto.

Sia Annamaria Franzoni sia il marito, Stefano Lorenzi, sono originari del bolognese. Si trasferirono a Cogne, frazione Montroz, nel 1993. Stefano Lorenzi aveva un’impresa di impianti elettrici, lei era casalinga. Nel 2002 avevano due figli: Samuele, di tre anni, e Davide, di sette. Vivevano in una casa a due piani, una villetta. Sotto c’era la zona notte, sopra la zona giorno, 100 metri quadrati in tutto. Quella villetta fu ricostruita in scala nello studio di Porta e Porta, il famoso “plastico di Cogne”.

Annamaria Franzoni (Ansa Archivio Alessandro Contaldo)

La casa fu dissequestrata dalla magistratura dopo 11 anni, nel 2013. L’anno seguente l’avvocato Carlo Taormina ne ottenne il pignoramento dalla Corte d’appello di Torino perché la famiglia di Annamaria Franzoni gli doveva 275mila euro in parcelle non pagate e arrivate, con gli interessi, a 450mila. Ora la casa è tornata nella disponibilità dei Lorenzi: la famiglia e l’avvocato hanno risolto il loro contenzioso.

La sera del 29 gennaio 2002 a casa Lorenzi c’era una coppia di amici. Annamaria Franzoni, a un certo punto, nel corso della serata, accusò un malessere: formicolio agli arti e nausee. Lo stesso malessere si ripresentò alle 5 del mattino, il marito si preoccupò e chiamò il 118. Dopo mezz’ora arrivò una dottoressa che non riscontrò nulla di serio, parlò di un possibile principio di influenza. Interrogata dai carabinieri la dottoressa disse poi che Annamaria Franzoni non aveva nulla, che stava bene.

Alle 7.30 del mattino Stefano Lorenzi, dopo aver fatto colazione con la moglie, uscì di casa per andare al lavoro. Alle 8.16 Franzoni uscì a sua volta per accompagnare il figlio Davide alla fermata del bus scolastico. Il bambino era già fuori, stava girando in bicicletta nei dintorni della casa. Franzoni disse poi che uscendo aveva portato Samuele nel letto matrimoniale su cui dormivano i genitori perché stava piangendo. Alle 8.20 arrivò il bus, Davide e un’altra bambina salirono a bordo. Gli orari precisi vennero ricostruiti grazie alle testimonianze di chi quella mattina vide Annamaria Franzoni e il figlio Davide. Alle 8.24 la donna, dopo aver lasciato la bicicletta di Davide all’esterno, salì le scale che portano al primo piano.

Secondo quanto lei stessa ricostruì con i magistrati, entrò in casa, chiuse la porta a chiave, si tolse le scarpe, indossò gli zoccoli e scese nella camera matrimoniale dove aveva lasciato Samuele, che in quel momento era nel letto sotto la coperta. Franzoni tolse la coperta e vide che la testa di suo figlio era coperta di sangue, così come era intriso di sangue anche il  letto. Guardandosi intorno, sempre secondo la sua ricostruzione, scoprì che anche le pareti e il soffitto erano piene di schizzi. Franzoni aprì la finestra e chiamò urlando la vicina di casa, Daniela Ferrod, poi provò a telefonare al marito dall’apparecchio fisso senza riuscire a prendere la linea. Salì quindi al piano di sopra e telefonò ad Ada Satragni, medico di famiglia e psichiatra: dopo la nascita di Samuele aveva prescritto alla Franzoni blandi antidepressivi per una depressione post partum. Franzoni disse di non aver mai preso quei farmaci.

Alle 8.27 ci fu la telefonata al 118:

118: Pronto

Franzoni: Mio figlio ha vomitato sangue, venite subito

118: Allora con calma, cosa vuole che le dica? Abbia pazienza

Franzoni: Abito a Cogne

118: Ecco, Cogne dove?

Franzoni: Frazione Montroz

118: Signora, con calma

Franzoni: Cosa devo fare?

118: Il numero civico?

Franzoni: La prego, sta male

118: Signora con calma, allora Montroz

Franzoni: A mio figlio sta venendo un attacco di panico. Sta vomitando. Non respira. Dovete venire.

118: Signora, allora intanto se vomita…

Franzoni: È tutto insanguinato, ha vomitato tutto il sangue…Non respira, vi prego

118: Arriviamo subito, tenga il telefono libero

Poi Annamaria Franzoni chiamò la ditta del marito, disse alla segretaria di avvertirlo che Samuele era morto, poi si corresse e disse di avvertirlo solo che stava male.

Arrivò la vicina di casa, Daniela Ferrod, che entrò nella stanza e vide che Samuele si lamentava, era ancora vivo. Arrivò anche la dottoressa Satragni, che pulì il viso del bambino con dell’acqua e decise di portarlo fuori per accelerare le operazioni di soccorso. Arrivò l’elicottero del 118, il dottor Leonardo Iannizzi, il medico di servizio, disse che il bambino era adagiato fuori casa, avvolto in una coperta e poggiato su un cuscino. Disse poi di essere rimasto sconvolto dalla lesione, ampia con bordi netti: «Usciva materia cerebrale», testimoniò. Poi il medico e un soccorritore entrarono nella camera da letto. Dissero ai magistrati di essere rimasti impressionati dalla quantità di sangue sulle pareti e sul letto.

Arrivarono altri vicini, alle 9.30 giunse anche Stefano Lorenzi. Poco dopo arrivarono i carabinieri. Un militare affermò poi di aver sentito Annamaria Franzoni dire al marito, mentre erano seduti sul divano: «Poi ne facciamo un altro di figlio?». La donna ha sempre negato di aver pronunciato quella frase e il marito ha confermato la sua versione.

I carabinieri sigillarono la casa. Venne scartata subito l’ipotesi di morte per cause naturali: la dottoressa Satragni in un primo momento disse che poteva trattarsi di un caso abnorme di aneurisma cerebrale. Nessuno tra i vicini aveva notato estranei nei pressi dell’abitazione o più generalmente in zona. Non c’erano segni d’effrazione. Non furono trovate tracce o impronte di estranei. Annamaria Franzoni disse ai carabinieri che mentre accompagnava Davide al bus scolastico aveva lasciato la porta di casa aperta.

Il RIS (Reparto investigazioni scientifiche) di Parma, che analizzò la casa, stabilì che non c’era nessuna traccia di manomissione, armadi aperti o cassetti frugati. Sul letto, dove era Samuele, c’era il pigiama di Annamaria Franzoni. Sia sulla giacca sia sui pantaloni erano presenti molte tracce di sangue. L’accusa sostenne quindi che chi aveva ucciso Samuele Lorenzi indossava quel pigiama: la prova era data dalla morfologia delle macchie di sangue. Secondo la difesa invece il pigiama si era sporcato semplicemente rimanendo sopra al letto, dove Annamaria Franzoni lo aveva lasciato. I tecnici del RIS affermarono anche che l’aggressore, nel momento in cui sferrava i colpi, era in posizione verticale sopra al bambino: probabilmente in ginocchio sul letto, lo immobilizzava tra le sue gambe: tutte le macchie seguivano infatti la stessa traiettoria.

Il RIS utilizzò, per analizzare le tracce di sangue sul soffitto e sulla parete, la bloodstain pattern analysis, un metodo che studia la morfologia degli schizzi di sangue. La perizia stabilì che l’aggressore era solo nella stanza: un’altra figura presente avrebbe creato una zona pulita in corrispondenza del proprio corpo.

Oltre al pigiama, durante le indagini e poi nel corso dei processi, furono soprattutto due gli elementi fondamentali: la porta di casa e gli zoccoli. La stessa Annamaria Franzoni disse che quasi sempre, quando usciva di casa lasciando Samuele da solo, chiudeva la porta a chiave per motivi di sicurezza. Quella mattina disse invece di averla lasciata aperta per non svegliare il bambino con lo scatto della serratura. Eppure, fece notare l’accusa, c’era il televisore acceso, quindi questa motivazione sembrò subito piuttosto debole. Ada Satragni sostenne poi che durante le fasi concitate dei soccorsi aveva chiesto a Franzoni se la porta di casa fosse rimasta aperta o chiusa e che lei le aveva risposto: «Era chiusa, non sono stupida, so bene quello che faccio». Franzoni negò di aver detto quella frase.

Gli zoccoli erano sporchi di sangue, sia sotto la suola sia nella parte superiore. La donna disse di esserseli infilati appena rientrata in casa, prima di trovare il figlio coperto di sangue, e di averli indossati durante tutte le fasi dei soccorsi. Sia Satragni sia Ferrod dissero invece che in quelle fasi Franzoni indossava le scarpe. Fu un elemento fondamentale durante il processo. Se, come sostenne Franzoni, li avesse indossati   mentre soccorreva suo figlio, era plausibile che gli zoccoli si fossero sporcati in quei momenti. Ma se, come dissero Satragni e Ferrod, Annamaria Franzoni mentre soccorreva Samuele indossava le scarpe, significava che gli zoccoli si erano macchiati in una fase precedente.

Un’altra ipotesi, e cioè che un estraneo fosse entrato in casa, si fosse tolto le scarpe, avesse indossato gli zoccoli della Franzoni, colpito Samuele, e infine tolto gli zoccoli e rimesso le scarpe, sembrò inverosimile.

I rilievi nella casa di Cogne (©GigiNewsPress/Lapresse)

Le stesse considerazioni riguardarono il pigiama. La perizia commissionata dalla procura stabilì che l’assassino indossava almeno i pantaloni del pigiama. Quindi, secondo l’accusa, era inverosimile che un estraneo, entrato in casa, si fosse tolto i propri pantaloni, avesse indossato quelli del pigiama di Annamaria Franzoni, e dopo aver colpito Samuele, si fosse svestito, avesse rimesso i propri i pantaloni, lasciato quelli del pigiama sul letto e fosse uscito di casa senza essere visto da nessuno. La difesa, va ricordato, ha sempre sostenuto che le macchie erano finite sul pigiama mentre questo era appoggiato sul letto.

L’arma del delitto non fu mai trovata. Nelle motivazioni della sentenza la Corte di Cassazione, come riporta il libro Il delitto di Cogne, di Jacopo Pezzan e Giacomo Brunoro, scrisse che era più corretto parlare di mancata «individuazione» dell’arma, piuttosto che di mancato «reperimento». Infatti i giudici affermarono di non escludere che fosse stato usato un oggetto presente nell’abitazione, «reso non identificabile in seguito all’eliminazione di ogni utile traccia».

La mancanza dell’arma del delitto fu un elemento su cui la difesa puntò molto: come avrebbe potuto Annamaria Franzoni far sparire l’arma in tempi così ristretti? Non si era allontanata da casa. L’assassino doveva essere, secondo la tesi difensiva, per forza una persona che era entrata e poi si era allontanata portando con sé l’arma. Franzoni in uno degli interrogatori davanti al pubblico ministero fece il nome, come possibile assassina, di Daniela Ferrod, la prima persona che aveva chiamato quella mattina dopo aver trovato Samuele coperto di sangue.

Annamaria Franzoni venne arrestata con l’accusa di omicidio volontario il 14 marzo 2002 su ordine di Fabrizio Gandini, giudice per le indagini preliminari di Aosta. Il 30 marzo venne scarcerata dal tribunale del riesame di Torino che giudicò labili gli elementi a suo carico. La procura però era ormai convinta della colpevolezza della donna. La convinzione si basava su alcuni elementi: nessun estraneo era stato notato nella zona; nessuno poteva indossare pigiama e zoccoli della donna, colpire Samuele, indossare nuovamente i propri vestiti, lavarsi senza lasciare alcuna traccia e uscire in quei pochi minuti; nessuno poteva sapere che quella mattina Annamaria Franzoni non avrebbe chiuso la porta a chiave; i 17 colpi inferti al bambino denotavano, secondo la procura, una crisi di rabbia incontrollata. Se fosse stato un estraneo a entrare per uccidere il bambino sarebbero serviti molti meno colpi.

La difesa sostenne ovviamente tesi opposte. Secondo perizie commissionate dai legali, l’aggressore non aveva agito in ginocchio sul letto ma standone al lato, così il sangue era finito sul pigiama appoggiato a terra; gli zoccoli si erano macchiati durante le fasi di soccorso. Secondo la difesa poi l’orario della morte doveva essere fissato senza dubbio tra le 8.16 e le 8.24 nei minuti in cui Franzoni era fuori per accompagnare Davide al bus scolastico, mentre per la procura la donna poteva aver colpito il figlio prima di uscire di casa, cioè prima delle 8.16. Secondo la difesa otto minuti erano un tempo sufficiente perché un estraneo si fosse introdotto in casa, avesse ucciso Samuele e poi fosse fuggito.

Infine, la difesa contestò l’ipotesi della crisi di rabbia, avanzando la convinzione che il bambino non fosse stato colpito 17 volte ma circa la metà.

Nei due anni che precedettero il processo, lo scontro tra difesa e procura continuò a distanza. Nel luglio del 2002 la famiglia volle aggiungere alla squadra della difesa l’avvocato Carlo Taormina, che durante una trasmissione tv aveva accusato la procura di Aosta di «incapacità professionale» e aveva chiesto al ministro della Giustizia un’ispezione in procura per verificare le competenze degli inquirenti. In quell’occasione Taormina se la prese anche con i carabinieri del RIS, accusando il loro ufficiale di non saper fare molto altro che «sfoderare grandi sorrisi nelle trasmissioni televisive».

L’avvocato Grosso abbandonò l’incarico, Taormina rimase l’unico avvocato difensore: era stato scelto dalla famiglia di Annamaria Franzoni perché più aggressivo. Le apparizioni della donna in trasmissioni televisive aumentarono e, parallelamente, si intensificò il lavoro di detective privati per individuare elementi che potessero spostare l’attenzione e le accuse su altre persone, soprattutto sui vicini di casa.

Intanto nelle trasmissioni televisive si continuava a dibattere. Si parlò a lungo di ipotesi alternative, come quella dell’omicidio premeditato come vendetta nei confronti dei coniugi Lorenzi da parte di qualche abitante di Cogne. Non venne mai però suggerito il motivo che avrebbe dovuto fare scattare questo desiderio di vendetta. Si parlò di un ladro, ma in casa non mancava nulla. Poi ci furono le ipotesi più assurde, da quella di un amante segreto di Annamaria Franzoni che sarebbe stato visto da Samuele a quella della setta satanica.

Uno stimato neurologo e medico legale, Giovanni Migliaccio, sostenne che la morte di Samuele poteva essere stata causata da un aneurisma fulminante che aveva provocato un forte pressione endocranica con violente scosse epilettiche e conseguente edema cerebrale: le contrazioni dovute alla crisi epilettica avrebbero fatto sbattere la testa del bambino contro la spalliera del letto e contro il comodino.

Nacquero anche diverse fake news. Girò a lungo la notizia falsa, che in parte resiste ancora oggi, che Annamaria Franzoni fosse protetta da entità potenti in quanto parente di Romano Prodi. La moglie dell’ex presidente del Consiglio si chiama infatti Flavia Franzoni, ma non esiste nessun rapporto di parentela, nemmeno alla lontana.

Girò anche la diceria che i Lorenzi fossero a Cogne perché lui era un collaboratore di giustizia, testimone nel caso della banda della Uno bianca che aveva agito in Emilia-Romagna tra il 1987 e il 1994. Ovviamente anche questa notizia era inventata.

Annamaria Franzoni venne rinviata a giudizio e scelse il rito abbreviato, la formula che prevede uno sconto di pena di un terzo in caso di condanna. La formula prevede che si venga giudicati da un solo giudice, il Gup, Giudice per l’udienza preliminare, e che venga saltata l’istruttoria dibattimentale, cioè la fase che prevede la formazione delle prove nel contraddittorio tra accusa e difesa davanti ai giudici. Nel rito abbreviato l’imputato viene giudicato sulla base dei risultati delle indagini condotte dalla procura.

L’avvocato Carlo Taormina (Contaldo/Ansa)

Il 19 luglio 2004 Annamaria Franzoni venne condannata a 30 anni di reclusione: senza lo sconto del rito abbreviato la pena sarebbe stata l’ergastolo. Non venne riconosciuto nessun vizio di mente e d’altra parte la stessa Franzoni aveva sempre rifiutato di percorrere la strada dell’incapacità di intendere e di volere. Il giudice dell’udienza preliminare Eugenio Gramola scrisse nelle 90 pagine di motivazioni della sentenza che Annamaria Franzoni «ha avuto tutto il tempo occorrente a uccidere, a togliersi gli indumenti (…) a lavarsi e a nuovamente riprendere freddezza e razionalità tali da potersi rendere conto che, commesso il fatto, la priorità era costituita dal non consentire che venisse accertata la propria penale responsabilità».

Scrisse anche che la donna non aveva dato segno di «alcun pentimento, nessuna compassione: anzi si è immediatamente preoccupata di chiedere al marito di fare un altro figlio, senza nemmeno seguire in ospedale Samuele, che pure ancora respirava».

Dopo il processo, con una mossa concordata con l’avvocato Taormina, i coniugi Lorenzi presentarono una denuncia contro un vicino di casa, Ulisse Guichardaz, portando a sostegno della loro tesi una serie di indizi basati soprattutto sulla stranezza di alcuni comportamenti dell’uomo. Guichardaz venne indagato e interrogato più volte ma non si arrivò a nulla. Nel 2009 i coniugi Lorenzi furono condannati in primo grado per calunnia nei confronti dell’uomo ma il reato andò poi in prescrizione.

Durante il processo, chiamato “Cogne bis”, emerse anche una brutta storia di falsificazione delle prove. L’avvocato Taormina aveva ordinato una perizia di parte nella casa dei Lorenzi: saltarono fuori un’impronta sulla maniglia della porta della camera da letto e tracce nel garage. L’impronta e le tracce furono poi utilizzate nella denuncia contro Guichardaz. Secondo la Procura di Torino erano però state apposte da collaboratori di Taormina, e in particolare da un fotografo svizzero, per essere utilizzate nella denuncia contro il vicino di casa «al fine di richiedere alla magistratura ulteriori perizie sulle impronte e sulle tracce da loro stessi apposte». Secondo la procura i coniugi Lorenzi «pur sapendolo innocente, hanno accusato Ulisse Guichardaz dell’omicidio del piccolo Samuele».

Il 16 novembre 2005 cominciò a Torino il processo d’appello per la morte di Samuele Lorenzi. La sentenza arrivò il 27 aprile 2007. La pena fu ridotta a 16 anni con la concessione di attenuanti generiche. Nelle motivazioni della sentenza il giudice scrisse che la causa scatenante di quello che definì un «massacro» risiedeva «in un conflitto interiore che aveva radice nell’ambito familiare». In particolare, nella «difficile gestione da parte sua dei due figli bambini, gestione caratterizzata da sopraffaticamento e da stress». In pratica Franzoni, secondo il giudice, soffriva di un disturbo psicologico che le provoca forti crisi ansiose.

Le motivazioni parlarono di uno scontro di testardaggini: quella di «un bambino ipermotorio e quella di una madre che è portata a voler raggiungere a tutti i costi i risultati che si è prefissata». Lo scatto di rabbia di Annamaria Franzoni fu provocato, secondo le motivazioni della sentenza, dalla ribellione del bambino che si era svegliato, piangeva e voleva scendere dal letto per seguire la mamma. Questo provocò «la reazione violenta dell’imputata, ansiosa, sofferente, stanca ed arrabbiata, in presenza di un discontrollo, favorito dallo stato ansioso e dall’indicato fattore scatenante, di natura emotigena».

Le motivazioni citarono la perizia psichiatrica che parlava di “stato crepuscolare orientato”: «La diagnosi», era scritto, «non è stata formulata in termini di conclusiva certezza ma unicamente come ipotesi maggiormente plausibile e compatibile con l’assetto di personalità della Franzoni e con la verosimile presenza, in costei, di un conflitto interiore in cui il polo nascosto poteva essere costituito dalla preoccupazione nutrita per la salute di Samuele a seguito peraltro della puntualizzazione che le personalità come quella della Franzoni affette da disturbi d’ansia con fenomeni di conversione somatica e caratterizzate da componenti isteriche non rientrano, in quanto tali, nel novero dei soggetti classificabili come affetti da vizio di mente».

Persone in coda, a Torino, per assistere all’ultima udienza del processo d’appello ad Annamaria Franzoni (ANSA/DEB)

La Corte di Cassazione confermò la sentenza il 21 maggio 2008. Quella stessa sera i carabinieri arrestarono Annamaria Franzoni prelevandola dalla casa di famiglia a Ripoli Santa Cristina, in provincia di Bologna, e conducendola al carcere bolognese della Dozza.

Dopo sei anni di carcere, il 26 giugno 2014, Annamaria Franzoni venne scarcerata grazie a una perizia che ne escludeva la pericolosità sociale. Già da qualche mese aveva la possibilità di lavorare all’esterno del carcere. Le fu concesso di continuare a scontare la pena agli arresti domiciliari pur continuando a lavorare per una cooperativa sociale. Da settembre del 2018 Annamaria Franzoni è libera.

Il 4 marzo 2007 la donna aveva tolto l’incarico a Carlo Taormina. Quando l’avvocato fece causa per il pagamento delle parcelle arretrate, i Lorenzi lo denunciarono a loro volta chiedendo un risarcimento di 200mila euro per averli coinvolti nel pasticcio del cosiddetto processo Cogne bis (falsificazione di prove) che si tradusse, scrisse la nuova avvocata, Paola Savio, in «un ulteriore calvario giudiziario e mediatico e, per la Franzoni, in una ulteriore sentenza di condanna».

A Natale del 2021 Annamaria Franzoni, con il marito Stefano e i figli Davide e Gioele, è tornata per la prima volta dopo vent’anni nella casa di Cogne, dove la famiglia ha trascorso le vacanze di fine anno.