La procura di Belluno non riesce a identificare chi ha insultato Assia Belhadj su Facebook

Sia perché negli uffici non ha accesso al social network, sia – dice – perché gli Stati Uniti non collaborano

Assia Belahdj (foto tratta dal suo profilo Facebook)
Assia Belahdj (foto tratta dal suo profilo Facebook)

La notizia secondo cui l’indagine sugli insulti razzisti ricevuti online dalla scrittrice e mediatrice culturale italo-algerina Assia Belhadj sarebbe stata archiviata perché la procura di Belluno non disponeva di un accesso a Facebook in ufficio – attraverso cui identificare i responsabili – è stata diffusa e commentata negli ultimi giorni, ma «la vicenda è più complessa» spiega l’avvocato Enrico Rech, che assiste Belhadj. «E comporta riflessioni e domande che vanno al di là di quella frase che ha accompagnato la decisione di archiviare».

La vicenda era iniziata nell’agosto 2020, quando Belhadj si candidò in Veneto alle elezioni amministrative in una lista di centrosinistra. Come spiega Rech, «Belhadj è molto nota, vive in Italia da 16 anni, è responsabile dell’Osservatorio italiano contro la discriminazione di culto, nonché presidente del Movimento delle donne musulmane d’Italia. È traduttrice per istituzioni venete, e anche per la Procura, ha scritto un libro: Oltre l’hijab. Una donna da straniera a cittadina edito dalle edizioni Bellunesi nel mondo».

Per annunciare la sua candidatura Belhadj pubblicò sul suo profilo Facebook una foto con il velo e l’invito a votarla, ricevendo però decine di insulti razzisti e anche minacce. Dopo 15 giorni, Rech presentò una denuncia alla Procura di Belluno. «Nell’aprile del 2021», dice l’avvocato, «arrivò dal Pubblico Ministero la richiesta di archiviazione perché i responsabili di insulti e minacce non erano individuabili». Belhadj e Rech si opposero alla richiesta chiedendo allora alla Procura di contattare direttamente la società di Facebook per avere i dati di chi aveva scritto gli insulti e le minacce. Fu a quel punto che arrivò la bizzarra risposta della procura: «La rete in uso all’ufficio non consente l’accesso a Facebook».

«Si tratta di una nota della polizia giudiziaria allegata alla decisione di archiviazione» dice Rech. «È stato spiegato che prima queste indagini venivano fatte da un agente in servizio in Procura che però agiva con il suo profilo privato, sul suo computer».

La pubblicazione di quella frase ha provocato un po’ di discussioni e polemiche, motivo per cui il procuratore di Belluno Paolo Luca ha detto in una nota: «In relazione alle notizie apparse sulla stampa secondo le quali il procedimento sarebbe stato archiviato perché la Procura non ha i social si comunica che per i reati di diffamazione esistono rogatorie internazionali su cui gli Stati Uniti hanno inviato una nota nel 2016».

Il procuratore fa riferimento al fatto che negli Stati Uniti – dove ha sede Facebook – la diffamazione non è un reato come in Italia: le frasi scritte su Facebook e ritenute diffamanti sono protette dal diritto di libertà di espressione, ai sensi del Primo Emendamento della Costituzione. Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti respinge così regolarmente le richieste di rogatorie internazionali che riguardano la diffamazione. Concludeva il procuratore: «Le indagini non hanno consentito di identificare gli autori di quei post. Mancavano gli elementi per giungere ad identificare gli autori in modo chiaro. A queste indagini hanno lavorato la Digos e la Polizia postale. Il Gip ha accolto la richiesta di archiviazione».

La procura, insomma, ha chiarito di aver fatto le sue indagini, pur avendo ammesso in precedenza di avere avuto dei problemi che apparentemente avevano impedito di accedere a Facebook, per via delle limitazioni della rete internet dell’ufficio della procura. Alla richiesta di Belhadj di ottenere le informazioni per identificare i profili – come gli indirizzi email – direttamente da Facebook, la procura ha spiegato invece che non era possibile per via del diverso rilievo penale del reato di diffamazione nei due paesi.

«Noi abbiamo il massimo rispetto della Procura e della Polizia Giudiziaria di Belluno, competenti e serissime», dice Rech, «però mi chiedo come mai altrove, in altre indagini, si riesca a risalire agli autori di insulti e minacce sui social network». Belhadj ha scritto su Facebook:

«Chi doveva decidere ha deciso che le più di 100 persone che si sono permesse di offendermi, prendermi in giro, minacciarmi, deridere me e la mia religione, chiamare “straccio” il velo che porto, dirmi che mi devo curare, associare la mia persona all’ISIS, darmi della medievale, eccetera, non possono essere processate perché non si riesce a risalire alla loro identità e non si riesce a risalire alla data di pubblicazione dei post (seppure ho denunciato che sono stati pubblicati nei 15 giorni successivi alla mia candidatura).

A nulla è servito oppormi alla iniziale richiesta di archiviazione del PM. Non è servito fare notare come la Procura ha scritto che non riescono a fare indagini sui profili Facebook perché “la rete in uso all’ufficio non consente l’accesso a Facebook” e che in passato queste indagini venivano svolte da personale che usava il proprio computer privato e il proprio profilo Facebook personale. E a nulla è servito spiegare al giudice come ogni profilo Facebook debba indicare un indirizzo email al momento di iscriversi e che bastava forse cercare a chi appartenevano questi indirizzi per trovare chi pubblicava su Facebook quelle bestialità».

Rech e Belhadj non possono più fare niente,  secondo l’avvocato «bisogna però rendersi conto di tutte le implicazioni di questa decisione. D’ora in poi si potrà insultare e minacciare chiunque sui social network perché non è possibile risalire a chi è l’autore di quelle minacce?».