• Media
  • Lunedì 11 ottobre 2021

Si usano sempre meno il rosa e il blu nei grafici coi dati di donne e uomini

Istituti statistici e giornali provano da tempo a superare gli stereotipi e le discriminazioni di genere, con risultati alterni

Ogni anno l’Istat, l’istituto nazionale di statistica, pubblica la classifica dei nomi più diffusi tra i neonati e le neonate: è costruita in modo molto semplice, con un banale di conteggio di quanti Francesco o Giulia sono nati negli ultimi mesi, eppure è una delle pubblicazioni più attese e cliccate nel corso dell’anno. Nel 2014 l’Istat pubblicò una visualizzazione per rappresentare questi dati, con due grafici a barre: il primo mostrava i nomi femminili più diffusi con le barre colorate di rosa, il secondo i nomi maschili con le barre azzurre, e accanto al titolo c’era il disegno di due neonati raffigurati con diversi stereotipi di genere, compresi vestiti azzurri e rosa, il ricciolo in testa al maschio e il fiocchetto per la femmina.

I nomi più diffusi nel 2014 (Istat)

A febbraio 2021 l’Istat ha pubblicato gli stessi dati con una visualizzazione molto diversa. Ha mantenuto i grafici a barre, adatti a rappresentare questo tipo di dati, ma ha rimosso i disegni e soprattutto ha scelto colori diversi: i nomi maschili sono stati indicati in verde e i femminili in arancione.

Come molti altri istituti di statistica nel resto del mondo, anche l’Istat ha recepito molti degli spunti nati da riflessioni e confronti tra gli esperti di “data visualisation”, che negli ultimi anni si sono interrogati su come rappresentare correttamente i dati e come accogliere le critiche agli stereotipi di genere.

L’attribuzione del rosa alle bambine dell’azzurro e del blu ai bambini è uno degli stereotipi più comuni e scontati legati alla differenza di genere. Moltissime persone pensano che sia una convenzione risalente all’antichità, invece nel Diciottesimo secolo era perfettamente normale per un uomo indossare un abito di seta rosa con ricami floreali. Fino alla metà del Diciannovesimo secolo i bambini e le bambine erano vestiti quasi sempre e solo con lunghi abiti bianchi, senza differenze sostanziali tra maschi e femmine.

Non è chiaro come mai a partire dagli anni Cinquanta avvenne una precisa assegnazione dei colori: il rosa iniziò a essere onnipresente nell’abbigliamento, nei giocattoli e nei beni di consumo, con una precisa assegnazione di genere.

Questa tendenza si consolidò negli anni Ottanta, quando scomparvero i vestiti unisex e si imposero definitivamente una serie di stereotipi legati all’infanzia e al mondo dei giocattoli: soldatini e costruzioni per i maschi, bambole e pentoline per le femmine. Di fatto, il rosa e il blu sono stati imposti dal marketing che ha alimentato gli stereotipi di genere, i pregiudizi, la divisione tra i sessi, con rilevanti conseguenze sull’educazione. Il problema non è il rosa in sé, ma gli automatismi delle sue associazioni.

– Leggi anche: Breve storia del colore rosa

Il rosa e il blu sono ancora molto utilizzati ovunque, nel marketing e nella comunicazione, per rappresentare il divario di genere, anche nelle visualizzazioni pubblicate dai giornali: è la scelta più semplice e immediata, che comporta meno sforzi di interpretazione per i lettori.

Alan Smith, data journalist del Financial Times, ha detto di aver utilizzato il rosa e il blu per visualizzare i nomi più diffusi tra neonati e neonate. La sua scelta era giustificata dal fatto che la forte associazione culturale dei due colori al genere gli consentisse di non inserire una legenda separata nella visualizzazione. «Il mio grafico era “pulito”: un obiettivo a cui aspirano tutti i designer», ha scritto in uno degli articoli che negli ultimi anni hanno alimentato il dibattito sulla scelta più appropriata per i colori dei grafici.

Se si pensa al vero scopo delle visualizzazioni dei dati, cioè comunicare un dato nel modo migliore possibile, non è però necessario utilizzare il rosa e il blu.

Qualsiasi combinazione di colori complementari consente di mostrare con chiarezza una differenza categorica. Oltre a non essere necessario, l’uso del rosa e del blu può anche risultare paradossale, soprattutto quando si vogliono mostrare, ad esempio, i significativi divari retributivi di genere: raccontare un aspetto di discriminazioni e stereotipi usando associazioni di colore notoriamente stereotipate e criticate può apparire una scelta di poca sensibilità.

Non è un caso che siano le donne a preoccuparsi maggiormente delle conseguenze dell’imposizione del rosa e del blu nei grafici. Nel 2015, un sondaggio pubblicato dal sito specializzato Visualisingdata chiese ai e alle designer quale scelta ritenevano migliore nei loro grafici, se il blu e il rosa oppure un’altra coppia di colori. Su 126 risposte (76 uomini e 50 donne), solo il 14 per cento delle donne dissero di voler usare il rosa per rappresentare le femmine rispetto al 41 per cento degli uomini.

«La conclusione principale è che se usi il rosa per rappresentare dati relativi alle donne, quasi sette lettrici su otto non apprezzeranno particolarmente quell’associazione di colori», scrisse Andy Kirk nel suo report su Visualisingdata. Può sembrare strano, ma fino a qualche anno fa si discuteva moltissimo e giustamente sulle scelte cromatiche per lettori e lettrici daltonici, che sono uno su dieci, piuttosto che di questioni di genere che riguardano tutte le persone.

Come ha spiegato Lisa Charlotte Muth, designer di Datawrapper, una piattaforma di datavisualisation, il rosa e l’azzurro per mostrare dati di genere non sono più la norma nei grandi giornali, che preferiscono palette di colori diversificate.

Spesso Economist, Guardian, Telegraph e Washington Post scelgono di rappresentare i dati che parlano di donne con un colore più freddo rispetto a quello usato per gli uomini. Il dibattito è ancora in corso e lo dimostra il fatto che le scelte sono ancora affidate alla sensibilità delle singole persone che creano i grafici, senza una logica precisa e una coerenza. Succede, per esempio, che per rappresentare questi dati vengano scelti ogni volta colori diversi, creando non poca confusione in chi legge.

Un giornale che, forse inconsapevolmente, ha fatto scelte assai incoerenti è Quartz: ha mantenuto il rosa e il blu, ma alternando l’attribuzione a uomini e donne di pubblicazione in pubblicazione, senza criteri precisi. Il risultato è rischioso: invece di sfidare gli stereotipi di genere, il continuo cambio tra l’attribuzione del rosa e del blu può portare chi legge a interpretare il grafico in modo intuitivo, con un’alta probabilità che i dati relativi alle femmine, in blu, siano erroneamente letti come maschili e viceversa.

Una delle scelte più interessanti e ragionate è stata fatta dal Telegraph, che da tempo ha deciso di rappresentare le donne in viola e gli uomini in verde. C’entrano precise ragioni storiche e cromatiche. Il viola e il verde sono ispirati alla campagna “Votes For Women” del movimento britannico per il diritto di voto delle donne, che alla fine dell’Ottocento lottò per l’approvazione della prima legge per un suffragio davvero universale, a cui si arrivò nel 1928.

«Nel decidere quale genere andava attribuito a quale colore, abbiamo cercato di dare priorità alle donne», ha spiegato Fraser Lyness, datajournalist del Telegraph. «Sul bianco, il viola ha un contrasto maggiore e quindi attira più attenzione quando si accosta al verde. In molte delle visualizzazioni gli uomini sono più delle donne, quindi questo è un metodo abbastanza semplice per riportare i dati a fuoco».

(Telegraph)

Allontanarsi dagli stereotipi legati ai colori non è semplice, ma il dibattito è importante, perché la visualizzazione dei dati è sempre più centrale nel lavoro dei media, come ha dimostrato il racconto dell’epidemia da coronavirus. I grafici sono una risorsa preziosa per giornalisti, giornaliste, ricercatori e ricercatrici, a patto che vengano preparati con attenzione: i risultati dipendono da come i dati sono stati raccolti, analizzati e anche visualizzati. In ogni passaggio si nascondono diverse possibili interpretazioni fuorvianti che rischiano di mostrare una realtà distorta, alimentare stereotipi e discriminazioni.