Servono soluzioni per l’acciaio, il cemento e l’ammoniaca

Circa il 20 per cento delle emissioni di gas serra è dovuto a queste tre sostanze, di cui non possiamo fare a meno

Betoniere in un cantiere per la costruzione di un tunnel nel Kashmir indiano, il 28 settembre 2021 (Yawar Nazir/Getty Images)
Betoniere in un cantiere per la costruzione di un tunnel nel Kashmir indiano, il 28 settembre 2021 (Yawar Nazir/Getty Images)

Quando si discute di come ridurre le emissioni di gas serra, e dunque contrastare il cambiamento climatico, non si parla spesso di acciaio, cemento e fertilizzanti. Sono molto più citati i mezzi di trasporto e la produzione di elettricità, ed è comprensibile. Non solo perché sono due settori più familiari alla maggior parte delle persone, ma anche perché ridurre il loro impatto sull’ambiente è relativamente facile: le soluzioni, per quanto difficili da mettere in pratica, sono note. Trovare un modo per diminuire le emissioni di gas serra causate dalla produzione di acciaio, cemento e ammoniaca, tre sostanze fondamentali per il nostro mondo, è molto più complicato.

Con l’acciaio facciamo macchinari, elettrodomestici, mezzi di trasporto, computer e tante altre cose, oltre alle barre presenti nel cemento armato; e il cemento è l’ingrediente fondamentale per la costruzione di strade, grandi infrastrutture e case di buona parte del mondo (mischiato a ghiaia, sabbia e acqua, il cemento dà il calcestruzzo). L’ammoniaca infine serve per produrre detergenti, materiali plastici e tessili, e soprattutto i fertilizzanti, senza cui la produzione agricola mondiale non permetterebbe di nutrire la stragrande maggioranza delle persone sul pianeta.

Il problema è che queste tre sostanze contribuiscono alle emissioni di gas serra più di quanto facciano la plastica o gli spostamenti aerei.

Esistono diverse stime su quante emissioni di gas serra, in percentuale, si debbano imputare a ogni diverso tipo di attività umana: sono stime che variano leggermente a seconda del settore in cui viene conteggiato il contributo legato alla produzione dell’elettricità.

Secondo quelle dell’istituto di ricerca ambientale World Resources Institute, che permettono di fare un confronto abbastanza chiaro, ai trasporti si deve il 16 per cento delle emissioni (ai trasporti aerei l’1,9 per cento) e alla produzione dell’elettricità e al suo consumo in case, uffici, negozi e locali il 31 per cento; alle attività industriali nel loro complesso il 29 per cento; alla sola produzione del ferro e dell’acciaio il 7 per cento; alla produzione del cemento più del 3 per cento; e all’industria chimica, per cui l’ammoniaca è uno dei prodotti principali, quasi il 6 per cento. All’ammoniaca inoltre si può ricondurre anche un altro 4 per cento delle emissioni totali, quelle dovute all’uso dei fertilizzanti nelle coltivazioni.

Perché acciaio, cemento e ammoniaca causano tante emissioni
Per produrre l’acciaio, il cemento e l’ammoniaca si emettono gas serra in due modi diversi.

Il primo è quello che accomuna la maggior parte delle produzioni industriali: per portarle avanti serve energia e quell’energia viene prodotta, nella maggior parte dei casi, bruciando combustibili fossili, la principale fonte di emissioni di anidride carbonica (CO2), il principale gas serra. Il secondo dipende dal fatto che, a causa delle loro caratteristiche chimiche, la creazione di questi materiali o il loro uso genera di per sé emissioni di gas serra.

Partiamo dall’acciaio, che è fatto di ferro e carbonio. Per ottenerlo bisogna fondere il minerale di ferro in presenza di coke, un tipo di carbone. Nella fusione il minerale di ferro rilascia l’ossigeno che contiene, mentre il coke rilascia carbonio: una parte del carbonio si lega al ferro, creando l’acciaio, mentre l’altra si lega all’ossigeno, generando CO2. Per fondere il minerale di ferro poi è necessario raggiungere temperature molto alte, intorno ai 1.700 °C, e quindi serve molta energia.

Operai al lavoro nell’altoforno dell’acciaieria di Salzgitter, in Germania, il 2 marzo 2020 (Maja Hitij/Getty Images)

Il cemento invece si produce bruciando calcare mischiato a qualche altro materiale. Il calcare contiene calcio (che è l’elemento fondamentale del cemento), carbonio e ossigeno: la combustione crea da un lato ossido di calcio, dall’altro anidride carbonica. Altra CO2 viene emessa per produrre l’energia che serve a raggiungere i 1.450 °C necessari per queste reazioni: per fare il cemento dunque si emette un gas serra in due modi diversi.

Complessivamente, se si usa il combustibile più economico, cioè il carbone, per ogni tonnellata di cemento prodotto si emette una tonnellata di CO2. E nel mondo ogni anno sono prodotti miliardi di tonnellate di cemento.

Di ammoniaca invece vengono prodotte ogni anno 176 milioni di tonnellate, usate in gran parte per ottenere fertilizzanti: dall’ammoniaca infatti le piante possono ricavare l’azoto, un elemento fondamentale per la loro crescita.

Per produrla si usa il cosiddetto processo Haber-Bosch, inventato dal chimico tedesco Fritz Haber nel 1908: prevede di ottenere idrogeno dal gas naturale, e poi di legarlo all’azoto dell’aria, rompendo i forti legami che tengono insieme le molecole di azoto usando alte temperature (circa 500 °C) e pressioni. Entrambe le operazioni richiedono molta energia e dunque causano grosse emissioni di anidride carbonica.

Di per sé il processo Haber-Bosch non provoca la creazione di gas serra, ma l’uso dell’ammoniaca nei fertilizzanti sì. Le piante infatti assorbono solo una piccola parte dell’azoto che contengono, e il resto finisce per riversarsi nei corsi d’acqua o per arrivare nell’atmosfera come protossido di azoto (N2O), un gas meno noto della CO2 ma che comunque contribuisce all’effetto serra.

Come si potrebbero ridurre le emissioni di acciaio, cemento e ammoniaca?
Le principali soluzioni proposte prevedono l’uso di due tecnologie ancora poco sviluppate e costose: la cattura dell’anidride carbonica, che finora avviene solo in pochi impianti sperimentali, e l’uso come combustibile dell’idrogeno “verde”, cioè ottenuto grazie a fonti di energia che non producono emissioni di gas serra.

I sistemi di cattura della CO2 permetterebbero di trattenere il gas prodotto per ottenere l’acciaio e il cemento prima che si diffonda nell’atmosfera; la CO2 sarebbe poi stoccata in sicurezza nel sottosuolo, ad esempio. L’idrogeno invece è un combustibile molto efficiente per i processi industriali che richiedono alte temperature e quindi potrebbe essere impiegato per la produzione di acciaio, cemento e ammoniaca (in quest’ultimo caso anche come materia prima) evitando la produzione di emissioni.

Per quanto riguarda l’acciaio, oltre a usare la cattura dell’anidride carbonica durante le fasi produttive in cui viene emessa, si potrebbe sostituire alla fusione a 1.700 °C negli altiforni un metodo alternativo: l’elettrolisi, già usata per ottenere l’alluminio dai minerali di bauxite. Consiste nel far passare corrente elettrica in una cella che contiene una miscela di minerale di ferro fuso e altre sostanze, ma non il carbone: la corrente scompone il minerale, permettendo di ottenere ferro puro e, come sottoprodotto, ossigeno e non anidride carbonica. Questo processo richiede molta energia, che però può essere fornita dall’idrogeno verde.

Alcune aziende stanno già provando a produrre acciaio in questo modo. Il 15 settembre ad esempio la grande azienda indiana Tata Steel ha annunciato che lo farà nel suo stabilimento di IJmuiden, nei Paesi Bassi; anche ArcelorMittal sta facendo una sperimentazione.

Diminuire l’impatto ambientale del cemento invece sarà più complicato.

Una prima riduzione delle emissioni legate alla produzione si potrebbe ottenere sempre usando l’idrogeno verde come combustibile al posto del carbone. Poi si potrebbero usare dei sistemi di cattura dell’anidride carbonica: secondo un rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia (IEA), permetterebbero di ridurre fino al 55 per cento le emissioni dovute alla produzione del cemento entro il 2050. Parte dell’anidride carbonica peraltro potrebbe essere sfruttata per altri usi, come vuole provare a fare l’azienda francese Vicat: di recente ha annunciato di voler usare il 40 per cento della CO2 derivante dalle sue attività in uno stabilimento vicino a Lione per produrre carburante per navi merci.

Tutte queste iniziative però non renderanno nulle le emissioni di gas serra dovute al cemento, obiettivo che si potrebbe forse raggiungere cambiando le materie prime da cui viene ottenuto. Sono state fatte varie proposte in questo senso.

Una prevede l’uso di un tipo di argilla al posto del calcare: eliminerebbe le emissioni di anidride carbonica come prodotto di scarto e richiederebbe minori temperature per i processi industriali, dunque meno energia.

Un’altra proposta consiste nell’usare la magnesite invece del calcare: secondo John Harrison, il chimico industriale australiano che propose per la prima volta questa sostituzione vent’anni fa, grazie a questo materiale, che a sua volta richiederebbe temperature più basse, si otterrebbe un cemento che assorbe l’anidride carbonica presente nell’aria. Anche il cemento usato normalmente lo fa, ma meno rispetto a quanto lo farebbe quello prodotto con la magnesite, a detta di Harrison.

Il problema di tutte le proposte di cambiare le materie prime con cui si fa il cemento è che i costi iniziali per i produttori sarebbero molto alti, perché richiederebbero varie sperimentazioni.

Un agricoltore distribuisce un fertilizzante a base di ammoniaca in un campo vicino a Gretna, in Nebraska, il 6 aprile 2015 (AP Photo/Nati Harnik, La Presse)

Dovrebbe essere più semplice produrre l’ammoniaca usando idrogeno verde, come stanno già facendo alcune aziende. Sarebbe però solo il primo passo per ridurre l’impatto sull’ambiente di questa sostanza: bisognerebbe anche trovare un modo per ridurre l’energia necessaria ad alimentare il processo Haber-Bosch, cioè per fare avvenire le reazioni necessarie alla produzione di ammoniaca a temperature e pressioni inferiori.

I batteri presenti nelle radici delle piante ci riescono, ma ci mettono troppo tempo per essere usati su scala industriale, per questo si fa molta ricerca nel mondo della chimica per trovare soluzioni alternative. Ad esempio l’azienda giapponese JGC sta sperimentando l’uso del rutenio, un metallo raro, che a suo dire permette di ridurre la pressione necessaria alla sintesi dell’ammoniaca di tre quarti. C’è anche chi fa ricerca per superare del tutto il processo Haber-Bosch, con altri processi elettrochimici.

Per diminuire le emissioni causate dall’ammoniaca comunque bisognerebbe anche intervenire sulla diffusione del protossido d’azoto, per cui non esistono sistemi di cattura come quelli che si iniziano a usare per l’anidride carbonica.

La soluzione più semplice sarebbe di distribuire i fertilizzanti in modo più efficiente – meno della metà dell’ammoniaca sparsa nei campi arriva alle radici delle piante – ma per farlo servirebbero tecnologie sofisticate fuori dalla portata della maggior parte degli agricoltori. Alcuni ricercatori vorrebbero trovare un modo per fornire azoto alle piante che non preveda affatto l’uso dell’ammoniaca: studiando la genetica di alcune piante vorrebbero ottenere varietà di coltivazioni in grado di “reclutare” batteri azotofissatori che glielo forniscano.