La morale du Green Pass

In Francia il dibattito sulle limitazioni per i non vaccinati è stato molto articolato: e forse può tornare utile anche qui

Proteste contro il pass sanitario, Parigi, 17 luglio 2021 (AP Photo/Michel Euler)
Proteste contro il pass sanitario, Parigi, 17 luglio 2021 (AP Photo/Michel Euler)
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Nei giorni scorsi, in Francia, sono entrate in vigore le restrizioni decise dal governo per contrastare un nuovo aumento di contagi da coronavirus, soprattutto a causa della diffusione della variante delta. Le restrizioni prevedono che l’ingresso in diversi luoghi pubblici e privati sia riservato alle persone che possiedono un certificato COVID-19, che siano cioè completamente vaccinate o risultate negative al virus. Il vaccino è stato inoltre reso obbligatorio per alcune categorie. Misure simili – anche se meno severe e senza alcun obbligo vaccinale – sono state approvate giovedì anche in Italia: l’accesso a determinati luoghi o eventi è stato cioè vincolato a un criterio medico attestato dal cosiddetto “green pass”.

In Francia, le questioni dell’obbligo di vaccino per alcune categorie e delle restrizioni per chi non ha il cosiddetto “pass sanitario” sono state discusse dalla politica e a livello giuridico (sulle restrizioni del governo è intervenuto anche il Consiglio di Stato). E al di là delle argomentazioni che, in modo irragionevole ed estremista, hanno invocato una «dittatura dei vaccini», un «colpo di stato sanitario» o hanno fatto confronti tra il pass e il regime dell’apartheid o tra il vaccino e il veleno Zyklon B usato nei campi di sterminio nazista, i dubbi, le domande e le preoccupazioni legate a questo tipo di restrizioni hanno sollevato diverse questioni etiche e filosofiche.

Tra intellettuali, il dibattito è stato piuttosto articolato, sia tra chi è favorevole alle restrizioni sia tra chi, pur essendo favorevole al vaccino, ha mosso delle obiezioni al fatto di renderlo obbligatorio o necessario.

“Apolidi sanitari”
Uno dei problemi posti dalla vaccinazione obbligatoria o dal condizionamento della libertà delle persone in base a un criterio medico è innanzitutto quello dei cosiddetti “apolidi sanitari”. Emmanuel Hirsch, docente di bioetica all’università Paris-Saclay, in un articolo su Libération dello scorso febbraio, ha parlato di «moralismo vaccinale» che porterà a distinguere i vaccinati da quelli che non lo sono: «Erigere la vaccinazione a un merito che permetterebbe di autorizzare ciò che sarebbe vietato agli altri non è eticamente accettabile senza un dibattito».

Questo meccanismo crea una distinzione tra cittadini di serie A e cittadini di serie B, considerati troppo fragili o pericolosi, questi ultimi, per partecipare a pieno titolo alla vita sociale. Il “lasciapassare” rappresentato dal pass sanitario, ha spiegato Hirsch, stabilisce simbolicamente che chi lo detiene è più degno di fiducia e rispettabilità di chi non lo detiene. La vaccinazione si configura dunque come una “buona azione”, mentre il rifiuto di farsi vaccinare potrebbe essere percepito come un atto moralmente riprovevole: equivarrebbe a voler nuocere agli altri volontariamente.

Questa visione sancisce di fatto il passaggio dal modello del welfare state – che si è affermato nei paesi dell’Europa occidentale e che intende garantire a tutti cittadini una protezione, non soltanto contro i nemici esterni, ma anche contro determinati rischi sociali, come l’analfabetismo o la malattia – al modello che i filosofi egualitari degli anni Novanta hanno chiamato, semplificando, modello “dell’uguaglianza di opportunità di benessere”. Significa che lo stato non ha più come obiettivo garantire il benessere dei cittadini, ma quello di organizzare la distribuzione dei diritti, dei servizi e delle opportunità: in ultima analisi è l’individuo che è responsabile del proprio benessere.

Il pass sanitario dà di conseguenza il diritto a una vita normale come ricompensa per una scelta individuale ritenuta responsabile. Ma tutto questo ragionamento sarebbe legittimo e sostenibile in una condizione di sostanziale equità, mentre non si possono ignorare, dice Hirsch, le disparità esistenti nell’accesso alle cure. Se tali difficoltà potrebbero essere risolte in pochi mesi a livello nazionale, non è detto che lo stesso possa accadere a livello globale.

Si creerebbe, a quel punto, una sorta di «comunità sanitaria», dalla quale verrebbero esclusi non solo coloro che non vogliono vaccinarsi, ma anche coloro che non possono farlo: degli apolidi sanitari, dunque, privati ​​del diritto di recarsi in determinati luoghi o di esercitare determinate attività.

Non siamo tutti uguali
In un articolo su Le Monde, Sébastien Leroux, geografo, ha spiegato che le nuove restrizioni decise dal governo francese contribuiranno ad aumentare le disuguaglianze. Una persona che ha iniziato il processo di vaccinazione all’inizio di giugno potrebbe trovarsi, a fine luglio, esclusa dai luoghi della vita sociale a causa dei ritardi tra la somministrazione delle due dosi. E per chi ha iniziato il ciclo più tardi, il periodo di deprivazione sociale potrebbe essere anche più lungo. Ma le tempistiche, dice Leroux, non sono l’unico problema perché «non partiamo tutti uguali di fronte a queste misure»: che di conseguenza si rivelano inique, almeno su tre livelli. Ci sono delle disuguaglianze tra territori, tra generazioni e tra classi sociali che esistono indipendentemente dal pass sanitario, ma che quest’ultimo ha accentuato.

Le disparità tra le città e i dipartimenti in cui è divisa la Francia sono piuttosto marcate, ha spiegato nel suo articolo Leroux: se a Parigi la percentuale della popolazione che ha completato il ciclo vaccinale è pari al 48,4 per cento ed è del 49,1 per cento nel dipartimento centrale dell’Allier, nell’Alta Savoia, che è un dipartimento montuoso al confine con l’Italia e la Svizzera, è invece del 34,7 per cento ed è pari al 37,5 per cento a Ille-et-Vilaine, nella Bretagna.

Il secondo livello di disuguaglianza ha a che fare con l’età: il 78,7 per cento di chi ha almeno 75 anni ha completato il ciclo di vaccinazione contro il 29,2 per cento di chi ha tra i 20 e i 39 anni. I dati hanno senso poiché le persone più anziane – e più a rischio di sviluppare forme gravi di COVID-19 – hanno beneficiato della priorità nella vaccinazione. Questo dà però loro il diritto di libero accesso a ristoranti o altri luoghi di svago, da cui una percentuale significativa di giovani adulti rischia di essere esclusa.

Questo secondo livello ha anche un altro aspetto problematico, che coinvolge le persone fino ai 12 anni: per loro, l’accesso ai servizi sanitari, e quindi alla vaccinazione, passa attraverso i genitori e resta soggetto alla volontà e alle convinzioni di questi ultimi. Concretamente, questo significa che i giovani i cui genitori rifiutano il vaccino potrebbero essere di fatto esclusi dalla vita culturale e pubblica. Inoltre, e anche se per ora non è prevista l’estensione della vaccinazione obbligatoria o del pass sanitario nelle scuole, alcuni studenti potrebbero non essere in grado di partecipare ad attività e gite extrascolastiche che rientrano però nel programma di studi: e se non potranno accedere a musei, cinema, biblioteche, attività sportive o luoghi di ritrovo, sarà la loro stessa possibilità di crescere a essere compromessa.

Il terzo livello di discriminazione stabilito dalle nuove limitazioni è sociale e andrà a indebolire ulteriormente le persone già emarginate e vulnerabili, che lo stato avrebbe il dovere di tutelare. I dati citati da Leroux mostrano che i dipartimenti più poveri sono anche quelli in cui la popolazione è meno vaccinata e che le classi popolari sono quelle che hanno sia il minor accesso alla vaccinazione sia i maggiori dubbi a riguardo. Nella Seine-Saint-Denis, dove il tasso di povertà è al 28,4 per cento, risulta che il 30 per cento della popolazione sia completamente vaccinata. Nel vicino dipartimento della Hauts-de-Seine, dove il tasso di povertà è meno del 12 per cento, la popolazione vaccinata è pari al 44,4  per cento.

La riluttanza verso il vaccino, ed è un fatto che andrebbe considerato, non è insomma distribuita in modo casuale tra la popolazione: è molto più marcata, per ragioni essenzialmente sociologiche, tra le popolazioni delle classi popolari e tra le minoranze etno-sociali. «Emmanuel Macron ha simbolicamente dato il diritto agli anziani e ai benestanti di andare al cinema e al caffè, mentre lo ha negato ai giovani adulti delle classi popolari», ha commentato Leroux, aggiungendo che le inadeguatezze della gestione dell’epidemia da parte del governo o la violenza sociale che tale gestione ha provocato dal marzo 2020 sono tuttora presenti nelle ultime misure introdotte. Quel che sta accadendo, ha riassunto a sua volta il filosofo Mathieu Potte-Bonneville, è una «proliferazione delle frontiere all’interno dello spazio pubblico».

Libertà di scelta
Uno dei principali argomenti usati contro il pass sanitario o l’obbligo di vaccinazione è quello della libertà individuale: fino a che punto può arrivare uno stato per promuovere e tutelare la salute della popolazione a scapito dell’autonomia di scelta soggettiva?

Nella discussione sulle legittime restrizioni da stabilire o accettare si contrappongono spesso la libertà e la salute: c’è chi dà priorità alla prima e chi alla seconda. Per il filosofo della scienza alla Sorbonne Cedric Paternotte, non è però possibile stabilire una superiorità o un’inferiorità di principio tra libertà e salute, perché sono valori incommensurabili tra loro: «Su gusti e colori non si discute», dice. È però possibile uscire da questo «vicolo cieco» considerando che una misura che privilegia a priori la salute o la libertà può anche avere delle conseguenze negative su quello stesso valore.

L’assenza iniziale di restrizioni alla libertà, ad esempio, può portare, a causa di una situazione sanitaria che diventa incontrollabile, all’istituzione di restrizioni successive più severe. A quel punto, non si tratta più di opporre libertà e salute, ma certe libertà ad altre libertà. Assumendo questo ragionamento, in molti hanno dunque fatto notare che se moltissime persone rifiutassero il vaccino o le restrizioni in nome della libertà soggettiva, probabilmente verrebbero di nuovo attivate restrizioni pesanti a quella stessa libertà, come ad esempio un nuovo lockdown. E a quel punto, quale sarebbe, per chi dà la precedenza alla libertà, la migliore alternativa? Quale strategia risulterebbe alla fine la meno restrittiva in termini di libertà?

La docente di Diritto pubblico alla Scuola di diritto della Sorbona, Diane Roman, ha utilizzato un’altra argomentazione. Ha spiegato che vivere in una società, l’aver fatto cioè un patto sociale, implica già diverse limitazioni alle libertà personali. E ha citato la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, il testo giuridico elaborato nel corso della Rivoluzione francese, contenente una solenne elencazione di diritti fondamentali, che all’articolo 4 dice: «La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Tali limiti possono essere determinati solo dalla Legge».

Di conseguenza, l’essere vaccinati contro il Covid-19, per Roman, rappresenta un dovere proprio come ne esistono molti altri. Il pass sanitario sarebbe dunque “discriminatorio” quanto il codice della strada, che vieta di guidare senza patente o in stato di ebbrezza. E questo ragionamento è tanto più valido, ha sostenuto Roman, quando si tratta di salute pubblica: «La salute non è solo un problema individuale: è anche un problema pubblico. La storia della sanità pubblica è fatta di misure collettive, finalizzate all’interesse generale e talvolta restrittive delle libertà individuali».

La salute è un bene comune
Il dibattito intorno alla questione della libertà individuale si inscrive in una lunghissima tradizione filosofica che per secoli si è interrogata sul rapporto tra l’autonomia di ciascuno e l’ambito politico a cui verrebbe demandata invece la definizione e il governo di ciò che è il bene comune, il bene di tutti nella sua valenza super-soggettiva o anche anti-soggettiva: un bene, cioè, che supera il soggetto o lo limita nella sua sfera personale e privata.

Per qualcuno, l’immunità di gregge – ossia la capacità di un insieme di persone di resistere a un’infezione che si ottiene quando una parte consistente della popolazione contrae una malattia infettiva e guarisce, o viene vaccinata ottenendo l’immunità senza doversi ammalare – deve essere considerata un bene comune. Philippe Bizouarn, medico all’ospedale universitario di Nantes e dottore in Filosofia, ha spiegato che un bene è comune se soddisfa due princìpi: la non esclusività e la non rivalità. La prima rappresenta l’impossibilità di estromettere terzi dalla fruizione di un determinato bene. La seconda indica la circostanza in cui l’uso di un bene da parte di qualcuno non incide sulla facoltà di goderne completamente da parte di terzi. Ora: poiché «l’immunità può essere raggiunta da tutti e poiché non impedisco ad altri di ottenerla se decido di fare il vaccino, l’immunità collettiva è un bene comune, proprio come l’aria che respiriamo», ha spiegato Bizouarn.

Chi difende il primato della libertà individuale sulla sfera politica, spesso fa riferimento al rischio puramente soggettivo che si assume la persona che non vuole essere vaccinata. Samuel Lepine, docente di Filosofia morale e politica all’Università di Clermont Auvergne, ha però spiegato che «l’argomento della libertà individuale è spesso brandito senza che ci si renda conto delle sue implicazioni. Il nostro comportamento ha sempre un impatto, e se la mia libertà individuale comporta il danneggiare gli altri, allora saremo sempre pronti a limitarla». In questa visione, i limiti all’azione individuale non dovrebbero essere considerati come qualcosa che la società fa contro la volontà dei singoli, ma come qualcosa che i singoli non possono fare se hanno interesse che la società sopravviva.

Lepine, per chiarire questo punto, ha fatto ricorso all’analogia con le cinture di sicurezza in macchina, a sua volta utilizzata da due ricercatori di bioetica dell’Università di Oxford in uno scritto sull’obbligatorietà dei vaccini. Se non mi allaccio la cintura e faccio un incidente, non sono l’unico a subirne le conseguenze: il mio rifiuto potrebbe cioè avere delle ricadute anche su altri soggetti e sul sistema sanitario. Dopo un incidente, «quello che inizialmente colpisce solo me, poi riguarderà le persone che dovranno prendersi cura di me, e gli ospedali» dice Samuel Lepine.

Quando venne introdotto, l’obbligo della cintura di sicurezza venne considerato da molti come una restrizione ingiustificata alle libertà individuali. I detrattori della cintura parlarono tra l’altro delle lesioni, peraltro occasionali e non gravi, che l’uso della cintura di sicurezza poteva provocare, ma le proteste si fermarono di fronte alla realtà dei fatti: quando cioè ci si rese conto della significativa diminuzione delle vittime della strada. Sia individualmente che collettivamente, indossare le cinture di sicurezza è ampiamente giustificato dalla combinazione di sostanziali vantaggi e bassissimi rischi: è questo che sta alla base, da un punto di vista morale, della legittimità di questa misura di sanità pubblica che limita le libertà individuali.

Per quanto riguarda le vaccinazioni vale lo stesso ragionamento: i rischi che comportano sono inferiori rispetto alle conseguenze provocate dalle malattie infettive dalle quali i vaccini offrono protezione.

L’obbligo di vaccinazione sembra invece più difficile da difendere quando si raggiunge l’immunità di gregge. L’argomentazione che non c’è bisogno di vaccinarsi perché altri lo faranno per me e quindi potrò comunque beneficiare dell’immunità collettiva è però molto fragile e paradossale. Marine Le Breton, sull’edizione francese dello Huffington Post, suggerisce di ripensare all’imperativo categorico di Kant: «Agisci solo secondo quella massima che tu puoi volere, al tempo stesso, che essa diventi una legge universale». Ciò che dovrebbe guidare una scelta è se la massima che determina la nostra volontà possa valere come legge universale. Solo in questo caso può essere considerata una legge morale efficace: nella legge morale c’è insomma un principio irrinunciabile, quello di essere universale. Se tutti agissero secondo la stessa massima di rifiutare il vaccino perché lo fanno altri al posto nostro, allora nessuno si farebbe vaccinare.

Proporzionalità e altre questioni
Se l’obbligo di vaccinazione dovesse essere introdotto o esteso ad altre categorie, per quanto riguarda la Francia, i suoi criteri dovrebbero comunque essere esaminati attentamente: «Le nostre libertà individuali sono, malgrado tutto, a rischio e non è assurdo preoccuparsene. (…) E dobbiamo garantire che i nostri diritti fondamentali siano rispettati» dice Samuel Lepine.

Un altro dei problemi che potrebbe porsi sarebbe quello della proporzionalità della sanzione rispetto all’applicazione dell’obbligo: per alcuni il licenziamento di un dipendente sprovvisto di pass sanitario potrebbe essere una misura sproporzionata.

Anche per questo motivo alcuni pensatori, come Emmanuel Hirsch, hanno spiegato di preferire l’obbligo morale e deontologico all’obbligo vaccinale: «Per quanto mi riguarda, preferisco esercitare il dovere democratico della vaccinazione piuttosto che cedere all’obbligo vaccinale». Ma questo percorso, più lungo e complicato, avrebbe dovuto essere accompagnato da un approccio pedagogico, informativo e di gestione politica più orizzontale, trasparente, che tenesse conto di tutte le complessità e che riuscisse a trasmettere il significato democratico di questo dovere e di questa responsabilità: cosa che invece non è avvenuta, dice Hirsch. Oltre ad essere infantilizzante, l’obbligo di vaccinazione sarebbe insomma per alcuni una esplicita dichiarazione di fallimento politico.