Ci sono ancora cose che non sappiamo sulla rivolta al carcere di Modena

Le indagini sulle morti di 9 detenuti nel marzo 2020 sono state archiviate, ma per gli avvocati delle famiglie mancano dei pezzi

(ANSA/ELISABETTA BARACCHI)
(ANSA/ELISABETTA BARACCHI)
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Il pestaggio dei detenuti da parte della polizia penitenziaria nel carcere campano di Santa Maria Capua Vetere dell’aprile del 2020, al centro di un caso politico in questi giorni per via delle decine di arresti nelle forze dell’ordine e della diffusione di un video che le documenta, avvenne circa un mese dopo che in diverse altre prigioni italiane ci furono violente rivolte tra i detenuti e dure repressioni, nei primi giorni dell’epidemia da coronavirus. Tra il 7 e il 10 marzo ci furono 13 morti: tre a Rieti, uno a Bologna e nove nella Casa Circondariale Sant’Anna di Modena, direttamente nell’istituto penitenziario o mentre i detenuti, in condizioni d’emergenza senza che però nessuno li ritenesse in pericolo di vita, venivano trasportati verso altri istituti.

Su ciò che accadde in quelle circa 60 ore sono state svolte indagini contro ignoti, con le ipotesi di reato di omicidio colposo e morte come conseguenza di altro delitto. Il gip Andrea Romito, il 17 giugno, ha deciso l’archiviazione del caso su richiesta degli stessi pubblici ministeri. Secondo il gip la causa «unica ed esclusiva» del decesso dei carcerati fu «l’asportazione violenta e l’assunzione di estesi quantitativi di medicinali correttamente custoditi all’interno del locale a ciò preposto». In pratica, riassumendo: i detenuti hanno fatto tutto da soli.

Ma gli avvocati delle famiglie dei detenuti morti, e altri esperti che hanno seguito la vicenda, ritengono che le cose che ancora non sappiamo di quanto successe in quei giorni siano molte, e che servirebbero altre indagini per chiarire come siano morte almeno alcune di quelle persone.

In tre giorni, da venerdì 7 a lunedì 9 marzo 2020, l’Italia entrò nell’emergenza coronavirus. Nella notte tra il 7 e l’8 il presidente del Consiglio Giuseppe Conte firmò il primo dei tanti DPCM presentandolo, in diretta televisiva, con queste parole: «Sto per firmare un provvedimento che possiamo riassumere con l’espressione “Io resto a casa”. L’Italia sarà interamente zona protetta». Queste parole vennero ascoltate in ogni casa italiana, e in ogni carcere: dove non si può “restare a casa”, e dove non esistono “zone protette”.

Secondo i dati del ministero della Giustizia, in Italia i detenuti sono circa 62.000 mentre la capienza regolare delle carceri non dovrebbe superare il numero di 50.931. Per fare due esempi: nel carcere romano di Regina Coeli sono ospitate normalmente 1070 persone mentre la capienza è di poco superiore a 600. A Brescia i detenuti sono il doppio della capienza: 360 per 189 posti.

– Leggi anche: Le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dall’inizio

È in questa situazione di sovraffollamento che dalle televisioni presenti nelle celle arrivarono le notizie di un virus mortale, altamente contagioso. L’invito, difficile da accogliere in un carcere, era a “non assembrarsi”. Nel frattempo venivano sospese le visite dei familiari e l’ingresso dei volontari. È solo con il passare delle settimane che molti istituti di pena, spesso su sollecitazione degli stessi direttori, si attrezzarono per garantire colloqui con videochiamate. Ma era comunque troppo tardi. Nei primi giorni dell’emergenza da coronavirus nessuno, a livello istituzionale, si attivò per prevenire l’emergenza che stava prendendo forma nelle carceri.

La rivolta scoppiò in 70 istituti penitenziari. Dal carcere di Foggia riuscirono a fuggire in 60. A Milano tutto partì dal reparto La Nave, dove risiedono i detenuti tossicodipendenti. Molti salirono sul tetto, altri aprirono a forza le porte dell’infermeria portando via metadone e psicofarmaci. Le stesse scene si ripeterono ovunque; solo nelle carceri della Calabria e della Sicilia, dove il controllo ferreo è esercitato da ‘ndrangheta e mafia, la situazione rimase relativamente tranquilla.

A morire, o a rischiare la morte, furono soprattutto quelli che nel linguaggio carcerario sono i detenuti di terzo letto. Quelli che nei letti a castello stanno all’ultimo piano appunto, quello in alto: al primo ci sono i capi, in mezzo le seconde file e nel terzo letto la manovalanza, spesso con problemi di tossicodipendenza.

La rivolta a Modena iniziò l’8 marzo e fu particolarmente violenta. Venne appiccato il fuoco ai materassi, in un’ala del carcere l’incendio si sviluppò forte e veloce. I detenuti poi assaltarono la farmacia. Furono rubate ingenti quantità di metadone e moltissime sostanze psicotrope. In un primo tempo venne detto che i detenuti avevano aperto la cassaforte dove erano custodite le scorte dei farmaci grazie a un flessibile. In realtà durante l’inchiesta vennero avanzate due altre ipotesi: che l’armadio blindato non fosse stato chiuso dagli infermieri di turno o che fu aperto con una chiave recuperata in una cassetta di sicurezza che era stata aperta dai rivoltosi.

Tra l’8 e il 10 marzo morirono Hafedh Chouchane, Erial Ahmadi, Slim Agrebi, Ali Bakili, Lofti Ben Mesmia, Ghazi Hadidi, Artur Iuzu e Abdellha Rouan. Alcuni all’interno del carcere Sant’Anna, altri durante il trasporto oppure quando già erano arrivati in altri istituti, ad Alessandria, Parma, Verona. Un altro detenuto, Salvatore Piscitelli, morì ad Ascoli dopo il trasferimento, il 10 marzo. La sua vicenda, anche giudiziaria, è un caso a parte rispetto a quella degli altri detenuti morti.

«Avevamo evidenziato che negli atti di indagine emergevano tre versioni differenti in relazione ai soccorsi ad Hafedh» dice al Post Luca Sebastiani, avvocato della famiglia di Hafedh Chouchane, il primo detenuto di cui fu riscontrato il decesso. «Sia con riguardo al posto dove lo stesso veniva consegnato agli agenti della Penitenziaria, sia all’orario in cui ciò è avvenuto. E stiamo parlando di differenze macroscopiche, che non sono state chiarite».

Hafedh Chouchane è morto per overdose da metadone. Ma è su come e sui tempi con i quali furono prestati i soccorsi, su cosa accadde tra il termine della rivolta e la decisione dell’amministrazione penitenziaria di trasferire in altre carceri 417 detenuti su 546, che ci sono ancora molte cose da chiarire, secondo i legali.

«Ci sono molte perplessità anche prendendo in considerazione la ricostruzione avallata dalla Procura» continua Sebastiani, «ovvero che Hafedh sia stato consegnato alla Penitenziaria alle 19.30 nei pressi del passo carraio interno del carcere, ed è poi arrivato all’attenzione del medico alle 20.20 quando non aveva segni di vita. Parliamo di 50 minuti per effettuare poche decine di metri, nei quali, se soccorso tempestivamente, poteva essere salvato. Questo aspetto, di notevole importanza per la nostra posizione, doveva essere adeguatamente chiarito. Vi sono giganteschi buchi orari. In quel tempo per salvarlo qualcosa si sarebbe potuto fare, si sarebbe dovuto fare».

Secondo l’Osservatorio Diritti, un giornale online che si occupa di diritti umani, al Sant’Anna terminata la rivolta c’erano decine di detenuti da visitare: la situazione venne definita da “campo di guerra”. Una dottoressa testimoniò, sempre secondo Osservatorio Diritti, di aver visitato 40 detenuti in circa due ore: tre minuti a testa. Secondo i legali, Sebastiani, Gianpaolo Ronsisvalle del Garante nazionale dei detenuti e Simona Filippi dell’associazione Antigone, si susseguirono errori su errori.

I detenuti furono riportati in cella senza che nessuno decidesse di controllare se avevano con loro le sostanze rubate nell’infermeria. Su questo punto, i pubblici ministeri risposero così: «È evidente come l’esecuzione di perquisizioni personali a carico dei detenuti, al momento del loro ingresso in cella, non sia finalizzata a tutelare colui che fa ingresso in carcere e ad evitare che porti con sé beni che possano nuocere alla sua salute, nel caso specifico metadone. Ma al contrario è giustificata da motivi di sicurezza, ossia dalla necessità di evitare situazioni di pericolo capaci di mettere a repentaglio l’ordine e la sicurezza dell’istituto».

Secondo i pm che hanno chiesto l’archiviazione, insomma, la scelta di non perquisire i detenuti fu giustificata dal fatto che con i farmaci avrebbero potuto magari mettere a rischio se stessi, ma non la sicurezza del carcere.

Molti detenuti furono poi trasferiti. «Alcuni barcollavano, non stavano in piedi, la situazione era visibile da tutti» dice Simona Filippi, avvocata dell’Associazione Antigone. «Secondo noi non si poteva procedere a quei trasferimenti che invece avvennero». Alcuni detenuti arrivarono a destinazione già deceduti, altri morirono una volta giunti nella nuova cella. È il caso di Salvatore Piscitelli sulla cui morte è stata aperta un’inchiesta dopo la denuncia di alcuni suoi compagni trasferiti anch’essi dal Sant’Anna. Secondo questi detenuti, Piscitelli era stato picchiato e stava malissimo a causa delle sostanze assunte. A più riprese, sempre secondo la loro testimonianza, fu richiesto l’intervento delle guardie carcerarie e quindi del medico senza che avvenisse nulla. Fino a che non venne, semplicemente, constatato il decesso.

Su alcuni detenuti morti a Modena, dice ancora al Post l’avvocata Filippi, «sono stati riscontrati segni di violenza. Le autopsie hanno accertato che tutte le morti sono avvenute per overdose. Solo un’autopsia pare non sia stata effettuata e noi chiediamo da tempo che venga chiarita la vicenda». Dice l’avvocato Sebastiani: «La consulenza del medico legale nominato dalla Procura ha escluso che ci siano state violenze su Hafedh. Purtroppo, non avendo partecipato con il nostro medico all’autopsia, dato che i familiari non sono stati avvisati, non abbiamo elementi per poter mettere in discussione questo aspetto e non l’abbiamo fatto».

Ma perché il gip ha deciso l’archiviazione nonostante le zone d’ombra fossero molte? «In pratica il Giudice per le indagini preliminari ha detto che certo ci furono errori in quelle ore al Sant’Anna di Modena», spiega l’avvocata Filippi, «ma che data l’eccezionalità del caso, la straordinarietà di ciò che stava accadendo, quegli errori sono in pratica legittimati. Noi pensiamo invece che una rivolta in un carcere non può essere considerata un fatto non prevedibile. Quegli errori non dovevano essere fatti. A Modena sono morti otto detenuti. Nove, se consideriamo la vicenda di Piscitelli. In altre carceri dove sono avvenute rivolte non ci sono stati decessi. È la prova che al Sant’Anna molto non ha funzionato».

L’avvocato Sebastiani sta preparando il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo mentre l’Associazione Antigone, i cui atti non sono stati ammessi perché sia l’associazione sia il Garante dei detenuti non sono state considerate “persone offese”, ha presentato ricorso.

A Modena e in altre carceri tra il 7 e il 10 marzo la situazione sfuggì completamente al controllo. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, parlando il 10 marzo alla Camera, disse che le violenze erano «ascrivibili a una ristretta parte dei detenuti in quanto la maggior parte ha manifestato difficoltà e paura». Le proteste dei detenuti continuarono anche nelle settimane successive fino ad arrivare al caso dei pestaggi di Santa Maria Capua Vetere, un mese dopo, a cui seguì la violenta ritorsione delle guardie penitenziarie con schiaffi, pugni, calci e manganelli.