La mania degli autografi

Per un periodo tra Ottocento e Novecento, specialmente nel Regno Unito, ci fu un'ossessione per il collezionismo di firme: non solo quelle di gente famosa

La firma di George Washington (Andrew Burton/Getty Images)
La firma di George Washington (Andrew Burton/Getty Images)

Nel 1902 l’illustratore britannico Henry Furniss scrisse una domanda sulla rivista Strand Magazine: «C’è un vaccino per scongiurare la febbre da autografo?». Nello stesso anno, l’avvocato newyorkese Adrian Joline pubblicò un libro intitolato Riflessioni di un collezionista di autografi, in cui scriveva: «Nessuno sarà mai affezionato ai miei cuccioli quanto lo sono io», riferendosi alla sua collezione di firme. Due anni prima, sul Wisconsin Weekly Advocate, un collezionista di New Orleans aveva detto che nella «caccia all’autografo, il fine giustifica sempre i mezzi, non importa quanto meschini siano».

Sono solo alcuni esempi dell’intenso e curioso fanatismo per gli autografi che si diffuse in Inghilterra e negli Stati Uniti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, raccontato in un recente articolo di History Today. I fanatici di quell’epoca non erano ossessionati solamente dalle firme e dai manoscritti di personaggi famosi, abitudine frequente almeno fino all’avvento dei selfie, ma anche da quelli di amici e parenti, perché avere una raccolta di firme per qualche motivo era diventato uno status symbol.

L’interesse per gli autografi in realtà non nacque nell’Ottocento, ma ha origini antiche. Per fare qualche esempio, sappiamo che gli antichi greci ritenevano di grande valore i manoscritti di intellettuali come Aristotele, che dopo la sua morte lasciò i propri testi al suo erede Teofrasto il quale li custodì con cura prima di passarli a sua volta a Neleo, discepolo del filosofo. Ci sono esempi di un interesse verso i manoscritti autografi anche tra gli antichi romani: personaggi importanti come l’imperatore Adriano e il filosofo e oratore Cicerone ne avevano una collezione.

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Nelle epoche successive l’attenzione verso gli autografi è rimasta, tanto nel Medioevo quanto nei secoli successivi: la scrittura a mano era l’unico mezzo con cui si poteva tramandare ai posteri la cultura, e a tutti era chiaro il suo valore. Nel Cinquecento cominciò a diffondersi soprattutto tra la piccola nobiltà europea – tedesca in particolare – il formato dell’album amicorum, una sorta di libro in cui le persone raccoglievano le firme di amici e conoscenti. L’obiettivo era avere un espositore che attestasse la propria rete di conoscenze, dato che le firme venivano chieste soprattutto a notabili, artisti e altri aristocratici. Un esempio celebre è quello di Jacob Heyblocq, poeta olandese che riuscì a farsi fare un disegno da Rembrandt sul suo album amicorum.

Babe Ruth, uno dei più celebri giocatori di baseball della storia, mentre firma un avocado (Fox Photos/Getty Images)

Nel corso del Settecento raccogliere manoscritti e firme autografe di personaggi celebri vissuti in quell’epoca o anche in passato diventò per molti una specie di hobby che aveva un duplice scopo: preservare il valore documentale del manoscritto e allo stesso tempo elevare il proprio status sociale. A partire dall’Ottocento cominciò a crearsi un vero e proprio mercato dei manoscritti e in particolare delle firme autografe, ma è solo verso la fine del secolo che si cominciò a parlare del fenomeno in termini di “patologia” e di fanatismo.

Secondo History Today, i motivi che contribuirono a sviluppare questa ossessione verso le firme autografe furono diversi. Da una parte alla scrittura a mano veniva attribuita un’aura di importanza sulla base di nuove discipline che oggi vengono considerate pseudoscientifiche, come la grafologia, che presumeva di delineare il carattere di una persona (e le potenziali tendenze criminali) semplicemente analizzandone la grafia; dall’altra, la preminenza dei documenti autografi era messa in discussione dalla macchina da scrivere e dal telegrafo, invenzioni che si stavano affermando proprio in quel periodo.

Come una sorta di reazione a queste innovazioni tecnologiche, i collezionisti dell’Ottocento in qualche modo erano affascinati – e spesso ossessionati – da una forma di comunicazione più autentica e intima come quella della scrittura a mano. Per fare solo un esempio che dia la dimensione del fenomeno, l’attivista per i diritti delle donne Laura Ormiston Chant nel 1890 fece un tour di quattro mesi negli Stati Uniti, in cui tenne discorsi in varie città parlando tra le altre cose di una questione che le stava molto a cuore, cioè l’astinenza dall’alcol. Durante i quattro mesi del suo viaggio, ricevette più di 1.300 richieste di autografo.

Il vero collezionista di autografi si vantava di non estorcere le firme della sua raccolta, ma spesso chi aveva questa mania ricorreva ai mezzi più disparati per ottenerle: il Leicester Chronicle nel 1887 raccontò di un collezionista di Chicago che si finse un corriere per intrufolarsi nella Camera dei comuni britannica e avere la firma di qualche parlamentare.

Un altro esempio lo fornisce Oscar Wilde, celebre scrittore irlandese. Wilde raccontò che per un viaggio, sempre negli Stati Uniti, fu costretto ad assumere tre assistenti, uno per ricevere i fiori, un altro che aveva il compito di tagliarsi delle ciocche di capelli da allegare alle lettere al posto di Wilde (una cosa che sembra fosse molto richiesta dai fan) e infine un assistente per firmare gli autografi, che sviluppò in breve tempo la sindrome del tunnel carpale.

La prima firma da regina della regina Vittoria (Oli Scarff/Getty Images)

Il fanatismo per gli autografi nel Regno Unito si sviluppò come conseguenza del culto per le anticaglie e per gli oggetti di epoche passate, molto in voga nell’età Vittoriana. La stessa regina Vittoria aveva l’abitudine di raccogliere firme di parenti e conoscenti su un ventaglio, che le era stato donato dal Principe e dalla Principessa di Galles proprio con quel preciso scopo.

Anche negli Stati Uniti c’era l’abitudine di firmare alcuni oggetti insoliti per la nostra epoca, come una targa con lo spazio sufficiente per 50 firme. La targa era composta da un cartone a forma di disco, che poi veniva usato per farne un calco in porcellana una volta esaurito lo spazio per gli autografi. Venivano riempite di firme anche tovaglie di lino, trapunte, anelli sigillo (sul quale l’autografo era inciso) e vestiti: History Today, citando alcuni giornali dell’epoca, racconta in particolare di due casi, quello di una donna belga che si fece firmare il suo abito da sposa dagli invitati al matrimonio, nel 1900, e quello di un operatore del telegrafo di nome P. W. Williams, che girava con un grosso e pesante cappello da cowboy pieno di firme di personaggi famosi.

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