Ci sono sempre meno monaci trappisti

Per via di uno stile di vita ormai poco attraente, le birre che producono rischiano di perdere la certificazione che si sono dati loro stessi

Un membro dell'abbazia di St. Joseph, a Spencer, Massachusetts, nel 2014 (AP Photo/Stephan Savoia)
Un membro dell'abbazia di St. Joseph, a Spencer, Massachusetts, nel 2014 (AP Photo/Stephan Savoia)

«Il nostro abate scherza sul fatto che una volta ce n’erano 15, abbastanza per una squadra di rugby, ma ora ce ne sono solo 12, una squadra di calcio più una riserva» ha raccontato al Wall Street Journal Fabrice Bordon, brand ambassador di Chimay, una delle più note birre trappiste al mondo, prodotta dall’abbazia trappista belga di Notre-Dame de Scourmont da quasi 160 anni. Ma Chimay, come tutte le birre che dipendono dalla supervisione dei monaci Cistercensi della Stretta Osservanza – meglio noti come trappisti –, deve confrontarsi con un problema: i monaci sono sempre meno e le abbazie fanno sempre più fatica a trovare persone desiderose di entrare nell’ordine.

La scarsità di nuovi monaci trappisti ha cause simili a quella riscontrata in altri ordini religiosi. I monaci sono invecchiati e nel frattempo il mondo si è secolarizzato sempre di più. La vita monastica, fatta di meditazione, lavoro e rinunce, attrae ormai pochissime persone. Nel caso dei trappisti, poi, reclutare nuovi membri è ancora più difficile perché la regola dell’ordine impedisce loro di aprirsi al mondo oltre una certa misura. A differenza di altri ordini religiosi, per esempio, fanno un uso molto limitato dei cellulari e di internet.

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Come spiega il Wall Street Journal, connessa alla sopravvivenza dei trappisti c’è anche quella delle birre che da loro prendono il nome. Per essere definita “trappista”, infatti, una birra deve disporre del logo esagonale nero che recita Authentic trappist product (“Autentico prodotto trappista”) e certifica la presenza di una serie di requisiti: la produzione deve avvenire nell’ambito di un’abbazia trappista, deve essere eseguita oppure sorvegliata da monaci trappisti, i processi e le modalità devono essere decisi dalla comunità monastica e i ricavi devono servire a finanziare le attività dell’abbazia (o devoluti in beneficenza).

Per quanto riguarda il metodo di lavorazione, non c’è uno specifico tipo di birra che è riconosciuto come trappista. Spesso hanno un grado alcolico piuttosto elevato, e per produrle si utilizzano solo prodotti naturali, ma per il resto ciò che le distingue è chi le fa, non come. Nonostante la fama, in realtà le birre dei monaci trappisti oggi non sono tra le più apprezzate dagli intenditori di birre artigianali. Nell’ultima classifica di RateBeer, uno dei siti più autorevoli in fatto di recensioni di birre, non c’è neanche un monastero trappista tra i 50 migliori birrifici al mondo.


Il logo fu un’idea di otto abbazie che insieme, nel 1997, crearono l’Associazione Trappista Internazionale per tutelarsi dai numerosi tentativi di imitazione che andavano avanti da anni. Attualmente i marchi di birra che hanno il logo sono undici in tutto il mondo. Cinque sono belgi, due olandesi, uno americano, uno britannico, uno austriaco e uno italiano, quello della birra Tre Fontane, prodotta nell’abbazia omonima di Roma, sulla via Laurentina.

Fino a poco tempo fa anche la birra Achel, prodotta dall’abbazia di San Benedetto ad Hamont-Achel (Belgio), possedeva il logo. Poi, proprio a causa della mancanza di monaci nella comunità che sorvegliassero la produzione, lo scorso gennaio il marchio ha dovuto abbandonare la definizione ufficiale di prodotto trappista, dopo che gli ultimi due monaci rimasti erano stati trasferiti in un altro monastero a causa dell’età molto avanzata. La birra Achel continuerà a essere prodotta, ma senza il logo nero. «Quando i pochi monaci rimasti sono tutti vecchi, a nessun giovane viene in mente di farsi monaco» ha detto al Wall Street Journal lo storico Jef van den Steen. In tutto il Belgio ci sono circa un centinaio di monaci trappisti.

L’ordine nacque nella seconda metà del Seicento per volere dell’abate del monastero cistercense di Notre-Dame de la Trappe, in Francia, da cui deriva il nome. L’abate riteneva che i cistercensi si fossero troppo allontanati dai dettami della regola del loro ordine, e che avessero sviluppato uno stile di vita troppo rilassato. Perciò dal 1664 impose un ritorno all’antica disciplina, introducendo il divieto quasi totale di parlare, le penitenze corporali e una dieta priva di carne e pesce. È questo il motivo per cui l’ordine di questi monaci si chiama “della Stretta Osservanza”. Per anni rimasero nominalmente nell’ordine cistercense, poi nella prima metà dell’Ottocento se ne separarono ufficialmente.

A quell’epoca i trappisti non erano gli unici monaci a dedicarsi alla produzione di birra per il proprio sostentamento, ma nel corso del Novecento i loro birrifici aumentarono ed ebbero più fortuna rispetto a quelli degli altri ordini. I monaci raffinarono sempre di più le tecniche di lavorazione, e la birra trappista diventò famosa e apprezzata in modo particolare, anche quella prodotta fuori dai tradizionali monasteri belgi. Quello americano, che si trova a Spencer, in Massachusetts, esiste dal 1950 ma ha una storia più antica: la comunità monastica di Spencer deriva da quella francese migrata in Canada a metà Ottocento a causa dei moti rivoluzionari, che si trasferì poi negli Stati Uniti.

La comunità trappista italiana che produce la birra Tre Fontane, invece, risiede a Roma dal 1868, da quando il papa le diede il compito di risistemare il sito e bonificarlo. In cambio, ricevettero in enfiteusi (una sorta di concessione perenne) 450 ettari di terreno intorno all’abbazia. Oltre alla birra, che ha ricevuto il marchio esagonale solamente dal 2014, i monaci producono olio, miele, cioccolato e liquori.

Oggi i monasteri trappisti in tutto il mondo hanno modificato alcuni dei tratti più rigidi della loro regola, per adattarsi alla modernità e cercare di sfruttarne almeno un po’ i vantaggi, che nel loro caso si traducono in maggiori ricavi per sostenersi. Tra gli esempi di apertura c’è l’abbazia di Saint Sixtus, che ha attivato di recente la possibilità di ordinare online i suoi prodotti. Oppure quella di Scourmont, dove viene prodotta la Chimay, che ha ristrutturato alcune celle per renderle più confortevoli e attrarre quei turisti che cercano pace, silenzio e tranquillità. «Ma non è un hotel», ha specificato il brand ambassador Bordon. «Bisogna comunque rispettare le regole».

Nonostante le aperture, non è chiaro come i monaci trappisti – e i loro prodotti – potranno evitare il declino in corso senza snaturarsi e perdere la propria identità. Secondo Manu Pawels, responsabile del marketing del marchio belga Westmalle, «i monaci credono in Dio, e sperano che sarà lui a risolvere la questione».

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