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  • Lunedì 18 gennaio 2021

L’abbattimento in Iraq dell’aereo di Bellini e Cocciolone, trent’anni fa

La storia dei due militari italiani che restarono per 47 giorni prigionieri degli iracheni durante la prima guerra del Golfo

Un fotogramma del video dell'interrogatorio al capitano Maurizio Cocciolone diffuso dalla tv irachena il 20 gennaio 1991, due giorni dopo che il militare era stato fatto prigioniero
Un fotogramma del video dell'interrogatorio al capitano Maurizio Cocciolone diffuso dalla tv irachena il 20 gennaio 1991, due giorni dopo che il militare era stato fatto prigioniero

Trent’anni fa, nella notte fra il 17 e il 18 gennaio del 1991, durante la prima guerra del Golfo, un aereo cacciabombardiere Tornado dell’aeronautica militare italiana fu abbattuto dalla contraerea irachena. I membri dell’equipaggio – il pilota, maggiore Gianmarco Bellini, e il navigatore, capitano Maurizio Cocciolone – furono fatti prigionieri. L’aereo abbattuto era uno degli otto cacciabombardieri che facevano parte del contingente italiano dell’operazione “Desert Storm” (Tempesta nel Deserto), composta da 35 paesi e guidata dagli Stati Uniti, che aveva lo scopo militare di ripristinare la sovranità dell’emirato del Kuwait che era stato invaso e annesso all’Iraq nell’agosto del 1990.

I bombardamenti sull’Iraq degli Stati Uniti e dei suoi alleati erano iniziati nella notte fra il 16 e il 17 gennaio del 1991, allo scadere dell’ultimatum imposto dalle Nazioni Unite all’Iraq, guidato da Saddam Hussein, per il ritiro dal Kuwait. Dopo molti voli di addestramento, nella notte tra il 17 e il 18 gennaio 1991 decollò anche la prima missione operativa dei cacciabombardieri italiani. Oltre all’aereo di Bellini e Cocciolone, facevano parte della missione – nello spazio aereo controllato dagli iracheni – anche gli altri sette cacciabombardieri italiani e una formazione di aerei alleati.

La missione aveva l’obiettivo di colpire un deposito di munizioni e mezzi nell’Iraq meridionale, a nord-ovest di Kuwait City. L’aereo di Bellini e Cocciolone, che erano partiti dalla base di Al-Dhafra, nelle vicinanze di Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti, fu l’unico a riuscire ad arrivare sull’obiettivo e colpirlo. Gli altri aerei infatti non riuscirono a effettuare il rifornimento in volo per le forti turbolenze, cosa che invece a Bellini e Cocciolone riuscì, e furono costretti a tornare alla base.

Bellini, che era il comandante, ricevette dal comando dell’operazione il permesso a proseguire la missione, come era previsto anche in caso che l’attacco fosse portato da un solo aereo e nonostante il rischio di essere obiettivo della contraerea nemica. Il cacciabombardiere italiano bombardò il deposito iracheno attorno alle 4 e 30 del mattino del 18 gennaio, ma pochi secondi dopo fu colpito dalla contraerea irachena e i due militari italiani dovettero lanciarsi dall’aereo con il seggiolino eiettabile.


Il Tornado venne dato per disperso e per due giorni non si ebbero notizie dei due militari italiani. Il 20 gennaio la tv di stato irachena mostrò le immagini di alcuni prigionieri della coalizione internazionale, fra cui il capitano Maurizio Cocciolone. Il militare italiano, in un video in cui veniva interrogato dagli iracheni, mostrava sul volto segni che facevano pensare che fosse stato picchiato.

Durante l’interrogatorio, oltre a fornire le informazioni sul suo grado, sul suo reparto d’appartenenza e sulla missione durante la quale era stato abbattuto, rispondendo a una domanda su cosa pensasse a proposito della guerra del Golfo e della «aggressione all’Iraq», Cocciolone rispose: «La guerra è un modo sbagliato di risolvere un problema politico. La guerra è una brutta cosa. Credo che la soluzione migliore sia trovare strumenti politici per porre fine al conflitto». Cocciolone mandò poi un messaggio ai suoi genitori, chiedendo loro di non preoccuparsi perché stava «abbastanza bene».


Le immagini dell’interrogatorio a Cocciolone ebbero larga diffusione sui media, non soltanto italiani, e colpirono molto l’opinione pubblica. Il capitano italiano apparve infatti molto provato, non solo fisicamente ma anche psicologicamente, e l’opinione prevalente fu che quello che disse durante l’interrogatorio gli fosse stato estorto dai suoi carcerieri.

Le autorità irachene non fornirono informazioni sulla sorte del maggiore Gianmarco Bellini: in Italia per settimane si temette che fosse stato ucciso o che fosse morto per non essere riuscito a espellersi dall’aereo. Il 3 marzo, 47 giorni dopo la cattura, e dopo la resa da parte dell’esercito iracheno, entrambi i militari furono rilasciati dalle autorità irachene e trasportati su una nave ospedale degli Stati Uniti nel Golfo Persico. Dopo la liberazione Bellini e Cocciolone raccontarono di essere stati separati immediatamente dopo la cattura, e di aver subito violenze fisiche e psicologiche. Bellini disse di non ricordare nulla dei primi giorni di detenzione (sospettava di essere stato «pesantemente drogato») e che i suoi carcerieri durante gli interrogatori gli ripeterono più volte che l’avrebbero ucciso.

A Bellini, ma non a Cocciolone, fu assegnata la Medaglia d’argento al valor militare per essere riuscito «a effettuare, in presenza di condizioni meteorologiche avverse, il previsto rifornimento in volo e decideva, con chiaro sprezzo del pericolo e senza esitazione, di continuare da solo la missione che gli era stata affidata» e per aver mantenuto «in mani nemiche, un contegno fermo ed esemplare, nonostante le violenze fisiche e morali subite. Chiaro esempio di professionalità, dedizione e coraggio, degno erede di una luminosa tradizione».

Negli anni Novanta Bellini venne prima promosso a tenente colonnello, poi a colonnello. Si è ritirato dal servizio attivo nel 2012 con il grado di generale di brigata aerea e da anni vive a Virginia Beach, in Virginia, negli Stati Uniti. Il 15 aprile 2015 è stato nominato dal ministro degli Esteri console onorario d’Italia a Norfolk, in Virginia. Dopo la prima guerra del Golfo, Cocciolone fu invece promosso a maggiore e successivamente a tenente colonnello e colonnello: con questo grado ha partecipato alle missioni della NATO nell’ex Jugoslavia e in Afghanistan.