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  • Mercoledì 29 aprile 2020

La Svezia rimane un caso

Nel paese europeo che ha adottato meno restrizioni non c'è stata la strage che alcuni avevano previsto, e i morti sono meno che altrove: ma i problemi non sono mancati

Alcuni clienti di un ristorante di Stoccolma, 26 aprile 2020 (Jessica Gow / TT kod 10070/AP Photo)
Alcuni clienti di un ristorante di Stoccolma, 26 aprile 2020 (Jessica Gow / TT kod 10070/AP Photo)

Ora che la maggior parte dei paesi europei stanno lavorando per allentare le restrizioni decise per il coronavirus, ce n’è uno che dovrà fare molti meno sforzi di altri. Per tutto il picco dell’epidemia la Svezia non ha mai imposto restrizioni particolari agli spostamenti dei cittadini, e ha tenuto aperte certe scuole, bar, negozi e ristoranti, affidandosi soprattutto alla responsabilità individuale delle persone nel seguire alcune precise norme di sicurezza. Il risultato dell’approccio svedese – molto discusso e criticato all’estero – non ha prodotto le stragi che alcuni commentatori avevano previsto, e anzi sembra aver prodotto alcuni risultati positivi: per esempio un numero di morti assai inferiore a quello dei paesi più colpiti. Nonostante questo ci sono dubbi sul fatto che sia un approccio applicabile altrove, e in generale più efficace dei lockdown.

Le uniche restrizioni decise dal governo, sostenuto da partiti di centrosinistra, hanno vietato gli assembramenti da più di 50 persone, l’ingresso ai musei e le manifestazioni sportive; il governo ha poi chiuso parzialmente alcune scuole e università. Per il resto la vita va avanti come prima: si esce, ci si riunisce, i negozi sono aperti, le fabbriche producono, senza altri obblighi ma con moltissime «linee guida». I messaggi del governo si concentrano molto, per esempio, sulle precauzioni che ogni cittadino deve prendere, soprattutto sull’importanza di lavarsi bene e spesso le mani, di lavorare da casa se possibile e di rimanere il più distanti possibile nei luoghi pubblici.

Due giornalisti del New York Times che di recente hanno passeggiato per Stoccolma, la capitale del paese, hanno scritto che a prima vista non sembra che gli svedesi siano particolarmente cauti: parchi e ristoranti sono molto frequentati, anche a causa delle temperature benevole, e «le persone che camminano per strada indossando una mascherina sono generalmente osservate come se fossero appena atterrate da Marte».

Il governo ha scelto questa strategia affidandosi agli alti livelli di fiducia che i cittadini e il governo svedese ripongono nell’ente nazionale responsabile della salute pubblica. Un ente che, tra l’altro, ha una notevole autonomia dal governo, perché così è previsto dalla Costituzione svedese, e i cui esperti compaiono in tv più dei politici.

Almeno per il momento, i dati sembrano dargli ragione. I casi registrati nel paese sono circa 19mila, mentre i morti 2.355. Non sono moltissimi, per un paese da 10 milioni di abitanti: in Belgio, che ne ha 11 milioni, i morti a causa del coronavirus hanno superato i 7mila, nonostante restrizioni molto più estese. Il dato generale del numero dei morti rispetto agli anni scorsi non è altissimo: significa che le morti attribuibili al coronavirus ma non registrate probabilmente non sono molte.

A un’analisi più approfondita, però, i numeri della Svezia sono decisamente peggiori degli altri paesi nordici, simili per demografia e abitudini sociali, che invece hanno applicato molte più restrizioni. In Svezia sono state registrate 22 morti ogni 100mila abitanti mentre in Danimarca sono state solo 7, e in Norvegia e in Finlandia appena 4.

Un po’ in tutto il mondo le persone che criticano le restrizioni e i lockdown sostengono che il sistema economico non possa reggere interruzioni così prolungate. Sulla carta, quindi, la Svezia dovrebbe subire un contraccolpo economico minore rispetto ai paesi che si sono comportati diversamente. La ministra delle Finanze, Magdalena Andersson, ha fatto notare al New York Times che «parrucchieri, hotel e ristoranti sono stati meno colpiti rispetto ad altri paesi». Eppure nel 2020 il PIL si contrarrà del 7 per cento, una stima in linea con gli altri paesi europei e inevitabile a causa della dipendenza del paese dalle esportazioni.

Nelle ultime settimane, inoltre, il governo sta ricevendo diverse critiche per gli eccessivi poteri dati ai propri tecnici – di recente 22 esperti hanno scritto una lettera aperta a un importante quotidiano per chiedere che i politici si prendano più responsabilità – e soprattutto per come ha gestito la diffusione del contagio nelle case di cura (un problema comune a diversi paesi europei, fra cui l’Italia). Secondo un calcolo di BBC News, circa la metà dei morti per coronavirus nel paese erano ospiti in una casa di cura.

Sembra che nelle fasi iniziali poche strutture avessero a disposizione protezioni sufficienti, e che i protocolli nazionali prevedevano di usarle soltanto a contatto con pazienti positivi: quindi molto saltuariamente, col rischio di passare il virus anche agli ospiti sani. Dopo un primo divieto, a un certo punto sono state anche permesse le visite dei parenti.

La direttrice di una casa di cura ha raccontato al New York Times che le autorità sanitarie le avevano anche ordinato di togliere un cartello che vietava le visite all’entrata della struttura. La direttrice si è rifiutata. «Gli ho detto che potevano anche arrestarmi», ha aggiunto: «Ero pronta a rischiare una punizione per difendere i miei residenti». Probabilmente era già troppo tardi, e nei giorni successivi sono morti 11 dei 76 ospiti della struttura, una percentuale altissima.

Peter Lindgren, che dirige lo Swedish Institute for Health Economics, un centro studi che si occupa di economia sanitaria, ha detto a CNN che il sistema svedese «ha fallito nel permettere che il coronavirus fosse trasmesso nelle case di cura». Il governo ha rimediato consegnando nuovo materiale protettivo e aggiornando il protocollo, e per ora sembra che la diffusione nelle strutture abbia rallentato.

Difficilmente, però, il governo cambierà approccio. «In pratica stiamo facendo quello che fanno tutti: cercare di ridurre il contagio quanto più possibile», ha detto al New York Times Anders Tegnell, un epidemiologo che lavora come consulente statale: «È solo che abbiamo usato degli strumenti leggermente diversi».