Perché sembra ci siano meno infarti?

Lo suggeriscono dati e testimonianze da mezzo mondo, Italia compresa, ma le spiegazioni non sono confortanti: molti temono di andare in ospedale e quindi sottovalutano i sintomi

(Mario Tama/Getty Images)
(Mario Tama/Getty Images)

Secondo molti dati, ricerche e testimonianze che circolano in Italia e sui giornali internazionali, durante la pandemia di COVID-19 è calato il numero delle persone che si rivolgono a un ospedale per problemi cardiaci. Insieme a questi dati, circolano anche varie possibili spiegazioni: livelli di inquinamento più bassi, migliore controllo dell’ipertensione, maggior riposo e una riduzione generale dello sforzo fisico. Ma in generale medici e addetti ai lavori pensano che le cardiopatie e ciò che le causa non sia scomparso, e che dunque molte persone che avrebbero bisogno di cure non si stiano rivolgendo agli ospedali: starebbero dunque sottovalutando i sintomi e ritardando le cure, fino al punto di morire in casa.

Francesco Romeo, direttore della cattedra e della scuola di specializzazione in cardiologia al Policlinico Tor Vergata di Roma, un’unità operativa ad alto volume che per numero di trattamenti di infarti è tra le prime d’Italia, ha detto al Post che rispetto a marzo e aprile 2019 c’è stata una diminuzione di circa il 50 per cento dei pazienti che arrivano nei loro centri con i sintomi di un infarto. In Lombardia il dottor Bernhard Reimers, responsabile dell’unità operativa di cardiologia clinica e interventistica dell’ospedale Humanitas di Milano, ha detto che i casi sono diminuiti di circa il 70 per cento. Uno studio sull’esperienza clinica del Centro Cardiologico Monzino, un istituto di ricovero e cura a carattere scientifico specializzato sul cuore, mostra a sua volta che dall’inizio dell’epidemia sono diminuite del 40 per cento le procedure salvavita di cardiologia interventistica, mentre la mortalità per infarto acuto è quasi triplicata.

Dati e storie sono simili in tutto il mondo. La società spagnola di cardiologia ha confrontato i dati di 81 terapie intensive cardiologiche nella settimana dal 24 febbraio al primo marzo, con quelli dello stesso periodo dello scorso anno: e dicono che si sono ridotte del 40 per cento le procedure di angioplastica coronarica primaria. Secondo Héctor Bueno, a Madrid il calo potrebbe essere vicino all’80 per cento: «Nel mio ospedale (l’Hospital Universitario 12 de Octubre, ndr) abbiamo visto circa tre o quattro pazienti nell’ultima settimana, mentre il numero normale sarebbe di circa tre pazienti al giorno». Un rapporto pubblicato sul Journal of American College of Cardiology e condotto in nove strutture specializzate di tutti gli Stati Uniti ha riscontrato un calo del 38 per cento dei pazienti in trattamento per infarto acuto del miocardio rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

La spiegazione più diffusa e condivisa è che le persone stiano cercando di evitare gli ospedali per timore di essere contagiate. Pietro Gazzaniga, cardiologo all’ospedale di Crema, ha spiegato al Post che presso la struttura dove lavora per ora non hanno dati precisi, «ma l’impressione generale è che una quota di pazienti, pur in presenza di sintomi, si sia autolimitata. In un primo momento i cardiopatici sembravano essere spariti. Ora si stanno ripresentando in pronto soccorso perché hanno un peggioramento della sintomatologia iniziata anche da qualche settimana: arrivano in ritardo, per timore di contagio».

Dall’analisi dei dati del Policlinico Tor Vergata di Roma, Francesco Romeo ha detto di aver tratto due conclusioni. «Il calo di pazienti è attribuibile alla paura: chi ha un dolore tende a tergiversare e a cercare di escludere una possibile patologia da COVID-19. Quando il paziente viene da noi e gli diciamo che ha un infarto, prova un senso di rilassamento. Ha in qualche modo percepito che l’infarto è meno pericoloso del coronavirus. L’altra cosa certa è che c’è stato un incremento di tutti i tempi precoronarici, dei tempi cioè che passano da quando i pazienti sentono il dolore a quando arrivano alla struttura  per essere trattati. Si sono dunque allungati i tempi del primo contatto medico, ma anche i tempi di trasporto da un ospedale all’altro, da un ospedale più piccolo a uno più grande dove poter ricevere le cure adeguate, così come si sono dilatati i tempi di individuazione del percorso più idoneo. Dato che in questo campo “ogni minuto conta”, come dice anche una campagna d’informazione che abbiamo promosso, la situazione è ancor più drammatica».

Ci sono medici che hanno ipotizzato anche una certa volontà di “altruismo” nel non voler andare in ospedale: alcuni potenziali pazienti potrebbero cioè pensare che altre persone abbiano problemi peggiori, al momento, e potrebbero dunque scegliere di non chiamare i servizi di emergenza. Ma c’è anche la possibilità che alcune persone abbiano cercato aiuto ma non siano riuscite a essere visitate da un cardiologo.

Molti medici temono che i sintomi sottovalutati o non affrontati tempestivamente avranno come conseguenza un notevole ritardo nelle cure, e dunque una serie di complicazioni a lungo termine che comporteranno ricoveri più lunghi del necessario e maggiori rischi per la salute. «I pazienti arrivano tardi, con una patologia già evoluta e non c’è nulla di peggio di doverli prendere in carico con un infarto avanzato, una condizione che qualche anno fa era quasi non trattabile», ha detto Romeo, precisando che si stanno presentando situazioni coronariche molto complesse, «situazioni che non vedevamo ormai da almeno quindici anni».

Tutto questo non riguarda solo le patologie legate al cuore. Evert Eriksson, medico presso la Medical University of South Carolina, ha detto al Washington Post che il 70 per cento delle persone con appendicite che oggi sta curando si sono presentate tardivamente. Ha raccontato il caso di un ventenne che ha cercato di ignorare un dolore crescente alla pancia tentando di farselo passare a casa con l’aiuto di antidolorifici. «Quando si è presentato all’ospedale di Charleston, forse dieci giorni dopo il dovuto, aveva sviluppato un grande ascesso. Un intervento chirurgico regolare e una notte in ospedale si sono trasformati in un lungo e difficile ricovero ospedaliero per controllare l’infezione diffusa, passata la quale i medici potranno occuparsi dell’appendicite vera e propria».

«Dall’inizio dell’epidemia di COVID-19», ha spiegato Giancarlo Marenzi, responsabile dell’Unità di Terapia Intensiva Cardiologica del Centro Cardiologico Monzino, «i pazienti arrivano in ospedale in condizioni sempre più gravi, spesso già con complicanze aritmiche o funzionali, che rendono molto meno efficaci le terapie che da molti anni hanno dimostrato di essere salvavita nell’infarto, come l’angioplastica coronarica primaria». Il motivo, dice, «risulta molto chiaro in tutti i paesi maggiormente colpiti dalla pandemia: il virus, che non sembra avere un ruolo primario nell’infarto, spinge la gente a rimandare l’accesso all’ospedale per paura del contagio. Purtroppo però questo ritardo è deleterio e spesso fatale, perché impedisce trattamenti tempestivi e nell’infarto il fattore tempo è cruciale».

Oltre alla paura di andare in ospedale, sono state fatte anche altre ipotesi per trovare, almeno in parte, una spiegazione al calo dei dati: anche i diversi cambiamenti comportamentali creati dall’isolamento potrebbero avere avuto un ruolo. Molte persone che soffrono di angina da sforzo ora sono sedute a casa piuttosto che al lavoro, e questo può aver ridotto gli stress quotidiani. Diversi cardiologi hanno ipotizzato che i loro pazienti, chiusi in casa, siano meno attivi, che dormano di più e che la vita che stanno conducendo sia dunque esente da stress psicofisici, che hanno un ruolo molto importante nelle sindromi coronariche acute. Potrebbero anche fumare meno, dicono alcuni, perché sanno che i polmoni sono colpiti da questo virus. Alcuni medici citano infine la diminuzione dell’inquinamento atmosferico e un minor numero di pasti ad alto contenuto di grassi dopo il lavoro. «Valutando i dati», ci spiega Francesco Romeo, «ho la sensazione che ci sia stata una minima effettiva riduzione, forse dovuta a una modifica dello stile di vita, pari secondo me al 15-20 per cento. La gente non va in giro, non ha stress. Stiamo comunque approfondendo».

La cosa fondamentale, ora, è comunque che le persone «oltre a mantenere comportamenti corretti per evitare il contagio, continuino a fare attenzione ai sintomi cardiaci e, quando presenti, accedano senza esitazione e paura all’ospedale, per farsi curare in tempo», ha spiegato in un comunicato Antonio Bartorelli, responsabile della cardiologia interventistica del Centro Cardiologico Monzino. «Il rischio», dice Romeo, «è vanificare in questi due mesi vent’anni di campagne di informazione che mostrano l’importanza di rivolgersi subito al pronto soccorso in caso di segnali di infarto, come dolore al petto e difficoltà a respirare: ogni 10 minuti di ritardo nella diagnosi e nel trattamento dell’infarto, la mortalità aumenta del 3 per cento. Se si ritarda di mezz’ora, quindi, muore il 10 per cento in più dei pazienti».