Com’è la situazione in Piemonte

È la terza regione per numero di contagi e di morti, e le difficoltà e i problemi principali ricordano quelli della Lombardia

(ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO)
(ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO)

Dal 31 marzo il Piemonte è la terza regione per casi accertati di coronavirus in Italia, dopo Lombardia ed Emilia-Romagna. Ma fin dalle prime fasi dell’epidemia, il Piemonte è stata la terza regione per numero di morti risultati positivi alla COVID-19: anche quando era dietro al Veneto per numero di contagi confermati. Attualmente il Piemonte ha confermato 17.134 casi di coronavirus, e 1.826 decessi: quasi la metà a Torino (763), la provincia più colpita, seguita da quella di Alessandria (366), Novara (185), Cuneo (131), Biella (125), Vercelli (100), Asti (95) e Verbano-Cusio-Ossola (88).

La situazione in Piemonte è, stando ai numeri, simile a quella in Emilia-Romagna; le difficoltà principali emerse in queste prime settimane di epidemia ricordano molto invece quelle segnalate in Lombardia, seppure più in piccolo. Negli ultimi giorni, in particolare, stampa ed esperti hanno sottolineato il basso numero di tamponi eseguiti, la grande preoccupazione per i contagi domestici in quei nuclei familiari con casi positivi o casi fortemente sospetti, le difficoltà a cui sono sottoposti i medici di famiglia e i casi di RSA diventate focolai di COVID-19.

Contagi
I molti racconti raccolti in queste settimane dalla stampa, e le opinioni di diversi virologi ed esperti piemontesi, suggeriscono che – come per la maggior parte del Nord Italia – il numero di casi di coronavirus confermati in Piemonte siano soltanto una parte di quelli reali, per via del basso numero di tamponi eseguiti. Volendo comunque considerare i dati ufficiali, però, fino a una settimana fa il numero di contagi totali registrati dal Piemonte era più o meno stabilmente di circa 4.700-5.000 in meno dell’Emilia-Romagna: da allora questa distanza si sta riducendo un po’, ed è oggi di circa 3.300 casi.

Questi numeri, va ripetuto, lasciano un po’ il tempo che trovano: i casi scoperti dipendono dalla quantità di tamponi fatti e analizzati, che peraltro subisce variazioni significative non solo man mano che viene allargata ma anche a seconda del giorno della settimana. Questo avvicinamento del Piemonte all’Emilia-Romagna è stato comunque segnalato e commentato con preoccupazione negli ultimi giorni. Un altro dato rilevante è che la provincia di Torino è attualmente la quarta più colpita in Italia, stando ai dati ufficiali, dietro a Milano, Bergamo e Brescia.

Tamponi
A oggi il Piemonte ha fatto poco meno di 70mila test, cioè un terzo di quelli della Lombardia, i cui casi confermati sono però 3,5 volte di più, e del Veneto, che invece ha scoperto meno casi complessivi del Piemonte e che soprattutto ha meno della metà dei morti. Un buon modo per farsi un’idea di quanto ampio sia il bacino di persone testate dal Piemonte è considerare quanti test faccia per ogni caso positivo scoperto: sono 4, contro i 3,5 della Lombardia, i quasi 5 dell’Emilia-Romagna e gli oltre 14 del Veneto.

All’inizio dell’epidemia, i laboratori che analizzavano i tamponi per il coronavirus in Piemonte erano due: ora la rete è stata ampliata a 18 e tra pochi giorni diventeranno 20, ha detto il presidente della Regione Alberto Cirio, che ha spiegato come aumentarli sia stato «un lavoro enorme».

Terapie intensive
Ormai da inizio mese il numero di pazienti in terapia intensiva continua a diminuire, passando dal massimo del 2 aprile, 453, fino ad arrivare ai 379 attuali. In totale, prima dell’epidemia, i posti letto in terapia intensiva nella regione erano 287, «tra i più bassi di tutte le regioni» aveva detto Cirio. Oggi sono «più che raddoppiati», grazie principalmente all’ampliamento dei reparti già esistenti. Il Covid Hospital di Verduno, vicino ad Alba, inaugurato con settimane di anticipo rispetto ai piani pre-epidemia, per ora ha 12 posti tra terapia intensiva e sub-intensiva e ha accolto in totale 35 pazienti.

Ospedali e territorio
Tra gli aspetti per i quali la crisi in Piemonte ricorda, molto più in piccolo, quella in Lombardia c’è stata la gestione dell’epidemia incentrata sugli ospedali, sia per l’esecuzione dei tamponi in prevalenza sui pazienti ricoverati sia per le difficoltà, lentezze e inefficienze nell’assistenza domiciliare dei pazienti da parte dei medici di famiglia e nella sorveglianza da parte delle ASL.

È una situazione comune alla Lombardia ma diversa rispetto a quanto successo in Veneto, dove sono stati fatti fin dall’inizio tamponi in quantità massicce, grazie a investimenti appositi della regione e all’approvvigionamento anticipato di reagenti auto-prodotti per analizzare i test in laboratorio. La strada dell’autoproduzione dei reagenti è stata intrapresa la scorsa settimana anche dal Piemonte, mentre lo stesso Cirio ha ammesso i problemi nel coordinamento e nell’assistenza ai medici di famiglia, sostenendo che al suo arrivo alla guida della regione l’anno scorso trovò nella sanità «punte di straordinaria eccellenza, ma anche criticità di strumentazioni che non c’erano e di una medicina territoriale abbandonata a se stessa negli anni».

Camillo Milano, medico di famiglia ad Alessandria e segretario provinciale della FIMMG, ha spiegato al Post che «la situazione generale dei malati è ancora molto critica» e che per la sua esperienza, in una delle aree più colpite della regione, «non sta scendendo in modo significativo». Milano ha spiegato che avrebbero bisogno di «molti più tamponi», e che «se ci avessero fornito più sostegno all’inizio avremmo potuto tenere più gente a casa, con possibilità analoghe di guarigione» e minore rischio di contagi negli ospedali. 

La situazione dei medici di famiglia però è piuttosto migliorata, dice Milano. Sia perché ora hanno maggiore disponibilità di mascherine e altri materiali di protezione, donati da associazioni e da privati, sia perché adesso sono aiutati dalle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA), squadre di medici – arruolati prevalentemente tra i neolaureati – che fanno le visite a domicilio ai pazienti confermati, in supporto ai medici di famiglia.

Giovanni Di Perri, responsabile del reparto di Malattie infettive all’ospedale Amedeo di Savoia di Torino, ha spiegato a Open di aspettarsi un picco dei contagi a Torino con una settimana di ritardo rispetto a quello di Milano, essendo a suo avviso «l’epidemia piemontese figlia di quella lombarda». Come ha spiegato Di Perri, i nuovi contagi sono «antecedenti al lockdown: non avendo le risorse per fare tamponi a tappeto, molti asintomatici hanno contagiato i residenti dello stesso condominio. Un fenomeno molto evidente nei palazzi molto popolati di Torino che leggiamo nei dati di questa settimana».

RSA
Come in Lombardia, anche in Piemonte ci sono stati decine di case di riposo che hanno registrato morti e infezioni da coronavirus e che si sono ritrovate a gestire un’emergenza al di sopra delle loro possibilità e dei loro mezzi, senza istruzioni sufficienti da parte delle autorità regionali. La scorsa settimana un annuncio piuttosto confuso dell’assessora al Sociale Chiara Caucino aveva fatto circolare la stima di un terzo degli ospiti delle RSA piemontesi positivo ai test per il coronavirus. Caucino in realtà aveva detto che su un campione di 3.000 tamponi, 189 erano risultati positivi e 1.100 erano in attesa di risultato, ma erano considerati per questo «potenziali positivi».

Al di là della stima di Caucino, in tante case di riposo sono state segnalate morti sospette – diverse centinaia, secondo la CIGL locale – e contagi diffusi: dal caso di Villanova Mondovì, in provincia di Cuneo, evacuata dopo che erano risultati positivi diversi operatori, fino alla RSA Casa San Giuseppe di Grugliasco, vicino a Torino, dove a fine marzo sono morti nel giro di pochi giorni 21 pazienti su 87. La scorsa settimana Cirio ha assicurato che si sarebbe intensificata «la massiccia campagna di esecuzione di test presso le RSA del Piemonte».