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  • Sabato 9 novembre 2019

Il #MeToo della Nigeria

E di altri paesi dell'Africa occidentale, dove lo screditamento delle donne che denunciano coinvolge anche polizia e sistema giudiziario

Un momento delle proteste contro gli abusi in Nigeria (Twitter @juiciestofjays)
Un momento delle proteste contro gli abusi in Nigeria (Twitter @juiciestofjays)

Nel 2017, i racconti di molte attrici di Hollywood sulle molestie sessuali compiute dall’ex produttore cinematografico Harvey Weinstein ebbero grosse conseguenze in tutto il mondo. Tra le altre cose, spinsero molte donne a partecipare alle campagne sui social network raccontando le loro storie di abusi. Negli Stati Uniti e poi anche altrove fu usato l’hashtag #MeToo, in Italia #quellavoltache, in Francia #balancetonporc e in Cina #我也是 (#WoYeShi, cioè #MeToo). “L’effetto Weinstein” ha avuto conseguenze in America, in Europa, in alcune parti dell’Asia e anche in Africa, nonostante se ne parli sui giornali internazionali solo da pochi mesi, dopo la presa di parola di una celebre fotografa nigeriana contro un altrettanto celebre pastore della chiesa pentecostale locale.

Come nel resto del mondo, anche in molti paesi dell’Africa occidentale dopo la nascita del movimento #MeToo si attivò un potente sistema negazionista e antifemminista a difesa degli accusati e contro le donne che avevano parlato pubblicamente delle molestie subite. In Nigeria forse più che altrove, scrive il New York Times, perché lo stigma della violenza contro le donne ricade sulle donne stesse o sulle loro famiglie e perché i casi più eclatanti di molestie e abusi hanno coinvolto uomini di potere e influenti uomini di chiesa. Alcune delle donne che hanno preso parola non solo sono state attaccate e screditate, ma hanno subito minacce, intimidazioni, indagini di polizia, o sono state arrestate: «Tutto ruota attorno alla protezione di questi uomini», dice il New York Times.

Il caso che ha portato a parlare diffusamente di #MeToo in Nigeria ha a che fare con Busola Dakolo, una nota fotografa di 34 anni che ha raccontato di essere stata violentata due volte nel 2002, quando aveva sedici anni, da quello che era il pastore della chiesa pentecostale che frequentava. Quest’uomo si chiama Biodun Fatoyinbo: attualmente è a capo di una chiesa con sedi in cinque importanti città del paese, è venerato da migliaia di fedeli come una specie di star, ha uno stile molto appariscente e per questo è soprannominato “Gucci pastor”, con riferimento alla famosa azienda di moda. In un’intervista fatta lo scorso giugno, Busola Dakolo ha raccontato la propria storia e ha detto di essere stata stuprata da Fatoyinbo due volte: la prima nel salotto di casa sua una mattina presto dopo che la madre era uscita e mentre sua sorella dormiva al piano di sopra, e l’altra sul cofano dell’auto di lui. Dakolo ha spiegato che dopo gli stupri Fatoyinbo le aveva detto: «Starai bene. Dovresti essere felice che un uomo di Dio ti abbia fatto questo». La donna ha anche detto che dopo aver raccontato alla sua famiglia quello che le era accaduto, l’uomo era tornato a casa sua con altri membri anziani della chiesa, e si era scusato dicendo che la violenza sessuale era stata «una debolezza» e «un atto del diavolo».

La video intervista di Dakolo è stata vista almeno mezzo milione di volte su YouTube e le sue accuse hanno ispirato una protesta fuori dalla chiesa del pastore costringendolo a un breve congedo. A quel punto, altre donne hanno iniziato a prendere parola sui social, a raccontare le loro storie di aggressione con l’hashtag #ChurchToo e a denunciare una diffusa «cultura del silenzio» (secondo l’UNICEF, una minore di 18 anni su quattro in Nigeria è vittima di violenza sessuale). Una seconda donna, tra l’altro, si era fatta avanti raccontando di essere stata stuprata da Fatoyinbo e si ha notizia di altre tre nella stessa situazione, che però hanno deciso di non parlarne pubblicamente.

Il costo personale delle donne che più si sono esposte nel movimento contro gli stupri e le molestie è stato però molto alto. Busola Dakolo ha ricevuto minacce telefoniche, ha subito pedinamenti e aggressioni online. La Social Justice League, un’organizzazione nigeriana per i diritti umani, ha scritto una dichiarazione a favore del pastore, ingiustamente «sottoposto a pubblica umiliazione», e la polizia nigeriana ha avviato un’indagine contro Dakolo per “cospirazione criminale” e falso. «Inizi a chiederti: ho fatto la cosa giusta?», ha dichiarato lei.

Dopo alcune settimane dal congedo, il pastore è tornato al lavoro, ha dichiarato su Instagram di non aver mai stuprato nessuno in vita sua e che molte persone stavano solo cercando di screditarlo e di colpire la sua chiesa. «La nostra cultura non consente di parlare di questo genere di cose contro uomini unti da Dio» ha detto Dakota: «Si preferisce nascondere tutto e la parte vittimizzata tende a convivere con quel senso di colpa indotto. Il danno per le sopravvissute è terribile. La società, la chiesa, continuano a spazzare le cose sotto il tappeto».

La religione è molto radicata in Nigeria, un paese di quasi 200 milioni di persone, in cui circa la metà segue l’Islam (soprattutto al Nord) e l’altra metà il cristianesimo. Per le strade si vedono cartelloni pubblicitari con la faccia dei pastori più celebri, gli eventi religiosi attirano milioni di persone, alcuni predicatori vivono come star, viaggiano su jet privati, hanno stili di vita molto costosi, spesso sono più visibili dei leader politici ed esercitano, di fatto, anche un significativo potere politico. Fatoyinbo è giovane, esperto di tecnologia e predica una teologia sempre più popolare chiamata “vangelo della prosperità”, che sostiene che il successo possa essere raggiunto attraverso la fede e le donazioni alla chiesa. I fedeli entrano nel suo santuario su un tappeto rosso e seguono la sua vita – la sua festa di compleanno su uno yacht a Dubai, ad esempio – al notiziario e sui social.

Il #MeToo della Nigeria aveva comunque avuto inizio prima del racconto di Dakota, già a febbraio, quando una giovane farmacista aveva raccontato su Twitter l’aggressione che aveva subito. Come lei avevano cominciato a fare la stessa cosa altre donne, usando l’hashtag #ArewaMeToo (“arewa” significa “nord”, in lingua hausa), ma fin da subito si era cercato di fermarle. Una delle più importanti attiviste di #ArewaMeToo, Maryam Awaisu, era stata arrestata nel suo ufficio da alcuni uomini della Special Anti-Robbery Squad (SARS), un’unità molto controversa della polizia nigeriana, accusata di vari reati. Amnesty International Nigeria era intervenuta facendo pressione contro l’arresto giudicato arbitrario e Awaisu era stata rilasciata.

Oltre che in Nigeria, il movimento di denuncia contro le molestie e gli stupri si è diffuso anche grazie ai racconti di altre donne e a un’inchiesta della BBC: lo scorso giugno Fatou Jallow, vincitrice di un concorso di bellezza in Gambia, aveva raccontato di essere stata stuprata dall’ex presidente del paese, Yahya Jammeh (l’inchiesta è in corso); Naasu Fofanah, consigliera sulle questioni di genere dell’ex presidente della Sierra Leone Ernest Bai Koroma, aveva affermato di essere stata aggredita sessualmente da un dirigente della chiesa locale; poi, a ottobre, la BBC aveva trasmesso un’inchiesta intitolata “Sex For Grades” sulle molestie sessuali subite dalle studentesse in alcune università della Nigeria e del Ghana. Uno dei docenti, Boniface Igbeneghu, che è anche un pastore evangelico, era stato ripreso in video mentre pretendeva favori sessuali da una giovane donna, una giornalista sotto copertura, in cambio dell’ammissione all’università di Lagos. Lo si vede chiudere a chiave la porta del suo ufficio, spegnere le luci, molestarla, e lo si sente dire che le studentesse sono abituate a «pagare per questo», con i loro corpi.

Il filmato aveva suscitato molta indignazione, aveva causato la sospensione di almeno quattro docenti e aveva portato forza al movimento delle donne. Lola Shoneyin, scrittrice, ha raccontato della «vergogna» che aveva provato dopo essere stata toccata da un vicerettore dell’università:

Altre avevano chiesto l’allargamento dell’inchiesta ad altre università:

E altre ancora avevano proposto di concentrarsi sulle chiese:

Kiki Mordi, la protagonista dell’inchiesta di BBC, aveva affermato che quella denuncia era stata così efficace perché, per la prima volta, le persone avevano potuto vedere gli abusi «attraverso gli occhi della vittima». Dakolo ha dichiarato di essere felice per l’attenzione ricevuta da quel video, ma ha aggiunto di essere frustrata dal fatto che le persone sembrino aver bisogno di vedere un uomo colto in flagrante per prendere sul serio un’accusa: «Ma la maggior parte delle donne non ha questo tipo di prove».