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  • Giovedì 24 ottobre 2019

Il futuro dell’America è il Texas

Le ragioni le spiega il premio Pulitzer Lawrence Wright – l'autore di "The Looming Tower" – in un nuovo libro uscito da poco in Italia

Austin, Texas (Tim Monzingo/The Daily Sentinel)
Austin, Texas (Tim Monzingo/The Daily Sentinel)

Per quanto sia considerato da sempre una sorta di distillato degli Stati Uniti, o di America in miniatura, da qualche anno sempre più giornalisti ed esperti considerano lo stato meridionale del Texas anche un condensato dell’America del futuro: per via della sua economia particolarmente dinamica, che ha saputo diversificarsi e diventare sempre più indipendente dal petrolio, e anche di una popolazione che diventa ogni anno sempre meno bianca e sempre più progressista, a fronte di una ridimensionata ma molto bellicosa maggioranza conservatrice. Le grandi città del Texas – Houston, Dallas, Austin, San Antonio – sono infatti da tempo tra quelle che crescono di più dal punto di vista economico e demografico, e questo ha reso il Texas anche uno stato molto meno conservatore che in passato: alle elezioni presidenziali del 2016 Hillary Clinton ha perso in Texas con un distacco minore di quanto abbia perso in Ohio, considerato lo “stato in bilico” per eccellenza, e alle elezioni di metà mandato del 2018 un candidato del Partito Democratico è arrivato vicinissimo a vincere un seggio al Senato battendo il famoso senatore Ted Cruz del Partito Repubblicano. Il Texas è anche al centro di quasi tutte le discussioni statunitensi sull’immigrazione: è uno stato di confine – probabilmente LO stato di confine – ed è quello nel quale dovrebbe sorgere di gran lunga la più ampia porzione del muro che l’amministrazione Trump intende costruire.

Il giornalista americano Lawrence Wright – che ha vinto il premio Pulitzer nel 2007 per The Looming Tower, da cui è stata tratta una popolare serie tv – è texano e nel 2017 mise per iscritto queste riflessioni in un lungo e discusso articolo uscito sul New Yorker, intitolato “Il futuro dell’America è il Texas”. Wright ha poi espanso i contenuti dell’articolo in un libro, che ora è uscito in Italia per NR Edizioni tradotto da Paola Peduzzi, giornalista del Foglio. Il libro si intitola Dio salvi il Texas – Viaggio nel futuro dell’America. Di seguito un estratto.

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“Sottile” è la parola che il mio amico Steve ha usato in una mite mattinata di febbraio, mentre eravamo in macchina sotto una pioggerellina spugnosa, diretti a San Antonio. Si riferiva al piacere che provi osservando i paesaggi del Texas – quel piacere piccolo, quel piacere che richiede consapevolezza – anche se ciò che avevamo davanti era una sterminata area commerciale abbarbicata a un’interstatale affollata. “Sottile” non è una parola che usualmente viene associata al Texas, e mi ha fatto pensare.

Ci sono paesaggi perfetti che scopri camminando: si rivelano in modo così intimo che ti ritrovi ad andare fuori strada per farli tuoi, tutti quanti; ci sono paesaggi che apprezzi meglio in auto, se vai a una velocità ragionevole; e ci sono paesaggi che invece vuoi superare, oltrepassare, dimenticare il prima possibile. Per me buona parte del Texas ricade in quest’ultima categoria. Persino Steve ammette che il Texas è il luogo in cui “ogni cosa si esaurisce”: il sud, le grandi pianure, il Messico, il massiccio del West – ogni cosa sgocciola verso un finale privo di entusiasmo, spogliata della gloria che invece altrove riesce a mostrare. Ma nel cuore del Texas c’è anche un altro paesaggio, da godersi in bicicletta: si muove pesante, come un cavallo che galoppa appena, oltre i fiori di campo e i trilli dei tordi della Hill Country (la regione centrale dello stato, tra Austin e San Antonio, ndt). Le nostre bici erano nel bagagliaio del camioncino. Stavamo per esplorare le cinque missioni spagnole lungo il fiume San Antonio, nominate di recente patrimonio dell’umanità dell’Unesco.

Steve è Stephen Harrigan, il mio migliore amico da molti anni, un famoso romanziere che sta scrivendo una storia del Texas. Ci siamo fermati a un Buc-ee’s fuori da New Braunfels a prendere del Gatorade per il viaggio. È il più grande negozio di generi alimentari al mondo – soltanto in Texas questo genere di primato ha un significato. Con le sue 120 pompe di benzina potrebbe essere anche la più grande stazione di servizio del mondo, e i suoi 83 bagni hanno ottenuto almeno in un’occasione il premio di Migliore Toilette d’America. I cartelloni sono eloquenti: “Due Motivi per Fermarsi da Buc-ee’s: la numero 1 e la numero 2, e dei servizi igienici da non crederci finché non ci fai la pipì dentro”.

Ma fare benzina o fare pipì non sono le attrazioni distintive di Buc-ee’s. L’attrazione è il Texas, o meglio quegli oggetti che nell’immaginario di gran parte del mondo evocano il Texas: fibbie enormi, barbecue, musica country, stivaletti di serpente in kevlar, corde (una corda intrecciata per formare una parola, come per esempio “Howdy!”, incollata sul dipinto di una bandiera del Texas), fondine (anche se nessuna pistola vera), magliette (“Have a Willie Nice Day”), adesivi per paraurti (“Do not Mess with Texas”), ogni cosa immaginabile fatta a forma di Texas e libri classificati come “Texana”. Di solito c’è anche una pila di “The Gates of the Alamo”, il romanzo bestseller di Steve.

Da ultimo è diventata popolare un’immagine che compare sulle T-shirt, sugli adesivi per paraurti e sui misurini del whisky: un cannone nero e lo slogan leggendario “Come and Take It”. La frase ha una lunga storia, risale alla battaglia delle Termopili, e fu pronunciata da Leonida I, re di Sparta, in risposta alla richiesta del persiano Serse di abbandonare le armi: “Vieni a prenderle”. In Texas, il riferimento è a una battaglia del 1835, all’inizio della rivoluzione, quando le forze messicane marciarono sull’avamposto di Gonzales, nel sud dello stato, per rientrare in possesso di un cannone di bronzo che era stato prestato alla città per difendersi dagli indiani. I cittadini ribelli issarono una bandiera fatta con il tessuto di un abito da sposa, che oggi è diventata l’emblema del movimento a favore delle armi. Il senatore texano Ted Cruz aveva una spilletta con scritto “Come and Take It” mentre, al Senato degli Stati Uniti, cercava di impedire il passaggio della riforma sanitaria nel 2013.

A Buc-ee’s, c’è tutto l’occorrente per chi aspira a essere un “perfetto texano”, non soltanto per l’abbigliamento, ma anche per tutto ciò che ha a che fare con gli stereotipi culturali e filosofici che rappresentano il Texas: l’individualismo da cowboy, la gentilezza sospettosa, il superpatriottismo combinato con il disprezzo per tutto ciò che sa di autorità dello stato, la lamentela permalosa, la nostalgia per un passato fittizio che è in gran parte un prodotto di Hollywood – in altre parole: una società senza pretese che trova la sua massima espressione in una fermata dell’autobus sull’interstatale.

Ho vissuto in Texas gran parte della mia vita, e ho imparato ad apprezzare ciò che lo stato rappresenta, sia per chi ci abita, sia per chi ci osserva da fuori. I texani si considerano dei gran lavoratori, fiduciosi, immuni alle nevrosi – un distillato delle migliori qualità dell’America. Gli stranieri considerano invece il Texas la carta d’identità nazionale, il luogo in cui si scatenano gli impulsi nascosti e turbolenti degli americani. Pensano che i texani celebrino l’individualismo in modo cieco e che considerino il governo la kryptonite che indebolisce i muscoli imprenditoriali. Siamo considerati degli sbruffoni, noncuranti dei nostri soldi e delle nostre vite personali, un po’ ingenui ma pure pericolosi se provocati, insicuri ma ossessionati dal potere e dal prestigio. In effetti, fa sorridere che la figura che più incarna i valori che le persone associano al Texas sia un miliardario narcisista di Manhattan che ora sta seduto nello Studio Ovale.

Naturalmente queste stesse caratteristiche esercitano anche un grande fascino. Il Texas cresce da decenni a tassi stupefacenti. L’unico stato più popoloso è la California, ma secondo le previsioni il numero di texani raddoppierà entro il 2050, raggiungendo i 54,4 milioni, cioè la somma degli abitanti della California e di New York. Tre città del Texas – Houston, Dallas e San Antonio – sono già tra le prime dieci città più popolose degli Stati Uniti. L’undicesima è Austin, la capitale, dove viviamo Steve e io. Negli ultimi cinque anni è cresciuta a ritmi superiori rispetto alla media nazionale, l’area metropolitana ha sorpassato i due milioni di persone: la piccola città universitaria di cui ci innamorammo Steve e io molti anni fa è soltanto un ricordo.

Quando dici “texano”, pensi subito al concetto di prestazione. Gli stivali, i camioncini, i cannoni, la postura – ogni cosa contribuisce a formare lo stereotipo classico del texano, ma spesso si tratta di una messinscena. Le scelte di stile, come l’abbigliamento o le macchine che noi texani amiamo guidare, rafforzano il nostro senso di identità, ma aumentano anche l’alienazione che spesso i non-texani provano per questo stato.

Sopra i vecchi stereotipi poi ci sono quelli nuovi – gli hipster, i guru informatici, i musicisti, i magnati dei videogiochi e gli artisti che hanno rimodellato l’immagine dello stato e il modo in cui noi stessi ci consideriamo. Questo nuovo Texas non può essere appiccicato su una tazza o su un paraurti. “Sono la persona meno texana che conosco,” disse una volta Steve. Non l’ho mai visto con addosso qualcosa di vagamente riconducibile a un cowboy e nemmeno con un paio di jeans. Non ha più portato un paio di stivali dopo i sei anni. Al college era stato obbligato a fare equitazione nelle ore di educazione fisica e aveva preso voti bassissimi. Sostiene che si trattò di un errore di battitura, ma l’ultima volta che è salito su un cavallo è caduto e si è rotto un braccio.

Non credo che io e Steve saremmo durati molto in Texas se lo stato fosse rimasto com’era quando stavamo crescendo, ma siamo così impregnati della cultura di questo posto che è impossibile scrollarcela di dosso. Però entrambi abbiamo pensato di andarcene e ci siamo chiesti spesso: perché siamo rimasti? Ho considerato più volte l’ipotesi di trasferirmi a New York, dove vive la maggior parte dei miei colleghi, o a Washington, che è il paese dei balocchi dei giornalisti politici. Ma lì non mi sono mai sentito a casa. Washington è una città a senso unico, e pure se gli scrittori hanno molta influenza, stanno di fatto sugli spalti a osservare l’azione degli altri. Gli intellettuali di New York a volte mi escludono, con le loro certezze liberal e il loro giudizio pronto su chi è diverso da loro. La città è un alveare ronzante di indignazione, ma in ogni caso, penso di essere troppo rustico per sopravvivere lì. Una volta, mentre camminavo sulla Sesta Avenue a Manhattan, vidi un uomo anziano ben vestito in piedi sul marciapiede. Girava su se stesso formando piccoli cerchi. Tutti i miei pregiudizi contro la città sono emersi in un colpo solo: c’era un uomo solo evidentemente bisognoso, ma la gente camminava e andava, indifferente. In Texas, non permetteremmo a un vecchietto confuso di mettersi in pericolo. Mi sono avvicinato come farebbe un qualsiasi texano e ho chiesto: “Tutto bene?”.

Mi ha guardato perplesso: “Sto aspettando un taxi”.