Le persone migreranno a causa del clima

La domanda non è se, ma quando e in che proporzioni, anche se al momento il diritto internazionale non le riconosce

Un campo per rifugiati a Dadaab, in Kenya. (Oli Scarff/Getty Images)
Un campo per rifugiati a Dadaab, in Kenya. (Oli Scarff/Getty Images)

Una delle previsioni più citate e allarmanti sulle conseguenze del riscaldamento globale e del cambiamento climatico sulla vita sulla Terra è quella che riguarda i cosiddetti migranti climatici, cioè le persone che saranno costrette a lasciare la propria casa e la propria terra di origine per circostanze ambientali. Spesso, infatti, si dice che entro il 2050 i migranti climatici potrebbero essere 200 milioni, un numero esorbitante che supererebbe addirittura il numero attuale di persone sfollate sul pianeta.

Gli scienziati e gli esperti di migrazioni invitano a trattare con molta cautela questa stima, che è stata in parte ridimensionata dal suo stesso autore: ma la questione dei migranti climatici è comunque una delle più rilevanti e potenzialmente pericolose tra quelle legate al cambiamento climatico, e da molti anni organizzazioni internazionali ed esperti avvisano che sarà un fenomeno con cui dovremo certamente fare i conti. E non sarà facile.

Già nel 1990 l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), il comitato dell’ONU che si occupa dei cambiamenti climatici, aveva sottolineato che le migrazioni avrebbero potuto essere la conseguenza più rilevante di quella che, negli anni successivi, in molti avrebbero proposto di definire “crisi climatica”. La stima dei 200 milioni di migranti climatici entro il 2050 fu proposta da un professore di Oxford, Norman Myers, e successivamente accettata e citata dall’IPCC e da moltissime rispettate organizzazioni che si occupano di ambiente e clima.

È una cifra altissima: una persona su 45 tra quelle che vivono in tutto il mondo, e più dei 192 milioni di persone che oggi vivono lontano dal proprio luogo di nascita. Come scritto nell’importante rapporto “Migration and Climate Change” (PDF) dell’IOM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) sulle migrazioni climatiche, è una stima «incerta», che secondo lo stesso Myers richiede delle «estrapolazioni imponenti», cioè delle previsioni ben al di fuori dei valori conosciuti del fenomeno. Ma la Banca Mondiale ha fornito una stima non molto migliore: 143 milioni di migranti climatici entro il 2050.

Le cause concrete che costringeranno queste persone a lasciare le proprie case sono molte. Si ritiene che entro il 2099 la temperatura media globale si sarà alzata tra gli 1,8 e i 4 °C rispetto ai livelli pre-industriali, un fenomeno che secondo gli scienziati avrà conseguenze enormi sulla Terra. Ampie fasce di territorio diventeranno più aride, e aumenteranno drasticamente le siccità estreme (si stima che le aree che le patiranno aumenteranno dall’1 al 30 per cento entro la fine del secolo). Le frequenze e le intensità delle piogge cambieranno, con alcune aree che saranno più interessate di oggi (quelle monsoniche) ed altre che lo saranno meno (quelle alle medie latitudini). Unito alla mutata composizione del suolo, tutto questo causerà secondo le previsioni alluvioni più devastanti.

Lo scioglimento dei ghiacci sta innalzando il livello delle acque del pianeta, che aumenterà secondo le stime tra gli 8 e i 13 centimetri entro il 2030, tra i 17 e i 20 centimetri entro il 2050, e tra i 35 e gli 82 entro il 2100, a seconda dei modelli matematici usati per le previsioni. Questo avrà conseguenze potenzialmente enormi per le persone che vivono vicino ai delta dei fiumi e in generale nelle zone costiere, soprattutto sulle isole più piccole. L’innalzamento del livello dei mari poi comporta anche una sempre maggiore salinizzazione del suolo, un fenomeno che ha gravi conseguenze sull’agricoltura e che è naturalmente contrastato dalle piogge. Con i cambiamenti nelle precipitazioni e le siccità, però, questo ciclo è messo a rischio.

Ma nonostante il consenso scientifico sui potenziali – e sui probabili, e sui certi – effetti del cambiamento climatico sulla Terra, prevedere quanti saranno i migranti climatici è complicatissimo. Impossibile, secondo qualcuno. La migrazione, in quanto fenomeno umano, è infatti influenzata da una serie di fattori antropici che possono essere più complicati da prevedere di quelli naturali, già di per sé spesso incerti e approssimati. La quantità di persone che lascerà il proprio luogo di origine per circostanze ambientali, infatti, sarà determinata da una lunga serie di fattori aggiuntivi, prima fra tutte la risposta dei governi locali all’emergenza, ma anche dalla facilità con cui sarà possibile spostarsi per questo genere di fenomeni, dal punto di vista legale.

Spesso, parlando di migranti climatici, si citano gli sfollati degli uragani, tipo le migliaia di persone rimaste senza casa dopo il passaggio di Dorian alle Bahamas. Questo tipo di esempi è efficace per certi aspetti, meno per altri. In primo luogo, non sappiamo esattamente in che misura gli uragani e la loro intensità siano determinati dal cambiamento climatico, anche se molti scienziati inseriscono gli eventi catastrofici degli ultimi anni in uno schema generale di intensificazione dei fenomeni atmosferici.

In ogni caso, gli uragani ricadono in una delle due possibili cause delle migrazioni climatiche: quelle “una tantum”, e cioè legate a singoli eventi disastrosi, invece che a processi lenti e costanti come per esempio la desertificazione delle terre. Ma l’esempio degli uragani serve a capire che l’entità del fenomeno delle migrazioni climatiche dipende in buona parte anche dalla risposta che darà la politica a queste situazioni: lo stesso disastro ambientale infatti potrà costringere decine di migliaia di persone a lasciare la propria casa, oppure poche centinaia, a seconda di come sarà gestita concretamente l’emergenza umanitaria.

I fattori che influenzeranno i flussi migratori legati al clima saranno comunque tanti e complessi, da quelli sociali a quelli economici a quelli politici. La possibilità di migrare, ha spiegato l’IOM, non è prerogativa di tutti e dipende in buona parte dalle risorse economiche e dal contesto sociale delle varie comunità. Non è detto insomma che le persone più esposte al cambiamento climatico saranno quelle che effettivamente migreranno: e questo rende molto complicato fare una stima dei migranti climatici. Tanto più che gli esperti concordano che gli effetti dei cambiamenti climatici, per come li conosciamo oggi, sono prevedibili più o meno fino alla metà del secolo: da lì in avanti, dipenderanno ampiamente – in meglio o in peggio – da quello che l’uomo farà nel frattempo, in termini di risposta alla crisi climatica in corso.

Si ritiene comunque che le aree geografiche più esposte alle migrazioni climatiche saranno i paesi in via di sviluppo, nonostante nella stragrande maggioranza dei casi siano tra quelli che contribuiscono meno alle emissioni pro capite di gas serra, il principale contributo umano al cambiamento climatico. Il sud e l’est dell’Asia sono una delle zone più a rischio, principalmente per l’innalzamento dei mari visto che sei delle dieci principali metropoli asiatiche sono costruite sul mare: Giacarta, Shanghai, Tokyo, Manila, Bangkok e Mumbai. Il 41 per cento della popolazione cinese, il 60 per cento della ricchezza del paese e il 70 per cento delle città più grandi sono sulle regioni costiere. Ma le migrazioni climatiche interesseranno ugualmente l’Africa, specialmente nel delta del Nilo, sulla costa occidentale e nella fascia subsahariana, secondo l’IOM.

Le dimensioni, le caratteristiche e la distribuzione geografica del fenomeno delle migrazioni climatiche determineranno le modalità con cui verrà gestito dai governi di tutto il mondo, anche se in molti sono preoccupati che non siano in corso sufficienti sforzi per prepararsi. Il problema principale, al momento, è che il diritto internazionale non riconosce il diritto all’asilo per motivi ambientali: ed è il motivo per cui la definizione di “rifugiati climatici” è, almeno per ora, inesatta.

I principali documenti che regolano le leggi internazionali sulle migrazioni, la Convenzione di Ginevra del 1951 e il Protocollo relativo allo status di rifugiato del 1967, infatti, restringono la condizione di rifugiato a chi è minacciato nel proprio paese da persecuzioni legate all’etnia, alla religione, alle opinioni politiche, alla nazionalità, ma non contemplano questioni ambientali. E c’è un’altra questione: i rifugiati sono quelli che migrano in un altro paese, mentre non è affatto detto che chi lascerà le proprie case per questioni ambientali si sposterà all’estero.

I rifugiati climatici al momento non esistono, per legge, e in molti ritengono che sarà molto difficile definirli legalmente senza creare grandi ambiguità e zone grigie. Questa difficoltà ha finora frenato provvedimenti in questo senso: gli stimoli sono pochi anche perché sarebbe un processo che aprirebbe probabilmente la possibilità della richiesta di asilo a milioni e milioni di persone, una situazione che sembra adattarsi poco agli attuali umori politici di gran parte dei paesi occidentali.

Per questo, quei paesi a cui è toccato esprimersi in merito hanno cercato di evitare di creare precedenti legali che avrebbero potuto generare reazioni a catena imprevedibili. Uno dei casi più famosi è la Nuova Zelanda, che da anni riceve richieste di asilo da parte di abitanti di isole del Pacifico le cui coste sono progressivamente sommerse dal mare. Nel 2010, per esempio, la richiesta di Ioane Teitiota – un abitante dell’isola di Kiribati – fu respinta non perché le autorità neozelandesi negassero il cambiamento climatico, ma perché la sua rivendicazione non rientrava nei casi previsti dalla legge, e perché altre aree sulla stessa isola erano al sicuro dall’innalzamento del mare. In quel caso, oltretutto, il cambiamento climatico non era davvero l’unica causa della volontà di Teitiota di migrare, che dipendeva anche da altri fattori come la crescita della popolazione locale e le scarse infrastrutture sanitarie.

Così come è complicato prevedere gli effetti del cambiamento climatico, lo è prevedere le migrazioni climatiche: questa incertezza non fa altro che ritardare e rendere più difficile il processo con il quale le persone che chiederanno asilo per questioni ambientali dovranno essere inserite nelle leggi internazionali. Il Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration, il documento approvato nel dicembre del 2018 dall’Assemblea dell’ONU con il voto contrario, tra gli altri, degli Stati Uniti, chiede esplicitamente che i governi facciano dei piani per prevenire le migrazioni climatiche e per aiutare le persone che saranno costrette a spostarsi per questi motivi.

Gli Accordi sul clima di Parigi del 2015, invece, hanno chiesto esplicitamente che un comitato speciale istituito alla Conferenza sul Clima di Varsavia del 2013 si occupi di preparare delle linee guida per definire giuridicamente i migranti ambientali.