La ricerca che ha insegnato ai ratti a giocare a nascondino
In meno di due settimane hanno imparato le regole e dimostrato di divertirsi un sacco
Gli antenati degli odierni ratti iniziarono a scorrazzare sulla Terra circa 14 milioni di anni fa, diventando nel tempo una delle specie di mammiferi più diffuse del pianeta. Il solo genere Rattus conta oggi 64 diverse specie, che si sono adattate a vivere in climi e condizioni molto diversi, nelle campagne e nei grandi centri urbani. Sono ovunque, si riproducono in fretta e fanno paura ad alcuni, anche se sono molto più giocosi di quanto si possa immaginare.
Annika Reinhold, una ricercatrice presso l’Università Humboldt di Berlino (Germania), non è certo la prima a condurre esperimenti con i ratti, ma è probabilmente l’unica ad avergli insegnato con così tanta dedizione a giocare a nascondino. Sotto la sua guida, i ratti hanno imparato le regole dimostrando di gradire molto il nuovo gioco e di essere sempre ben disposti a partecipare a una partita. La ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica Science, offre non solo nuovi spunti sul comportamento dei ratti, ma anche informazioni per comprendere meglio l’apprendimento negli animali.
L’idea di far giocare a nascondino i ratti è venuta a Micahel Brecht, un neuroscienziato dell’università in cui conduce le sue ricerche Reinhold. Incuriosita dall’intelligenza dei ratti e dalle loro spiccate capacità sociali, la ricercatrice si è chiesta se potesse organizzare gli esperimenti partecipando direttamente alle partite, in modo da avere un maggiore controllo sul loro svolgimento.
Per prima cosa, Reinhold ha definito spazio e allestimenti per condurre i suoi test. Ha scelto una stanza di una trentina di metri quadrati e al suo interno ha collocato diverse scatole e barriere, dietro alle quali sia lei sia i ratti si sarebbero potuti nascondere durante le partite. Ha poi selezionato sei giovani ratti e ha trascorso quasi un mese restando in loro compagnia, giocando a corrergli dietro e a raccoglierli dal pavimento con le mani e ad accarezzarli, in modo che familiarizzassero con la loro futura compagna di giochi.
Terminata questa prima fase, Reinhold è passata all’esperimento vero e proprio. Ha messo i ratti in una scatola aperta e poi si è spostata in un altro punto della stanza, attendendo una loro mossa. Incuriositi dal nuovo comportamento del loro essere umano di riferimento, i ratti si sono mossi verso di lei. Il test è stato ripetuto svariate volte e in ogni occasione Reinhold solleticava i ratti come ricompensa per averla raggiunta (a quanto pare, ai ratti piace un sacco farsi solleticare: emettono ultrasuoni che secondo alcuni ricercatori sono equiparabili alle nostre risate).
Nei giorni seguenti, Reinhold ha iniziato a nascondersi parzialmente dopo aver lasciato i ratti nella scatola aperta, aumentando via via la difficoltà dei nascondigli. Anche in questo caso, i ratti che la trovavano ricevevano come ricompensa un po’ di solletico e nient’altro di più materiale, come acqua o cibo, utilizzati di solito in esperimenti di questo tipo.
Reinhold ha poi insegnato ai ratti a nascondersi e ad attendere che fosse lei a trovarli. Per farlo, ha iniziato a solleticare i ratti che lasciavano la loro scatola, si dirigevano altrove e poi rimanevano fermi in attesa dell’arrivo della loro compagna di giochi.
Dopo appena un paio di settimane, spiega lo studio, tutti e sei i ratti hanno imparato a cercare Reinhold, mentre cinque hanno anche imparato a nascondersi seguendo più o meno le regole del gioco. Nel farlo, hanno dimostrato di aver appreso i fondamenti di nascondino: nel turno in cui dovevano cercare, iniziavano quasi sempre dai posti dove Reinhold si era già nascosta, mentre quando si trattava di nascondersi sceglievano di usare come barriera le scatole opache, e non quelle trasparenti. Hanno inoltre dimostrato di aver capito che quando la scatola in cui venivano collocati era aperta significava che toccasse a loro cercare, e che invece quando era chiusa toccasse a loro nascondersi.
Reinhold e colleghi si sono poi chiesti perché i ratti si fossero dimostrati così ben disposti a giocare. La risposta più intuitiva è che fossero alla ricerca di qualcuno che li solleticasse, ma i ricercatori ritengono che ci sia un’altra spiegazione. In molti casi i ratti correvano a nascondersi nuovamente non appena Reinhold li scopriva, senza nemmeno attendere la ricompensa. Questo comportamento suggerisce che il divertimento indotto dal gioco stesso fosse per loro sufficiente, al punto da voler giocare il più possibile senza perdere tempo.
I ratti mostravano inoltre una grande agitazione ogni volta che Reinhold entrava nella stanza e iniziava a giocare con loro. Alcuni compivano piccoli salti, altri iniziavano a correre incontro alla ricercatrice e poi a scappare. Questi comportamenti secondo la ricerca dimostrerebbero ulteriormente che ai ratti piaceva molto giocare a nascondino e non vedevano l’ora di partecipare a nuove partite.
C’è un motivo se i ratti sono impiegati in numerosi esperimenti di laboratorio: sono animali piuttosto ligi al dovere. In cambio di una ricompensa, sono pronti a svolgere incessantemente lo stesso compito centinaia di volte, dando ai ricercatori la possibilità di condurre test ripetibili e nei quali è meno complicato trovare le differenze. Gli esperimenti sono di solito artificiali e lontani dalle esperienze di tutti i giorni di questi animali, e forse anche per questo l’esperimento di Reinhold ha funzionato così bene, stimolando la curiosità dei ratti e la loro voglia di giocare e di fare ciò che gli viene meglio.
La giocosità dei ratti è nota da tempo, come sanno le persone che li tengono come animali da compagnia. Lo studio di Reinhold ha permesso di aggiungere un nuovo pezzo importante per capire le capacità cognitive di questi animali, e il ruolo che ha il gioco nella loro esistenza.
In una fase successiva dell’esperimento, decisamente più invasiva, i ricercatori hanno impiantato nei ratti dei piccoli elettrodi in corrispondenza della corteccia prefrontale, la parte anteriore del cervello coinvolta nell’organizzazione e nella gestione dei comportamenti cognitivi, oltre che delle interazioni sociali. Gli impianti hanno permesso di tracciare l’attivazione di diversi neuroni durante le sessioni di gioco a nascondino. Non è ancora chiaro perché si “accendano” alcune aree della corteccia prefrontale solo in alcune fasi del gioco, ma ulteriori ricerche potrebbero aiutare a capire meglio il funzionamento delle capacità cognitive di questi animali e più in generale del cervello.